FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 40
ottobre/dicembre 2015

Forza & Debolezza

 

LA FORZA DELLA TERRA MESSICANA
Sulla poesia di Marco Antonio Campos

di Emilio Coco



Ciò che più commuove e trova più immediata e prolungata rispondenza nei testi di Marco Antonio Campos (Città del Messico, 1949) è il pronto e sensibilissimo aderire di tutta intera la sua vigile interiorità di uomo e di poeta ai richiami palesi e segreti, remoti e presenti della sua terra. E il senso del paese (“El país” è appunto il titolo di una sua poesia) è presente in tutta la sua opera: “Io ho amato sempre il Messico. / L’ho riconosciuto – l’ho amato – nella mia casa distrutta, / nella mia famiglia distrutta, / nel rapporto con gli amici e anche con i nemici, / nelle donne che ho amato e mi hanno seppellito nella fossa più profonda e buia, / nei paesaggi che al farli miei con una distanza intima / mi emozionano per la loro bellezza che mi creo o m’invento. / E anche se so che questo paese lo ha governato il diavolo, / che noi messicani non siamo stati all’altezza del grande paese, / direte quel che volete, penserete quel che volete, / ma io ho amato sempre il Messico, / sempre”. Insiste Campos nel suo amore per il Messico, quasi ch’egli avverta il rischio che le tante violenze e i tanti tradimenti perpetrati nei suoi confronti lo costringano a fuggire per sempre, ma “a niente servirà la fuga / perché sempre vivrai qui. / Perché sempre morirai qui”. E in un’altra poesia intitolata “Città del Messico” dirà: “Io nacqui qui, scrissi qui, / inseguito, non da demoni, / ma da folletti e fiere, crebbi / nella città illimitata, / e nonostante il suo orrore, la sua miseria e caos, / il suo fumo e il suo viavai senz’anima, / amai il suo sole, il suo enorme e dolce autunno, / le sue piazze come firmamenti, / le tiepide sere nel lieve marzo, / il profilo montagnoso a sud, / la maschera e il coltello della sua gente, / il suo ieri feroce, il suo oggi incerto, / e l’amai, l’amai sempre, l’amai, / l’amai come ama un figlio duro”.

È in questa città, terribile e affascinante insieme, dove gli dèi degli antichi aztechi vagano ancora per le sue strade e nei palazzi del potere, atroci e spietati, incarnandosi negli uomini politici di adesso, che si riempiono le tasche con i cuori della gente torturata e violentata nelle strade del deserto, e nei vari Mida che alimentano la loro ricchezza con la miseria degli altri, dove il poeta ha trascorso la sua infanzia, dove tuttora vive e dove sempre ritorna, dopo ogni suo viaggio nei vari angoli del mondo, magari dopo “una notte di pioggia smisurata in un parco newyorchese”; o in un giorno di sole, “tra ariosi tavolini all’aperto di un caffè parigino”; o “sotto il crepuscolo sull’alto di una piazza a Göteborg”; o a Cartagena de Indias, in Colombia, dove “in piazza Bolívar, ai piedi del cavallo del Libertador, nere e creole e mulatte dai corpi ritmici fanno ballare le foglie degli alberi”; o ad Anversa “lungo le acque lentissime dello Schelda, sotto il cielo plumbeo, la bruma, la pioggia incessante, con il carillon della cattedrale che suona ogni quarto d’ora e risuona per le strade e le case del centro e le mette in equilibrio”; o a Otavalo, nell’Ecuador, con le sue case sui crepacci, case morse dalla ruggine, case con tegole senza colore, dove tremolano e rilucono le foglie degli alberi al vento e al sole di giugno; o a Zamora, in Spagna, “dagli abiti pietrosi, rinchiusamente cupa”, dove nei caffè, “i vecchi, per non sentire il chiacchiericcio, il pettegolezzo, lo sproposito, leggono in ‘La Opinión’ notizie arrivate dagli anni ’30, e nella Piazza Sagasti beccano e becchettano gli uccelli che spezzano il midollo dell’angusta via”; o Tangeri, a Lisbona, o ancora nelle medievali città della nostra Italia, dove ritrovava “il sorriso e il perfetto nove di Beatrice di Folco Portinari” e dove si gloriava di essere “un uomo del Duecento fiorentino in pieno Novecento”, per chiedersi alla fine: chi ha viaggiato senza tregua, sa davvero da dove è venuto e dove andrà?

Così come le meraviglie e le ebbrezze di un tempo perduto si traducono in un quieto e dolce amaro assillo dell’anima, attraverso le figure della madre e del padre, riemerse dal limbo delle stagioni smarrite e recuperate all’attualità dolente del poeta con un’urgenza nuova, mista di tenerezza e di cruccio. Si legga il testo “Per la via degli antiquari”, un tenerissimo omaggio a sua madre, che aveva l’animo dell’antiquario e che una volta comprò una lanterna magica con lo scopo di proiettare le immagini di suo figlio nella sala della casa di Via Pinos, 8, e dimostrare a chi andava a trovarla che egli era il parassita della famiglia e che aveva distrutto la sua gioventù leggendo romanzi e libri di avventura. Sua madre, che sognava di visitare l’Europa e dove non andò mai o non volle andare per i suoi malanni al fegato e alla colonna vertebrale, o per paura di tutto ciò che è vecchio ed estraneo, o per non spendere quanto le sembrava sperperare. Sua madre, che parlava dei viaggi del figlio (rifiutava lo scrittore), convinta però che dovesse rimanere a casa. O il ricordo di suo padre, che si accende di una luminosità intima, si smaterializza quasi e si colora di leggenda. Il padre che amava la fotografia e che pensava la famiglia in bianco e nero, il padre che ascoltava sui dischi di vinile a 33 giri i tanghi degli anni di Gardel e che nel suo modo difficile amava il figlio e s’inorgogliva del suo andare e venire per il mondo, dei suoi diversi libri, delle sue apparizioni in pubblico, e gli raccomandava di mettersi il vestito e la cravatta ogni volta che doveva fare una conferenza.

