FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 40
ottobre/dicembre 2015

Forza & Debolezza

 

L'AMORE, L'AMICIZIA, LA MORTE
I due Guido, il mistero della fine di un rapporto fraterno, una
nuova concezione della vita a 750 anni dalla nascita di Dante

di Marco Testi



Si può fare a meno della retorica? Si possono eludere i luoghi comuni e le negazioni di quei luoghi comuni? Si può garantire di non tradire, a forza di tirarla da tutte le parti, l’immagine di uno scrittore, soprattutto se questo scrittore è considerato il padre ed è vissuto settecentocinquanta anni fa? Sono queste alcune delle inquiete domande che ci si pone quando si deve affrontare la galassia Alighieri. Anche solo per un convegno, seppure di alto livello, come quello promosso venerdì 27 novembre a Tivoli dall’Accademia del Desco d’oro. Perché parlare di qualsiasi cosa che riguardi il Fiorentino nasconde rischi. Soprattutto il rischio della scoperta dell’acqua calda o quello ancora più pericoloso di voler buttare quell’acqua con tutto il bambino per dire cose nuove, per stupire, per farsi vedere fuori dal coro.

D’altra parte il sottoscritto, confrontandosi per di più con un rappresentante dell’ermeneutica come Lucio Saviani, ha conosciuto di nuovo il brivido, insieme terreno e metafisico, di un incontro sempre foriero di emozioni. Per certi versi aveva ragione Foscolo parlando paradossalmente di altri{1}: Petrarca raggiungerà pure la perfezione formale, ma resta in un ambito preciso, monocorde, mentre Dante ci dà la vita in tutta la sua complessità, i suoi abissi, le sue contraddizioni, comprese quelle dell’amore. E Saviani, da parte sua, ha già anticipato uno dei motivi di tanta persistenza: l’avventura prometeica, la sua sfida ai limiti naturali e nel contempo, aggiungerei, la coscienza “virile” della necessità della loro accettazione, e il “labirinto”, il termine è di Saviani, della responsabilità, che, come ha notato il relatore, apre le porte del discorso filosofico e dell’etica, discorso che oggi è, - per fortuna? - tornato prepotentemente di moda.
Quando Rina Giacobbe, la presidente dell’Accademia, ha letto il passo di Paolo e Francesca, ad esempio, quello che avevo in mente di dire diventava fuori contesto. Avrei voluto ricordare che la persistenza di Dante non è dovuta al provincialismo italico e al patriottismo critico, e che invece essa scaturisce dal consenso planetario di critica e scrittura, quasi nessuno escluso, da Chaucer a Borges, e Eliot e Pound, Spitzer, Auerbach, per citare solo pochissimi nomi.

E però quella scelta, certamente di prammatica, inevitabile, finanche retorica per la ricorrenza enorme di riferimenti, mi ha dettato - per citare indirettamente il XXIV del Purgatorio - i tempi e le priorità. Anche perché un elemento nuovo è scaturito dall’intervento di Saviani, che ha riguardato il Convivio. La ricerca quindi di un con, di una zona nuova rispetto alla rissosità del mondo borghese di fine XIII secolo, dovuta anche alla resistenza dei magnati e della antica nobiltà di spada e censo, che ha fatto parlare alcuni di rimpianti e di vagheggiamento di una storia che non c’era più da parte del Fiorentino. In realtà ogni individuo è un insieme di elementi fluidi e in trasformazione continua, e per forza di cose il processo di modellizzazione viene dal conosciuto, anche se convive con una più o meno marcata progettualità e con gli stimoli che senza soluzione di continuità gli vengono dalla sua contemporaneità. Il filosofo ha parlato perciò di quella capacità di Dante di pensare ad un insieme, ad uno spezzare il pane –quello della conoscenza- per condividerlo, per mettere in comune qualcosa che lui aveva “mangiato” dalle parole di Aristotele, di Tommaso, di Guinizzelli e, questo è il punto, dell’altro Guido, il Cavalcanti. Perché la lettura del fin troppo celebre brano di Paolo e Francesca –la celebrità rischia di far diventare sterili le cose-, il riferimento alla condivisione, allo stare insieme anche in una comunità ristretta di anime elette come nel caso dello Stil Novo ha (ri)aperto per forza la questione dell’amicizia e della concezione d’amore in Dante e in Cavalcanti.



