FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 43
luglio/settembre 2016

Fughe

 

NON SONO FUGHE

di Loretta Emiri



Quando riuscì a dire “vado in Amazzonia”, ci fu chi sostenne che fuggiva da impegni famigliari e sociali, mentre avrebbe dovuto accettare la condizione di donna infelicemente sposata, prendersi cura della mamma vedova, fare da sguattera ad altri famigliari, aspettare la morte nella località umbra dove era nata; perché è questo tipo di cose che la società pretende da ogni suo membro sano, ortodosso, normale.

Oggigiorno è definita città, ma il luogo in cui nacque non ha mai cessato di essere un feudo, e i suoi vicoli esalano ancora afrori riconducibili al medioevo. Il suo desiderio di fuggire lontano fu ripetutamente torturato negli attrezzatissimi locali allestiti al tempo dell’Inquisizione e riscoperti, in era moderna, nel sottosuolo di una chiesa finalmente sconsacrata. Durante quelle prove devastanti, Fiammetta pensava che l’unica alternativa di cui disponeva era il suicidio. Quando, finalmente, si ritrovò a dodicimila chilometri dal passato aveva da poco compiuto trent’anni. Affacciandosi alla scaletta dell’aereo, il calore tropicale la strinse in empatico abbraccio, mentre il profumo della città giungeva fin dentro il suo spirito. È il profumo che Boa Vista ha rubato alla savana in cui si è insediata, al rio Branco su cui si affaccia, alla foresta amazzonica da cui non dista. Quando si riebbe dall’estasi indotta da quell’essenza, Fiammetta capì che iniziata ormai era la sua vita di adulta.

Possono sembrare tanti, ma i diciotto anni brasiliani passarono in fretta. Ai primi, vissuti in foresta lottando con e a favore degli yanomami, seguirono quelli trascorsi in Boa Vista sensibilizzando la popolazione bianca sui diritti dei popoli indigeni da millenni presenti nella regione. Poi venne Brasilia, base di appoggio per andare e venire da località ove si realizzavano incontri e corsi di formazione per maestri delle etnie presenti sul territorio nazionale. Quindi ci fu il ritorno a Boa Vista, dove si dedicò alla formazione politica e professionale dei maestri delle etnie presenti nello Stato di Roraima. Essendo sempre stata un’alleata degli indios, tra i bianchi annoverava molti nemici: aveva avuto certezza che il telefono fosse sotto controllo; durante manifestazioni pubbliche, i delatori locali la spiavano; invadente e appiccicosa, una donna aveva cercato di divenire sua amica, non riuscendoci essendo maldestra nel ruolo di 007 in gonnella; in alcune situazioni si era sentita in pericolo, mentre l’idea che stava rischiando la vita aveva cominciato a farle compagnia.

Quando si rese conto che alcuni indigeni la stavano calunniando e denigrando, mentre quelli che erano sui colleghi avevano preso a boicottarla, il dolore avvertito fu così devastante da trasformarsi in problemi fisici di varia natura.

A causa della criminosa corsa all’oro scatenata da oligarchie e politici locali, nel frattempo Boa Vista si era trasformata in Porca Vista. Era cresciuta in fretta e disordinatamente: da altre terre erano giunti diseredati che possedevano solo la speranza di conficcare radici; avventurieri di altri Stati erano arrivati con la determinazione di saccheggiare quanto potevano, per poi correre a saccheggiare in altri luoghi.

Caddero alberi frondosi, spuntarono brutti scatoloni chiamati edifici, proliferarono umilianti scatolette definite case, baracche lugubri si moltiplicarono. La città fu invasa, violentata, deturpata, fu sommersa da un mare di sporcizia: detriti e rifiuti ovunque, Via degli Ossi, Piazza della Bestia Morta; l’esuberante vento dell’estate trasportava ora carta igienica usata e odore di putridume. Poche persone cercavano di richiamare l’attenzione delle autorità sul pericolo di malattie ed epidemie. Quattro gatti sparuti parlavano in nome dell’ecologia. La combriccola dei politici-da-bar reclamava per la situazione, senza fare altro, naturalmente, che protestare. Unanimi, tutti loro mentalmente esigevano che gli organi competenti ritirassero l’immondizia, pulissero, zelassero, curassero i luoghi pubblici; Fiammetta pensava che la soluzione del problema sarebbe arrivata solo quando gli abitanti avessero preso coscienza del fatto che piazze e strade sono i salotti della società.