L’abbrivo al narrare, la latente disposizione al racconto – sia pure un racconto costantemente liricizzato – trova ancora una volta una sua conferma nell’attenzione che il poeta rivolge alle creature femminili, che popolano molte pagine dei suoi libri, descritte con una leggerezza di tocco e cariche di una calda e luminosa sensualità. Ed ecco Stella, che “era acqua e sapeva di vino; dove arrivava si udiva la luce. Era la stella nell’inverno bianco. Era bianca e bella come il paese dove nacque”; o Sonia, col suo “perfetto volto ovale, fatto della geometria della luce, il suo corpo di vent’anni che si stendeva sopra l’erba e la terra incendiate. Sonia, una rosa aperta per la creazione del mondo”; o l’esile ragazza di Buenos Aires, che sembrava “delineata dalla matita sinuosa di Modigliani”; o, ancora, la ragazza fiamminga, con i suoi jeans e la camicetta aperta, con i capelli neri e gli occhi ferocemente timidi, con le natiche e le gambe fatte per la disperazione delle mani, o la bionda ungherese che nell’inverno gelido gli aveva promesso la fioritura a Pest, o la bionda dell’Alta Austria che gli scortica la lingua nel ricordare quanto fossero bevibili i suoi rotondi seni. Donne che il poeta ha amato, ha amato molto, fino a dissanguarsi per poi svegliarsi un giorno “come pietra nel lago o su erba calpestata”.

Spoglie di ogni inutile retorica, le poesie di Marco Antonio Campos arrivano direttamente al lettore perché, come annota giustamente Evodio Escalante, “sembrano sorgere da una conversazione all’orecchio di un amico fidato. Sdegnoso delle sperimentazioni avanguardistiche, il poeta opta per una poesia dove pensiero e sentimento, lucidità e nostalgia si percepiscono a fior di pelle o, meglio ancora, a fior di splendida cicatrice”.

Personalità complessa, con attitudini molteplici e un’ampia curiosità che lo porta a scandagliare con uguale successo i vari campi della letteratura, dalla critica alla saggistica, dall’aforisma alla traduzione, dalla narrativa alla poesia in versi e in prosa, Marco Antonio Campos occupa nelle lettere messicane di oggi un posto di tutto rispetto e chiaramente identificabile. Un’immaginazione calda e persino accesa, libera e talora felicemente anarchica nei propri movimenti inventivi, ci consegna in questi testi, rigorosamente inediti, tutto il carico vario e scavato della sua esperienza di uomo, di letterato e di instancabile viaggiatore, tutta la trama dei moti dello spirito, dai nostalgici ripiegamenti nel geloso cerchio delle giovanili memorie amorose e familiari alla denuncia indignata di un mondo privo di valori che raggiunge l’acme nelle poesie dedicate al suo Paese, nelle quali Marco Antonio si fa spettatore amaro dell’avvilimento morale del suo amato Messico.




POESIE DI MARCO ANTONIO CAMPOS


LA POESÍA

Días claroscuros del invierno del ’68, la poesía
era gorrión que picoteaba y picoteaba la hoja y llegaba
con el invierno frío en el rostro de la joven enlutada,
la ceniza en la frente era fuga y aventura,
y yo sentía o presentía, que salvo relámpagos esporádicos,
mi vida no estaría a la altura de las olas, pero que
amaría el lúcido mar, el sol salvaje, la golondrina azul,
la poesía y el ángel, y, claro, digamos así fue,
y la poesía surgió en mi ventana con el habla
del gorrión y me habló caligrafiándome desde
el rostro moreno y el cuerpo ondulado
de la joven enlutada, y allá, más allá, más allá
de la ribera y de casas exiguas,
que parecen a un metro de precipitarse al mar,
entreveo hoy las montañas en la niebla azul,
y escribo un poema, igual o parecido al que escribí
en aquel invierno monótono, gris, tristísimo del ‘68,
cuando el gorrión entró por la ventana a escribir
–a picotear a picotear– en mi cuaderno de papel pautado
una leve melodía que no dejo de escuchar
cuando vuelven días como los de aquel invierno
lesivo, hosco, hostil, pero que al menos dio con su gran luz
la figura melodiosa de la joven enlutada.

Puerto Vallarta, 2012


LA POESIA

Giorni chiaroscuri dell’inverno del ’68, la poesia
era un passero che beccava e beccava la foglia e giungeva
con l’inverno freddo sul volto di una giovane in lutto,
la cenere sulla fronte era fuga e avventura,
e io sentivo o presentivo che, salvo sporadici lampi,
la mia vita non sarebbe stata all’altezza delle onde, ma che
avrei amato lo splendido mare, il sole selvaggio, la rondine azzurra,
la poesia e l’angelo, e, certo, diciamo che fu così,
e la poesia spuntò alla mia finestra con il linguaggio
del passero e mi parlò calligrafandomi dal
volto bruno e dal corpo ondulato
della giovane in lutto, e là, al di là, al di là
della riva e delle case esigue,
che sembrano a un metro dal precipitare nel mare,
intravedo oggi le montagne nella nebbia azzurra,
e scrivo una poesia, uguale o simile a quella che scrissi
in quell’inverno monotono, grigio, tristissimo del ’68,
quando il passero entrò dalla finestra a scrivere
– a beccare a beccare – sul mio quaderno a righe
una lieve melodia che ascolto ancora
quando tornano giorni come in quell’inverno
lesivo, fosco, ostile, ma che almeno diede con la sua grande luce
la figura melodiosa della giovane in lutto.

