FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 40
ottobre/dicembre 2015

Forza & Debolezza

 

DUE VITE

di Luciana Mattei



Abbiamo avuto fortuna, trovare una sistemazione così su due piedi non è facile: la notte l’abbiamo trascorsa sui gradini di una chiesa del centro, l’Alberta ed io. Lei accoccolata accanto ai miei piedi col muso poggiato sui miei stinchi, io avvolto nelle coperte che alcuni volontari ci hanno portato recitando il loro copione: perché non vieni, noi siamo al dormitorio del Cristo Re, c’è ancora qualche letto.

Io non ci vado nei dormitori. Non voglio rassegnarmi a orari, aperture e chiusure di portoni e accessi controllati, non voglio che qualcuno possa darmi ordini e dirmi a che ora posso uscire o rientrare. Io non voglio andarci in luoghi così. Figurarsi poi se sono quelli dei preti.

I preti non pagano. Lo Stato non paga. È per questo che sono finito a vivere in mezzo alla strada. Insomma, non solo per questo, ma chiesa e governo hanno fatto la loro parte.

Prima di finire qui, sperduto fra i mille diseredati in questa metropoli, avevo una casa, un lavoro, una moglie, una famiglia.

Nella mia vita precedente ero un piccolo imprenditore edile. L’impresa funzionava bene: Toni ed io eravamo figli di un capomastro, il mestiere lo avevamo nelle ossa da sempre. Io ero il maggiore, Toni era sempre dietro di me, come un cucciolo: gran lavoratore mio fratello, affidabile e preciso, ma le decisioni per portare avanti la baracca le prendevo io per tutti e due. Ho sempre avuto intuito e capacità di realizzare da che parte sarebbe spirato il vento un attimo prima che iniziasse a soffiare. Avevamo una miriade di commesse, assumevamo stagionali per stare dietro al lavoro. Tutto a norma, in cantiere non si scherza: io non volevo grane, Toni era troppo ansioso per poter tollerare di stare fuori dalle regole. Pagavamo tutto, fino all’ultimo centesimo, fra tasse e contributi: non eravamo ricchi, ma la sera poggiavamo tranquilli la testa sul cuscino. Eravamo sereni, ci godevamo le nostre famiglie.

Mio fratello aveva una moglie chiacchierona e quattro figli a scaletta, arrivati nel giro di pochi anni uno dopo l’altro.

Aldina ed io, invece, bambini non ne abbiamo avuti. E sì che mia moglie aveva lasciato il lavoro subito dopo il matrimonio, proprio per potersi dedicare alla famiglia. Lavorava come commessa in una rivendita di materiali per l’edilizia dove ci rifornivamo. A me era piaciuta subito, nonostante quel camice marrone non rendesse giustizia al ramato dei capelli e degli occhi. Però aveva un modo speciale di sorridere, con l’angolo della bocca che si illuminava tutto: io la guardavo rapito, non riuscivo a spiccicare parola quando mi sorrideva. Lei se ne era accorta subito, di questo mio imbarazzo, e sorrideva ancora di più quando me ne stavo zitto e muto come un allocco, in attesa che mi consegnassero la merce che avevo ordinato. Fu lei a prendere l’iniziativa, dopo un po’ di tempo.

– Domenica prossima c’è la sagra delle castagne, su a Monte Romano. Ti va di andarci insieme? – e aveva sorriso in quel suo modo straordinario.

Fu la domenica più bella della mia vita. La tenevo stretta per la vita per non rischiare di perderla in tutta quella confusione, mentre lei mangiava le caldarroste, pescandole con cautela ad una ad una dal cartoccio. Quando ci baciammo, la sua bocca sapeva di bosco e di fumo di legna.

Era coraggiosa, la mia Alda. Lo fu nell’accettare il fatto che i figli non sarebbero mai arrivati, e lo fu nel combattere il male che se l’è portata via cinque anni fa, dopo quasi trent’anni passati insieme.

Ero all’apice della mia fortuna quando iniziò la sua malattia, di lì a poco tutto si sarebbe capovolto, ma non potevo saperlo. Non potevo sapere che le fatture per costi della nuova parrocchia di Santa Maria, la bella costruzione che avevamo realizzato impiegando senza risparmio uomini e materiali di prim’ordine, sarebbero rimaste inevase a tempo indeterminato, come non potevo sapere che la giunta comunale, commissariata per intero, avrebbe lasciato le casse del municipio vuote e una sfilza di creditori in fila ad aspettare pagamenti che non sarebbero arrivati mai. La ditta godeva di buona salute, in quel periodo, per quello avevo accettato di costruire la chiesa e di restaurare l’intero palazzo comunale, senza lesinare su nulla, così come prevedevano i capitolati che avevamo stipulato.