Si ritrovò al solito bivio: con mani e piedi legati, restare in silenzio per sopravvivere, oppure fuggire lontano per dare voce agli indigeni attraverso parole scritte. Si è rifugiata in una tranquilla cittadina marchigiana dove, attraverso l’elaborazione letteraria esplicita e voluta della privilegiata esperienza fatta sta dando continuità all’esperienza stessa. La scrittura è la maniera incontrata per esprimere sentimenti di riconoscenza e solidarietà nei confronti degli indios brasiliani, che hanno dato senso alla sua vita. La contemplazione di squarci del territorio in cui ha scelto di vivere nutre la sua ricerca interiore. Se guarda verso le montagne, le vengono in mente le nonne: una era maestra, l’altra analfabeta, entrambe tenaci e forti come la roccia; sicuramente da loro deriva la caparbietà con cui durante tutta la vita ha lottato, da donna, contro ogni sorta di preconcetto e discriminazione per conquistare libertà di pensiero e azione. Quando, tra la stesura di un brano e l’altro, ha bisogno di un po’ di riposo, scruta le colline marchigiane che in una sua poesia simbolizzano gli amici, quelli veri, sensibili e solidari, quelli che ci aiutano a vivere. Per andare oltre il grigiore della quotidianità, invece, le basta contemplare il mare: in riva al mare disse a sé stessa “vado in Amazzonia”; in riva al mare acquieta sé stessa, ripetendosi “posso sempre tornare in Amazzonia”.

Nella tranquilla cittadina in cui vive, un mese fa è stato ammazzato di botte il nigeriano richiedente asilo Emmanuel Chidi Nnamdi, che era scampato a Boko Haram, pensate! Secondo Fiammetta, la città ideale, la città in cui vorrebbe vivere, è quella che valorizza tutte, indistintamente, le espressioni culturali che la compongono. La città è un prodotto culturale. Tanto più vivace, profonda, diversificata è la vita culturale, tanto più vivibile diviene la città. Per simbolizzare la cultura si può utilizzare un disegno realizzato da Atriyãno Yanomami che rappresenta la maloca,{1} la grande casa comunitaria indigena. La cultura è una maloca dove non esistono strati sociali sovrapposti, categorie, classi, caste, élites.

All’interno della grande casa comunitaria ogni espressione culturale poggia sullo stesso piano, è valorizzata allo stesso modo, è prodotta da tutti gli individui che vi coabitano, ognuno di loro ne è il beneficiario. La presa di coscienza del fatto che la diversificazione culturale è di per sé una ricchezza è il primo passo di un cammino che porta all’esercizio della tolleranza e della pace. Nel comune in cui è nata, come in quello in cui vive, da molti anni vengono rappresentate rievocazioni storiche, con teatranti che sfilano in costume e mettono in scena gare medioevali. Sarebbe ora che i feudi italiani si trasformassero, effettivamente, in città. Sarebbe ora di promuovere manifestazioni culturali contemporanee, di quelle che facciano brillare potenzialità, abilità, creatività di coloro che sul territorio comunale sono nati o hanno scelto di vivere. Sarebbe ora di sostituire rievocazioni stantie con fresche storie di vita, che contribuirebbero a rendere più umana, serena, gratificante, tranquilla, pacifica, la vita sociale cittadina.

Che sia giunta per Fiammetta l’ora di tornare a fuggire?



{1}Maloca: grande casa comunitaria o villaggio indigeno.


Il racconto è inedito.

loretta.emiri@alice.it