Puerto Vallarta, 2012


PÁJAROS

a Emilio Coco

“¿Por qué en tus versos a menudo hallo
golondrinas y palomas?”, me dice Paulina
esta mañana de noviembre gris
en la Alameda céntrica –
y
de súbito
vuela
una
bandada
de palomas.
“No sé, repongo, porque quizá el aire de la bandada
me deja algo, algo que también se va o se fuga,
y hace caer luego, caer en el alma como
gota oscura un sentimiento de carencia o pérdida”

Y Paulina mira en mi mirada la bandada de palomas
que se va o se fuga sobre los álamos

2013


UCCELLI

a Emilio Coco

“Perché nei tuoi versi trovo spesso
rondini e colombe”, mi dice Paulina
questa mattina di novembre grigio
nel Viale centrale –
e
all’istante
vola
uno
stormo
di colombe.
“Non so, rispondo, forse perché l’aria dello stormo
mi lascia qualcosa, qualcosa che pure va via o fugge,
e fa poi cadere, cadere nell’anima come
goccia scura un sentimento di carenza o perdita”

E Paulina guarda nel mio sguardo lo stormo di colombe
che va via o fugge sopra i pioppi.

2013


LIMA Y EL MAR

a Antonio Cisneros

¿Qué sería Lima sin el mar?
Sin pelícanos ni gaviotas,
sin horizonte ni acantilados
¿no sería un yermo al lado de la cordillera?
Sin la plaza de Armas, sin el cuadrángulo exacto de
plaza San Martín, Lima existiría en el menos,
pero aún nos quedarían el mar y el horizonte gris.
Sin la precipitación del Rímac, la ciudad no tendría
su río, existiría menos en el mucho menos,
pero partida en dos desmoriría la historia.
Sin la poesía de Cisneros, Lima existiría
con mil caminos, pero no tendría su Poeta.
Aquí, en el barrio de Barranco, bajo el cielo gris, llamándome
diciembre por el 12, oigo el mar, el golpe, el golpeteo
de las olas, el aire ríspido del pelícano, la discrepancia
de la gaviota, las faldas de mujeres que oigo en un
solo rasguido.
No sería desventurado
a los años de uno, con la carga de uno, premorirse
en la angosta bajada o en el muelle de Barranco,
allá, allá por esa curva…

2009


LIMA E IL MARE

ad Antonio Cisneros

Che cosa sarebbe Lima senza il mare?
Senza pellicani e gabbiani,
senza orizzonte e scogliere
non sarebbe una landa a fianco della cordigliera?
Senza la plaza de Armas, senza il quadrangolo esatto di
plaza San Martín, Lima esisterebbe nel meno,
ma ci rimarrebbero ancora il mare e l’orizzonte grigio.
Senza la precipitazione del Rímac, la città non avrebbe
il suo fiume, esisterebbe di meno nel molto meno,
ma divisa in due rivivrebbe la storia.
Senza la poesia di Cisneros, Lima esisterebbe
con mille strade, ma non avrebbe il suo Poeta.
Qui, nel quartiere di Barranco, sotto il cielo grigio, chiamandomi
dicembre dal 12, odo il mare, il rumore, il rumorio
delle onde, l’aspro volo del pellicano, il dissenso
del gabbiano, le gonne di donne che odo in un
solo arpeggio.
Non sarebbe una disgrazia
per gli anni di uno, con tutto il loro carico, premorire
nell’angusta discesa o sul molo di Barranco,
là, al di là, lungo quella curva…

2009


AQUELLAS CARTAS

El ayer llega en el hoy que saluda ya el mañana.
Era fines del ’72. Yo atravesaba en tren
Europa occidental, o caminaba por saber adónde,
un sinnúmero de calles, y en cuerpos ondulados
de jóvenes tenues, o en la delgadez del aire en la rama
de los castaños, o en reflejos, que creaban imágenes
en aguas del Tajo, del Arno o del Danubio, la creía ver,
y ella lejos, en mí, en Ciudad de México, con sus
clarísimos 19 años, regresaba en verde o azul, para luego irse
y regresar e irse en el ayer que hoy llega para hablar mañana.
Era fines del ’72, y yo no sabía que el mirlo cantaría para mí
a la hora del degüello. Ella hablaba de amor en mí, por mí, de mí,
pidiéndome que le enviara más cartas, que guardaba
–eso decía– en el color de los geranios sobre los muros
de su casa en el barrio de San Ángel, sabiéndola diciembre
que era de otro, pero yo le escribía cartas y cartas
en el compartimiento del tren de una estación a otra
bebiéndome milímetro a milímetro la morenía de su cuerpo
como si fuera antes, sin saber que la tinta se borraba como
el color de los geranios en el muro de su casa.
Pero al evocar ese ayer convertido en un hoy que es ya mañana,
sin escribir ya cartas entre una estación y otra, me parece
que aún oigo la canción del mirlo a la hora del degüello.

Amberes, 2008


QUELLE LETTERE

L'ieri arriva nell’oggi che saluta già il domani.
Era la fine del ’72. Io attraversavo in treno
l’Europa occidentale, o camminavo per sapere dove,
un’infinità di strade, e nei corpi ondulati
di giovani esili, o nella tenuità dell’aria sul ramo
dei castagni, o nei riflessi, che creavano immagini
nelle acque del Tago, dell’Arno o del Danubio, credevo di vederla,
e lei lontana, in me, a Città del Messico, con i suoi
luminosissimi 19 anni, ritornava in verde o azzurro, per poi andarsene
e ritornare e andarsene nell’ieri che oggi arriva per parlare domani.
Era la fine del ’72, e io non sapevo che il merlo avrebbe cantato per me
nell’ora della decapitazione. Lei parlava d’amore in me, per me, di me,
chiedendomi di mandarle altre lettere, che conservava
– così diceva – nel colore dei gerani sopra i muri
di casa sua nel quartiere di San Ángel, sapendola dicembre
che era di un altro, ma io le scrivevo lettere e lettere
nello scompartimento del treno da una stazione all’altra
bevendomi millimetro a millimetro la brunezza del suo corpo
come se fosse prima, senza sapere che l’inchiostro si cancellava come
il colore dei gerani sul muro di casa sua.
Ma nell’evocare quell’ieri convertito in un oggi che è già domani,
senza più scrivere lettere tra una stazione e l’altra, mi sembra
di udire ancora la canzone del merlo al momento della decapitazione.