Toni aveva dato qualche segno di perplessità, di fronte a quei lavori enormi per la nostra impresa, ma si fidava di me: in tanti anni, non avevo sbagliato un colpo. Forse in quel periodo era venuta meno la mia capacità di percepire in anticipo le cose: Alda aveva iniziato una serie di visite che avrebbero portato di lì a poco a quel verdetto senza appello, la mia testa iniziava ad essere altrove.

Nel giro di poco tempo, cominciò a sfuggirci tutto di mano, gli introiti mancati ci diedero problemi di liquidità: ne fecero le spese prima le fatture dei fornitori e successivamente gli stipendi degli operai. Le banche ci bloccarono il credito. Alda era al secondo ciclo di chemio, il cancro non le dava tregua.

Quando arrivarono le ingiunzioni del tribunale e poi la dichiarazione di fallimento, mio fratello non resse il colpo: una sera andò a dormire e non si svegliò più.

Mi sentii fragile, svuotato, incapace di rimettere in moto alcunché. E poi, mi sembrava tutto inutile: la dedizione al lavoro, la soddisfazione di poter dare da vivere ad intere famiglie, ad operai venuti dall’altra parte del mondo, l’onestà e il potersene far fregio, il rimboccarsi le maniche per salvare il salvabile e ripartire da zero.

Il giorno in cui mia moglie morì, fu anche il giorno in cui vennero a mettere i sigilli alla villetta bifamiliare che condividevo con mio fratello: mia cognata si era già trasferita da qualche tempo in città da alcuni suoi parenti, aveva trovato un lavoro che le consentiva di portare avanti i figli. Mentre guardavo gli ufficiali giudiziari fare il loro lavoro, scoprii che non me ne importava: la mia Aldina mi aspettava nella morgue per l’ultimo saluto, in quella casa non volevo entrarci più. Le dissi addio percorrendo con un dito il contorno del volto delicato, del collo e delle mani, prima che chiudessero la bara. Ero esausto e non avevo più nulla da perdere. Misi ciò che rimaneva di me in mano alla sorte e me ne andai per sempre.

Stare per strada non è stata una scelta. Avrei preferito avere accanto mia moglie, mio fratello, continuare a lavorare come avevo fatto per tanti anni, magari lasciare ai quattro nipoti l’eredità di un’impresa avviata, e non starmene qui in mezzo a cartoni e coperte vecchie, sul greto del fiume che attraversa questa città enorme, con la sola frequentazione dell’Alberta, la cagna di Peppino, che hanno portato in ospedale due settimane fa, povero Peppino.

L’Alberta ed io ci facciamo compagnia, in attesa del ritorno del nostro comune amico. Quando c’era il suo padrone, dormivamo tutti e tre alla stazione centrale: lui mi ospitava nel suo posto, sotto il terzo arco, di fianco al primo binario. Ma, appena andata via l’ambulanza col mio sodale caricato sulla lettiga, gli altri mi hanno cacciato, dicevano che il posto era di Peppino, che ero solo un ospite, e ora ci dormono la Rossa e Sharif il marocchino. Così, con la mia compagna a quattro zampe, ci siamo avviati sul lungofiume, sperando di poter trovare un luogo dove stipare i nostri averi – miei e di Peppino – e starcene tranquilli in attesa di formare di nuovo un trio.

Abbiamo trovato una specie di anfratto, una grotta rivestita di cemento, bassa e buia, fra i piloni di uno dei ponti secondari, di quelli attraversati solo da auto che corrono senza sosta a tutte le ore, dove non passano turisti e polizia. Sono stato sempre fortunato, con i poliziotti, mai avute grosse grane perché non ne ho mai create. Rappresentano lo Stato e hanno la stessa fisima dei preti: darti un posto fisso in una struttura. Per questo cerco di stare lontano dalle divise.

Ma non è sempre semplice. Quel tipo lo vedevo quasi tutte le sere, al tramonto. Era alto, con un po’ di pancetta. Correva piano, con passi leggeri, appoggiando bene tutto il piede sulla terra battuta. Portava spesso una tuta nera, e un cappellino blu di lana quando pioveva o faceva più freddo. Ascoltava la musica, mentre correva. L’Alberta ed io lo avevamo incrociato qualche volta, mentre eravamo di ritorno al nostro posto. Altre volte, lo vedevamo passare quando eravamo seduti tutti e due sull’ingresso della grotta, a scaldarci con gli ultimi raggi del sole che moriva laggiù in fondo, dietro le colline, io bevendo un goccetto dal cartone di vino che tengo sempre a portata di mano – perché l’alcol è di gran conforto nelle notti gelate – e l’Alberta ad annusare l’aria, seduta guardinga sulle zampe posteriori: eravamo in un posto nuovo, la mia fidata alleata teneva d’occhio la zona. I cani, noi senzatetto, li teniamo per questo.