Giorgio Vasari, Ritratto di sei poeti italiani
(part.: Dante e Guido Cavalcanti)


Si è sempre pensato che Dante avesse un rapporto di subordinazione conoscitiva e filosofica con l’autore di “Donna me prega”, e questo può essere vero. Ma è altrettanto vero che è possibile che la precoce - o le, secondo altri - andata a Bologna dell’Alighieri gli abbia consentito di prendere contatto diretto con i testi di Guinizzelli,{2} che era morto nel 1276, quando Dante aveva 11 anni. Questa diretta lettura, questa quasi intimità con i libri guinizzelliani ha probabilmente messo il fiorentino in una posizione, se non di superiorità, di privilegio rispetto agli altri del cenacolo poetico cittadino, se non altro perché il secondo Guido aveva preso le distanze dal modello bolognese: la sua visione dell’amore è pessimistica e non irradiata da quella fede che dopo gli anni del traviamento porteranno Dante ad un doloroso e probabilmente traumatico (uno dei motivi della Commedia) distacco dallo Stil Novo.

Perché ad un certo punto finisce quell’amicizia? È a Dante che è rivolta la sdegnosa “I’ vegno ‘l giorno a te ‘nfinite volte”? È la graduale differenza di vedute sull’amore che porta al distacco, e quindi dentro c’è anche il simbolismo salvifico che assume Bice per Dante, e che l’avverroista Cavalcanti non avrebbe mai potuto ammettere? Ed allora è questo il significato del tanto discusso “colui ch’attende là, per qui mi mena/ forse cui Guido vostro ebbe a disdegno” dell’Inferno,{3} vale a dire che quel “cui” è rivolto ad una Bice entrata ormai nella teologia e che quindi Guido non poteva condividere? O non è stata la scelta di Dante di entrare in politica a fianco dei Cerchi, quindi dalla parte di chi aveva tutti gli interessi ad escludere, come aveva fatto Giano della Bella, i Magnati - e Cavalcanti era tra questi -, dalla vita pubblica?

Un recente romanzo di uno dei più noti dantisti contemporanei, Marco Santagata, Come donna innamorata,{4} sembra protendere per un concorso di più cose, dalla visione salvifica dell’amore (“L’amore, dico l’amore vero, annebbia il cervello. L’amore ti sfibra l’anima. L’amore vero –disse scandendo le sillabe –è sofferenza”{5} dice Guido a Dante nella finzione del Novel), fino alla scelta “plebea” di frequentare, anzi di sostenere politicamente “l’annoiosa gente”.{6}
Fino a che non arriva l’esilio comminato nel 1300 dai priori di Firenze, tra i quali c’era Dante stesso. Ma quella data segna la fine di tutta la storia fiorentina di Dante e di quella umana di Guido, che morirà di lì a poco.

Il senso della fine aleggia su tutta questa antica amicizia, sulla politica dei Bianchi, sul luogo dell’amore e del Dolce stil novo. La stesura dell’Inferno significa anche questo. Senza l’abisso non si può capire la salvezza, e la luce può davvero rivelarsi all’uomo solo dopo che le tenebre hanno imprigionato il suo core e lo hanno portato lontano dall’antico giardino delle amicizie elette e dei lieti conversari.



{1}U. Foscolo, Saggi sul Petrarca, in Saggi letterari, a c. di M. Fubini, Torino 1926.

{2}Per un riferimento a questo problema si veda G.Petrocchi, Vita di Dante, Roma-Bari 1993 (terza ed.), p.36.

{3}Canto decimo, vv. 62-63.

{4}Parma, 2015.

{5}Ivi, p.26.

{6}G. Cavalcanti, “I’ vegno ‘l giorno a te ‘nfinite volte”, in Rime, edizione elettronica del testo stabilito da G. Contini in Poeti del Duecento, vol. II, Milano-Napoli 1960, v. 6.


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