Anversa, 2008


CON JOAN MARGARIT EN EL CAFÉ DE LA ÓPERA

“A lugares hermosos, donde fuiste feliz,
si anochecen los años, si demora el reloj,
si por nada o por Cristo, es mejor no volver”,
oía a Joan Margarit en el Café de la Ópera.
Veía la Rambla, el Teatro del Liceo.
El tigre del otoño, con uñas feroces,
desgarraba el follaje de los plátanos.
“No te equivoques. Deja que
lo bello, si fue, se transforme en alma”.
Y como furiosa luz me volvieron
días azules y ocasos amarillos e índigos
del mayo del 1971 en la bahía de Acapulco, con
amigos joviales y jóvenes soleadas, o
en largos litorales de arena fogosa, o al lado
de piscinas donde el deseo quemaba a la mujer, o
en la fuga de coches velocísimos en la ancha costera, o
bailando en la pista -con música de estrépito-,
del círculo del Boccaccio o del Tequila a Go Go.
“Yo tenía 22 años, y todo el ímpetu ciclónico
en las aguas ribereñas y en la tierra firme.
¿Sabes, Joan? Desde aquel alegre mayo
no volví a Acapulco. Desde aquel entonces
no quise desleír el azul de aquel entonces”.

Barcelona, 2009


CON JOAN MARGARIT NEL CAFFÈ DELL’OPERA

“Nei luoghi belli, in cui fosti felice,
se tramontano gli anni, se l’orologio tarda,
se per niente o per Cristo, è meglio non tornare”,
udivo Joan Margarit nel Caffè dell’Opera.
Vedevo la Rambla, il Teatro del Liceo.
La tigre dell’autunno, con le unghie feroci,
lacerava dei platani il fogliame.
“Non ti sbagliare. Lascia che
Il bello, se lo fu, si trasformi in anima”.
E come furiosa luce mi tornarono
giorni azzurri e crepuscoli gialli e indaco
del maggio del ’71 nella baia di Acapulco, con
amici gioviali e giovani soleggiate, o
su lunghi litorali di sabbia focosa, o vicino
a piscine dove il desiderio bruciava la donna, o
nella fuga di auto velocissime sull’ampia costiera, o
ballando sulla pista – con musica strepitosa –
del circolo del Boccaccio o del Tequila a gogo.
“Io avevo 22 anni, e tutto l’impeto ciclonico
nelle acque rivierasche e sulla terra ferma.
Sai, Joan? Da quell’allegro maggio
non sono più tornato ad Acapulco. Da allora
non ho voluto stemperare l’azzurro di allora”.

Barcellona, 2009


¿DIJE ESTO?

a Carmen Ruiz Barrionuevo

El reloj de Plaza Mayor suena a la hora en que no vine.
¿Quién me hizo? ¿El azar o Dios?
¿Me hice yo mismo?
¿Demasiados años de dolor y angustia compensan
los jardines repentinos en el año que no vi?
¿Quién recogió de mi cerebro el vidrio
en el canal de la calle para hacerme una ventana?
Odié el odio, quise el bien, traté de hacerlo, pulí la amistad,
asumí el hacerme de enemigos, y la culpa
me siguió tras de los árboles sin alejarme.
Abril fue azul y nadie me esperó este mayo.
Perros conducen a los dueños fuera de las puertas.
Gorriones son puntos verdes en el aire quieto.
“No hace mucho comprendí –le digo a Carmen–
que la vejez es la muerte a media muerte.
Me atristo ante lo mucho o
lo poco que viví, sin saber cómo fue
ese mucho o poco. Metafísica o realmente
me he quedado a un paso de la meta.”

¿Dije esto? ¿Yo lo dije? ¿En verdad lo dije?

Salamanca, 2010


HO DETTO QUESTO?

a Carmen Ruiz Barrionuevo

L’orologio di Piazza Maggiore suona nell’ora in cui non venni.
Chi mi fece? Il caso o Dio?
Mi feci io stesso?
Troppi anni di dolore e di angoscia compensano
i giardini repentini nell’anno che non vidi?
Chi raccolse del mio cervello il vetro
nel canale della strada per farmi una finestra?
Odiai l’odio, amai il bene, cercai di farlo, levigai l’amicizia,
accettai di avere nemici, e la colpa
mi seguì oltre gli alberi senza allontanarmi.
Aprile fu azzurro e nessuno mi ha aspettato questo maggio.
Cani conducono i padroni fuori delle porte.
Passeri sono punti verdi nell’aria immobile.
“Da non molto ho capito – dico a Carmen –
che la vecchiaia è la morte a metà morte.
Mi rattristo davanti al molto o
al poco che ho vissuto, senza sapere come è stato
quel molto o poco. Metafisicamente o effettivamente
sono rimasto a un passo dalla meta.

Ho detto questo? L’ho detto io? L’ho detto veramente?

Salamanca, 2010


QUIEN EN GRANADA

a Victor Rodríguez Núñez

Mañana será frío y leve el aire

El Genil es un río falso
que no canta
y
al que
no puede cantársele

Subo
la
empi-
nada
calle.
En los ojos de los gorriones
miro
doblemente
las cúspides
de la sierra.

Tenía el pelo largo y suave, era esbelta y clara
y medía el desamor en doce árboles

Me miro fuera de los hechos grandes
que anhelé hacer, pero que
no fueron ni serán
Solo y mi alma, con el alma rota, ya
pido prestada un alma

Quise la justicia, la anhelé,
pero a menudo
me llegó a la cara
un borbotón
de
sangre

Casas en los montes
para el volar de
pájaros

¿En qué futuro se mira el melancólico?

Rasga el aire un Ave María
De noche, vírgenes huyen de templos e iglesias,
caminan calles, atraviesan puertas del vecindario, pero
a la mañana regresan más tristes por lo que han visto
Adiós amigos, nos veremos en la casa
de la niebla porque a la tierra no hay regreso
Mi hermano y mis amigos
lanzarán mis cenizas al Pacífico
y llegaré a todas las costas
Pero a vivir aquí ¿llegué demasiado tarde
o demasiado temprano?
Por el amor de Dios, cuántos crímenes perpetra
el hombre por el amor de Dios
No busco decir una blasfemia, pero Dios
¿hizo más el Bien o el Mal?