È stato proprio l’altra sera, mentre attraversavamo il ponte ragionando ognuno dei fatti propri, l’Alberta ed io, che è successo il fattaccio. Cioè, noi non abbiamo visto nulla finché non siamo scesi sulla riva, tranne questi due sconosciuti risalire di corsa le scalette di ferro e montare su un’auto che si trovava ferma dall’altra parte della strada. Si sono infilati dentro di gran carriera, ed uno ha urlato all’autista:

– Vai, vai, vai! – e sono spariti così, velocissimi, in un attimo.

L’uomo alla guida aveva gettato la sigaretta dal finestrino, che era rimbalzata sul marciapiede con la brace ancora accesa. Era quasi intera, gli aveva dato sì e no tre tiri. Ho attraversato la strada, l’ho raccolta con delicatezza e l’ho spenta senza farla spezzare: una paglia semi nuova, un bel colpo di fortuna, l’avrei fumata col quartino di vino che avevo in serbo per la notte.

Il podista dalla tuta nera era riverso sul basolato, a pochi centimetri dall’acqua. Il sangue gli colava dalla bocca, un occhio non lo aveva più, sostituito da una poltiglia rossa. L’Alberta ha iniziato a guaire piano, si è avvicinata al corpo, lo ha annusato e poi è tornata vicino a me, ed ha alzato il muso con fare interrogativo: sono il capobranco, sta a me prendere le decisioni. Come quando lavoravo con Toni.

Con assoluta calma, siamo risaliti sul ponte: nel giro di qualche minuto sarebbe stato pieno di uomini della legge che avrebbero iniziato a fare un mucchio di domande. Avremmo dovuto cercarci un altro riparo, almeno per quella notte.

Il ponte si è popolato di gente dopo poco: la polizia non faceva scendere nessuno. Noi siamo rimasti a sbirciare, confusi fra la folla a debita distanza, in seconda fila. Gli investigatori hanno visto il nostro posto, sono entrati dentro, hanno guardato verso l’alto più volte. Io sono stato lesto a scansarmi per non dare nell’occhio. Quando la folla ha iniziato a scemare anche noi siamo andati via, a cercare un riparo per la notte. L’abbiamo trovato lì, sui gradini della chiesa del centro.

Il mattino dopo eravamo di nuovo sul ponte, di buonora. La zona intorno alla grotta era tutta recintata da nastri bianchi e rossi. Il rifugio, visto dall’alto, sembrava in ordine. Di uniformi, neanche l’ombra.

C’era però una donna bionda sul greto del fiume, vicinissima al limite stabilito dalle forze dell’ordine. Aveva l’aria stravolta, l’accompagnava un’altra signora con gli occhiali scuri, piangevano tutte e due. La donna bionda ha oltrepassato i nastri e si è seduta a terra, accanto alla sagoma di gesso che avevano tracciato la sera prima. Ha ripiegato il cappotto marrone sotto le gambe e si è accoccolata lì, all’altezza del tondo della testa. E poi, ha iniziato a fare un gesto che mi ha stretto la gola: col dito, ha iniziato a percorre lievemente il contorno del viso, del collo e delle mani del corpo disegnato a terra. Una lacrima le si è fermata sulla punta del naso, è stata lì parecchio a dondolare, prima di cadere giù.

Anche a me pizzicavano gli occhi. Sentivo sulle dita la pelle liscia e fredda della mia Alda come era l’ultima volta che l’avevo accarezzata, prima di dirle addio. Percepivo sui polpastrelli la fragilità delle ossa logorate dal male, conservavo nelle mani la memoria dei lineamenti inconsistenti, consumati e vinti.

Ho sprofondato le mani nelle tasche sperando che il calore della lana mi aiutasse a custodire il ricordo, non volevo che quelle sensazioni andassero via. Con mia sorpresa ho toccato la sigaretta, quella cicca fumata pochissimo dal complice dei due probabili assassini: nel trambusto dei recenti avvenimenti l’avevo completamente dimenticata.

La sto guardando, ora, e penso che forse, chissà, potrebbe essere utile. Accenderla e dare tre o quattro boccate di quelle pesanti, col fumo che ti raschia la gola e ti riempie il naso, potrebbe aiutare a dare ordine ai pensieri, a calmare il dolore che si è ripresentato a tradimento. Oppure potrebbe aiutare chi indaga, chi lo sa cosa potranno mai tirare fuori dal filtro.

L’Alberta è accanto a me. Le tiro su il muso fino ad obbligarla a guardarmi negli occhi: voglio che capisca bene quello che sto per dirle.

“Ce ne andiamo in questura ora. Consegniamo la paglia. Ci terranno ore, ci faranno ripetere mille volte ciò che abbiamo visto. Le condizioni le dettiamo subito però: niente ricoveri, niente Cristo Re, niente di niente. Andremo a recuperare la nostra roba alla grotta al più presto e cercheremo un nuovo posto. Anzi, sai che ti dico? Andremo a prendere a calci e morsi la Rossa e quell’altro che sta con lei, lì al terzo arco, ci riprenderemo il posto e ci metteremo ad aspettare Peppino. Siamo forti noi, i più forti di tutti”.


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