Creo que dije que tenía el pelo largo y suave
y era esbelta y alba y desmedía el amor en doce árboles

A la Sierra Nevada la cubre una niebla azul

2010


CHI A GRANADA

a Victor Rodríguez Núñez

Domani sarà fredda e lieve l’aria

Il Genil è un fiume falso
che non canta
e
a cui non
non si può cantare

Salgo
la
sco-
scesa
strada
Negli occhi dei passeri
guardo
doppiamente
le cuspidi
della sierra

Aveva i capelli lunghi e soavi, era slanciata e chiara
e misurava il disamore in dodici alberi

Mi guardo fuori dai fatti grandi
che anelavo di fare, ma che
non furono né saranno
Solo e la mia anima, con l’anima spezzata,
chiedo un’anima in prestito

Volli la giustizia, l’anelai,
ma spesso
mi arrivò in faccia
un fiotto
di
sangue

Case sui monti
per il volare di
uccelli

In quale futuro si guarda il malinconico?

Squarcia l’aria un’avemaria
Di notte, vergini fuggono da templi e chiese,
percorrono vie, attraversano porte del vicinato, ma
la mattina ritornano più tristi per quello che hanno visto
Addio amici, ci vedremo nella casa
della nebbia perché alla terra non c’è ritorno
Mio fratello e i miei amici
lanceranno le mie ceneri nel Pacifico
e arriverò a tutte le coste
Ma a vivere qui, arrivai troppo tardi
o troppo presto?
Per l’amore di Dio, quanti crimini perpreta
l’uomo per l’amore di Dio
Non cerco di dire una bestemmia, ma Dio
fece più il Bene o il Male?

Credo di aver detto che aveva i capelli lunghi e soavi,
ed era slanciata e bianca e smisurava l’amore in dodici alberi

Copre la Sierra Nevada una nebbia azzurra

2010


EN LA MEDINA DE FEZ

Mientras zigzagueábamos
por el laberinto de la Medina
–milenaria, desdentada, caóticamente sucia–,
a una pregunta mía el guía me dijo:
“En Marruecos, señor, todo lo que ve
es antiguo, manso, quieto, y nadie,
ni la misma muerte, tiene
urgencia o premura por morir”.

2012


NELLA MEDINA DI FEZ

Mentre zigzagavamo
per il labirinto della Medina
– millenaria, sdentata, caoticamente sporca –,
a una domanda mia la guida disse:
“In Marocco, signore, tutto ciò che vede
è antico, mansueto, calmo, e nessuno,
nemmeno la stessa morte, ha
urgenza o premura di morire”.

2012


EN EL BARRIO DE HABOUS

a Alí Calderón

En el barrio de Habous
se oyen los arabescos
rítmicos en las puertas
grata y sonoramente

Cada cosa que observo
cuenta lo que yo he sido
y recuerda lo ya ido
Tarde llega la tarde

y en el teatro que alcé
alguien baja el telón
Y pregunto: ¿Actué bien?
¿Y cuándo? ¿Cuántas veces?

Callejas, callejones,
súbitas casas mínimas
con calle de vestíbulo,
arcadas sucesivas

Si amas a una mujer
y no te ama y te deja
el cielo queda ciego
y se invierna el jardín

Habous, pequeño dédalo,
en el que uno se guía
por el gran minarete
pero nadie ha de guiarme

porque ya algo me dice
que no volveré a ver,
salvo un milagro (si hay),
el mar de Casablanca.

2013


NEL QUARTIERE DI HABOUS

a Alí Calderón

Nel quartiere di Habous
si odono gli arabeschi
ritmici alle porte
gratamente sonori

Ogni cosa che osservo
racconta quel che fui
ricorda il già passato
Tardi arriva la sera

e nel teatro che alzai
cala il sipario e dico:
Ho recitato bene?
E quando? Quante volte?

Vicoli e viuzze,
fulminee case minime
con strada per vestibolo,
arcate successive

Se tu ami una donna
e non t’ama e ti lascia
diventa cieco il cielo,
è inverno nel giardino

Habous, piccolo dedalo,
dove ci si orienta
col grande minareto
ma nessuno deve guidarmi

perché qualcosa mi dice
che mai più rivedrò
a meno di un miracolo (se c’è)
il mare a Casablanca.

2013


EN UNA PLAZA DE TÁNGER

Pero si no hubiera sido,
si el mar no hubiera sido azul el día de hoy,
si la línea de la costa española no la cubrieran las nubes,
si hubiese habido en ti el toque de locura (diría la Yourcenar)
para hacer la Gran Obra,
si la palabra Destino no hubiera sido como lazo al cuello,
si los viajes no parecieran un sueño que ignoras si
viviste como esa gaviota que ves y desaparece,
aun así, aun así te dirías que la vida fue buena pese a todo,
y pese a todo habrías de escribir que
la vasija de arcilla, doble asa y pico,
se hizo añicos casi toda, pero que aún desde la ventana
de la mañana azul observas en los naranjales de ayer
exiguos pero intensos resplandores, y que en fin hoy,
en esta plaza breve de Tánger, tienes enfrente el
mar Mediterráneo y la línea oscura de
la costa española, y por eso, sólo por eso, por el momento,
te das por creer que la vida se hizo para ti.
Por el momento.

2013


IN UNA PIAZZA DI TANGERI

Ma se non fosse stato,
se il mare non fosse stato azzurro oggi,
se la linea della costa spagnola non la coprissero le nubi,
se in te ci fosse stato il tocco di follia (direbbe la Yourcenar)
per fare la Grande Opera,
se la parola Destino non fosse stata come una corda al collo,
se i viaggi non sembrassero un sogno che ignori se
vivesti come quel gabbiano che vedi e scompare,
eppure, eppure ti diresti che la vita fu bella malgrado tutto,
e malgrado tutto dovresti scrivere che
il vaso di argilla, doppia ansa e becco,
andò in pezzi quasi tutto, ma che ancora dalla finestra
della mattina azzurra osservi negli aranceti di ieri
esigui ma intensi splendori, e che alla fine oggi,
in questa piazza breve di Tangeri, hai di fronte il
mare Mediterraneo e la linea scura della
costa spagnola, e perciò, solo perciò, per il momento,
ti va di credere che la vita è stata fatta per te.
Per il momento.

2013


DOMINGO EN BOGOTÁ

a José María Espinasa
y Ana María Jaramillo

Un domingo frío y de lluvia,
suele ser triste en el mundo,
pero en Bogotá es más triste
pues no lo esperas ni quieres.

Un domingo gris y frío
las montañas se ensombrecen,
la niebla desvae las calles,
no se encuentra a los amigos

y el entoldado de nubes
sombrea los residencias,
los restoranes más viejos
y la cara del desnacido

que no sabe hacia dónde ir.
Un domingo frío y de lluvia
hace pensar en fracasos,
en derrotas que no cejan

y en la soledad que orilla
a sentirse un perro solo.
Un domingo frío y de lluvia
no lo pases en Bogotá.

2011


DOMENICA A BOGOTÁ

a José María Espinasa
y Ana María Jaramillo

Una domenica fredda e di pioggia,
suole essere triste nel mondo,
ma a Bogotá è più triste
perché non l’aspetti né vuoi.

Una domenica grigia e fredda
le montagne si incupiscono,
la nebbia sbiadisce le strade,
non s’incontrano gli amici

e il tendone di nuvole
ombreggia le residenze,
i ristoranti più vecchi
e la faccia del derelitto

che non sa dove andare.
Una domenica fredda e di pioggia
fa pensare a insuccessi,
a sconfitte che non mollano

e alla solitudine che quasi
ti fa sentire un cane solo.
Una domenica fredda e di pioggia
non trascorrerla a Bogotá.

2011


CAMINO A OTAVALO

A Xavier Oquendo y
Gabriel Chávez Casazolay

Casas en quebradas,
casas mordidas por la roña, casas de tejas sin color

¿Por qué en América Latina los árboles
parecen cuellos cortados en el piso?
¿Pero acaso seremos siempre un país sin país?
Dios migró de aquí hace mucho y se fue por
el camino de la niebla donde nadie vuelve
¿Para qué esperar al que estuvo lejos
y no quería volver a contemplar lo que hizo?

De Carapungo a Calderón
se alza una parroquia
para que el nómada y el solitario
recojan la hierba seca

Un momento, les digo:
la caída azul de una golondrina pequeñísima
es una herida en el paralelo cero

Tremolan y espejean
las hojas de los árboles
con el aire y sol de junio

Cactus elevados, manchas de hierba,
piedra calcárea en las montañas,
arbustos ásperos que espinan
Se huele la quemadura del rastrojo

A veces la vida es tranquila como un punto y aparte
No sigas a Ibarra. ¿Para qué?
Desde lo alto Otavalo te parece
un cuadro en miniatura

Es tal la claridad del lago que
se reflejan intactas las casas en las aguas
La niebla, de pies pálidos,
sube despacio
al cráter del volcán

Uno ignora, o apenas si percibe, que
la mayor parte de la vía la anduvo a ciegas

¿Pero como vine aquí?

2011



SULLA STRADA PER OTAVALO

A Xavier Oquendo e
Gabriel Chávez Casazolay

Case su crepacci,
case morse dalla ruggine, case con tegole senza colore

Perché nell’America Latina gli alberi
sembrano colli tagliati per terra?
Saremo forse sempre un paese senza paese?
Dio emigrò da qui da tempo e se ne andò per
il cammino della nebbia dove nessuno ritorna
Perché aspettare chi è rimasto lontano
e non è voluto tornare a contemplare quanto ha fatto?

Da Carapungo a Calderón
si erge una contrada
perché il nomade e il solitario
raccolgano l’erba secca

Un momento, gli dico:
la caduta azzurra di una rondine piccolissima
è una ferita al parallelo zero

Tremolano e rilucono
le foglie degli alberi
al vento e al sole di giugno

Alti cactus, macchie d’erba,
pietra calcarea sulle montagne,
arbusti aspri che pungono
Si odora la bruciatura della stoppia

A volte la vita è tranquilla come un punto e a capo
Non proseguire per Ibarra. Perché?
Dall’alto Otavalo ti sembra
un quadro in miniatura

È tanta la chiarezza del lago che
si riflettono intatte le case nelle acque
La nebbia, dai piedi pallidi,
sale lentamente
sul cratere del vulcano

Ignori, o appena percepisci che
la maggior parte della via l’hai percorsa al buio

Ma come mai sono venuto qui?

2011


EN LA CIMA DEL MÖNSCHBERG

Tristes los mirlos no dejan de cantar
Hojarasca húmeda, rocas enlamadas,
murallas rotas.
Silba el aire. Sííílba.
Veinticinco años es un grito que
horada las murallas.
Amigos dejaron la ciudad y
alumnas del ’89 no volvieron con los ojos azules.
Ah, si lo muy bello que perdí durara aún.
Cuatro o cinco hechos te quiebran en la vida
y cada cosa te despide una penúltima vez,
una última vez que creías paloma en alto,
rosa pálida, guitarra fugitiva.

A distancia se mira árida la cima del Untersberg.
Por allí viví. En el sur. En Birkensiedlung.
A un paso del bosque, bajo la lluvia.

Pero oigan lo que el mirlo no oye. Luché
contra todo, contra el Mal y el Bien, contra
el cretino y el sabio, contra mí mismo.
Los demonios furiosos me rompieron
las cervicales, pero oh Dios, seguí.
En poemas, con vidrios pulverizados, hice
labor de cristalería, y sí, al menos una vez,
en aquella vez al menos, ah qué lejana la adolescencia,
qué dura la juventud algunos años.

Es semana de martes con los meses que allego.
Siempre viajé a una parte que hacía mía, que era mía,
pero al huir de ella sabía que no lo fue.
No han dejado de crecer los abedules, pero
aquellos que veía a menudo, de aquellos que veía a menudo
sólo oigo la canción del mirlo y el tajo de la raíz.

Salzburgo, 2014


SULLA CIMA DEL MÖNSCHBERG

Tristi i merli non smettono di cantare
Umide foglie secche, rocce muscose,
muraglie rotte.
Fischia l’aria. Fìììschia.
Venticinque anni è un grido che
perfora le muraglie.
Amici lasciarono la città e
alunne dell’89 non tornarono con gli occhi azzurri.
Ah, se le cose bellissime che ho perduto durassero ancora.
Quattro o cinque fatti ti spezzano nella vita
e ogni cosa ti congeda una penultima volta,
un’ultima volta che credevi colomba in alto,
rosa pallida, chitarra fuggitiva.

A distanza si guarda arida la cima dell’Untersberg.
Da quelle parti vissi. Nel sud. A Birkensiedlung.
A un passo dal bosco, sotto la pioggia.

Ma ascoltate ciò che il merlo non ode. Ho lottato
contro tutto, contro il Male e il Bene, contro
il cretino e il saggio, contro me stesso.
I demoni furiosi mi spezzarono
le vertebre cervicali, ma oh Dio, ho proseguito.
Nelle poesie, con vetri polverizzati, ho fatto
un lavoro di cristalleria, e sì, almeno una volta,
quella volta almeno, ah quant’è lontana l’adolescenza,
com’è dura la gioventù alcuni anni.

È settimana di martedì con i mesi che riunisco
Sempre ho viaggiato a una parte che facevo mia, che era mia,
ma fuggendo da essa sapevo che non lo era stata.
Non hanno smesso di crescere le betulle, ma
quelle che vedevo spesso, di quelle che vedevo spesso
solo odo la canzone del merlo e il taglio alla radice.

Salisburgo, 2014


EN LA GRAN RUTA

C’est la vraie marche. En avant, route.
Rimbaud, Iluminaciones

Y cómo no lo iba a hacer, cómo no iba a ser
si el camino era, cómo no iba a andar a pie
si mi paso era de viento, si el vivir no sabía del
fiel de la balanza, andar a pie –decía Thoreau–
es la manera de llegar más lejos, y yo, y yo
de los veinte a los treinta quería conocer todo,
conocía todo –figuras italianas ritmadas
a la más alta pintura, catedrales sin Dios,
calles medidas según la sombra o luz, plazas
del tamaño de una aguja, conventos coloniales
donde el diablo hacía planes con la muerte,
riberas melancólicas del Arno, el Sena y el Danubio,
largos muelles del Jónico en la punta de los dedos–,
conocía el paso leve de los años, el peso de los daños,
escandía el endecasílabo y mi propia manera de avistar:
allá, a ojo de pájaro, vislumbro Barcelona gris
en Año Nuevo, Andalucía con mujeres tan bellas
que Dios se sorprendió de su creación, Cáceres
perfectamente puesta en la piedra medieval,
Salamanca de tarde en el mañana
en el múltiple ayer que ya os decía,
Ávila con el hábito de Teresa
a ras de pasto, Segovia en el recuerdo fresco
de Martha delgada en fuente grande, Madrid mustio
con aire de provincia y con la bota del déspota
en el rostro que a muchos alegraba,
y yo era veloz y fuerte, melancólico y violento,
y me iba, ya lo dije, caray, me iba
cambiándome la máscara según el teatro,
me iba repitiéndome la línea de Eliot:
“No hasta luego, sino adelante, viajeros”.
Pero en los treinta y cuarenta, con el
paso de los años, con el peso de los daños,
en efecto, sí, aún así lo veía todo,
oía todo, todo lo quería hacer mío:
escúchese el Mediterráneo al pie de Cabo Sounion,
el gorrión bajo el ciprés al mirar el mar en Sami,
el olor del jazmín o del geranio en la mínima Karlóvassi
aquel verano cuando Ritsos veía cerca el fin,
cuando Elytis, en su casa de Atenas veía cerca el fin,
castillos y ríos de la Provenza, colinas dulcísimas
de Italia, ay, aquella verde Austria
–biblioteca, bosque, ermita, escaparate – con
personas amigas que me dieron la mano en un país
tan pequeñamente grande, tan áspero y
oscuramente bello, en fin, me iba, ya dije, me iba
con la máscara gastada por la distorsión de hechos,
por la fatuidad caída en tierra del Miserere al
De Profundis, me iba, me iba diciéndome
la línea de Eliot:
“No hasta luego, sino adelante, viajeros”.
Pero otra vez el paso de los años, el peso de
los daños: los cincuenta y sesenta, la furia
de la hoguera en el furioso pecho,
creyendo ser de nuevo totalmente
el de los pies de aire, el velocísimo caballo
llevándose en montura la América Latina,
pero el paso callaba, el paso se paraba,
y yo en el despaso, ay, despacio me veía:
la ceniza en la frente, el navío del corazón
hundido a pique, el diapasón llorado en la,
el maquillaje sucio en la cara del payaso,
que dolido, con las armas melladas,
se presenta en el círculo del circo y arroja
las máscaras con ira pues ya no sirven
para esconder nada ni engañar a nadie.
¿Seguir adelante?, sí. ¿Decir palabras como otrora,
antaño o hace ya tiempo?, sí, ¿Valió la pena
la vida?, sí, ¿Me enorgullece haber visto y
viajado como lo hice?, sí. Pero al menos,
al menos contéstenme dos cosas:
¿Dónde quedó lo que yo anduve? ¿Cómo saber
si lo vivido fue?

2011


SULLA GRANDE STRADA

C’est la vraie marche. En avant, route.
Rimbaud, Iluminaciones

E come non farlo, come non essere
se la strada era, come non andare a piedi
se il mio passo era di vento, se il vivere non sapeva
dell’ago della bilancia, andare a piedi – diceva Thoreau –
è il modo per arrivare più lontano, e io, e io
dai venti ai trent’anni volevo conoscere tutto,
conoscevo tutto – figure italiane ritmate
alla più alta pittura, cattedrali senza Dio,
strade misurate secondo l’ombra o la luce, piazze
della grandezza di un ago, conventi coloniali
dove il diavolo faceva piani con la morte,
rive malinconiche dell’Arno, della Senna e del Danubio,
lunghi moli del mare Ionio sulla punta delle dita –,
conoscevo il passo lieve degli anni, il peso dei danni,
scandivo l’endecasillabo e il mio stesso modo di avvistare:
là, a occhio d’uccello, scorgo Barcellona grigia
nell’Anno Nuovo, l’Andalusia con donne così belle
che Dio si sorprese della sua creazione, Cáceres
perfettamente posta nella pietra medievale,
Salamanca di pomeriggio nel domani
nel molteplice ieri che già vi diceva,
Avila con l’abito di Teresa
rasente il prato, Segovia con il ricordo fresco
di Martha esile nella grande fontana, Madrid avvizzita
dall’aria provinciale e con lo stivale del despota
sul volto che faceva la gioia di molti,
e io ero veloce e forte, malinconico e violento,
e mi cambiavo, l’ho detto già, caspita, mi
cambiavo la maschera secondo il teatro,
mi ripetevo la frase di Eliot:
“Non a presto, ma avanti, viaggiatori”.
Ma nei trenta e nei quaranta, col
passare degli anni, col peso dei danni,
in effetti, sì, anche così vedevo tutto,
udivo tutto, volevo fare tutto mio:
si ascolti il Mediterraneo ai piedi del Capo Sounion,
il passero sotto il cipresso guardando il mare a Sami,
l’odore del gelsomino o del geranio nella piccola Karlovassi
quell’estate quando Ritsos vedeva vicina la fine,
quando Elytis, nella sua casa di Atene vedeva vicina la fine,
castelli e fiumi della Provenza, colline dolcissime
dell’Italia, oh, quella verde Austria
– biblioteca, bosco, eremo, vetrina – con
persone amiche che mi diedero la mano in un paese
così piccolamente grande, così aspro e
oscuramente bello, insomma, me ne andavo, l’ho già detto, me ne andavo
con la maschera logorata dalla distorsione dei fatti,
dalla fatuità caduta a terra dal Miserere al
De Profundis, me ne andavo, me ne andavo dicendomi
la frase di Eliot:
“Non a presto, ma avanti, viaggiatori”.
Ma ancora una volta il passare degli anni, il peso dei
danni: i cinquanta e i sessanta, la furia
del rogo nel furioso petto,
credendo di essere di nuovo totalmente
quello dai piedi di vento, il velocissimo cavallo
che si portava in sella l’America Latina,
ma il passo taceva, il passo si fermava,
e io perduto il passo, ahi, lento mi vedevo:
la cenere sulla fronte, la nave del cuore
colata a picco, il diapason pianto in la,
il trucco sporco sulla faccia del pagliaccio,
che, dolente, con le armi scheggiate,
si presenta nel circolo del circo e butta
le maschere con rabbia perché più non servono
a nascondere niente né a ingannare nessuno.
Andare avanti?, sì. Dire parole come allora,
una volta o tempo fa?, sì, Valse la pena
la vita?, sì. Mi sento orgoglioso di aver visto e
viaggiato come ho fatto?, sì. Ma almeno,
almeno, rispondetemi a due cose:
Dove rimase quello che percorsi? Come sapere
se il vissuto fu?

2011


Traduzione dallo spagnolo di Emilio Coco


Le poesie selezionate provengono dall’ultimo libro – ancora inedito – di Marco Antonio Campos Non per molto tempo [No para mucho tiempo] che nel febbraio 2016 uscirà in Italia con La Vita Felice (a cura di Emilio Coco).




Marco Antonio Campos (Città del Messico, 1949)
è poeta, narratore, saggista e traduttore. Ha pubblicato le raccolte di poesia: Muertos y disfraces (1974), Una seña en la sepultura (1978), La ceniza en la frente (1979), Monólogos (1985), Los adioses del forastero (1996), Viernes en Jerusalén (2005) e Dime dónde, en qué país (2010). La casa editrice El Tucán de Virginia ha pubblicato nel 2007 la sua poesia completa con il titolo: El forastero en la tierra (1970-2004).
È autore dei romanzi Que la carne es hierba (1982) e Hemos perdido el reino (1987), dei libri di racconti La desaparición de Fabricio Montesco (1977) e No pasará el invierno (1985), dei saggi Señales en el camino (1984), Siga las señales (1989), Los resplandores del relámpago (2000), El café literario en ciudad de México en los siglos XIX y XX (2001), Las ciudades de los desdichados (2002), Indicaciones (2014) e delle raccolte di interviste De viva voz (1986), Literatura en voz alta (1996) e El poeta en un poema (1998). È autore del libro di cronache De paso por la tierra (1998) e del quaderno di aforismi Árboles.
Ha ottenuto in Messico i premi Xavier Villaurrutia (1992) e Nezahualcóyotl (2005), il premio iberoamericano Ramón López Velarde (2010), e in Spagna il Premio Casa de América (2005) per Viernes en Jerusalén, il Premio del Tren Antonio Machado (2008) per la poesia “Aquellas cartas” e il Premio Ciudad de Melilla (2009) per Dime dónde, en qué país. Nel 2004 gli è stata conferita la Medaglia presidenziale Pablo Neruda del governo cileno.
Ha tradotto Baudelaire, Rimbaud, Gide, Artaud, Roger Munier, Emile Nelligan, Gaston Miron, Gatien Lapointe, Saba, Cardarelli, Ungaretti, Quasimodo, Georg Trakl, Reiner Kunze, Carlos Drummond de Andrade, e, in collaborazione con Stefaan van den Bremt, i poeti belgi Miriam Van Hee, Roland Jooris, Luuk Gruwez, André Doms e Marc Dugardin.
Suoi libri di poesia sono stati tradotti in inglese, francese, tedesco, italiano e olandese.
In Italia è stata pubblicata l’antologia Nessun luogo che sia mio (gattomerlino, 2013, a cura di Emilio Coco). Una silloge di suoi testi, a cura di Martha L. Canfield, è apparsa nel Quadernario 2015 – Almanacco di poesia contemporanea (Lietocolle).


emilio.coco@alice.it