FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 40
ottobre/dicembre 2015

Forza & Debolezza

 

LA NUDITÀ DELLA LUCE

di Chiara De Luca



*

Rinasce o rimuore l’aurora di ieri: passi storti sul legno come di un sogno – consueto – il nome di Emma, i bisticci col padre, mentre trapelano crepe nel bianco in alto che filtra le voci; scatta lo scroscio, il lampo dell’interruttore, il respiro tra gli scuri di poca luce lattea gocciata sui mattoni. Ogni cosa sorge al giorno o tramonta al ricordo.
Gli spasmi delle foglie sotto l’ultimo rantolo del vento, la fatica di levare le ciglia alla sconfitta che filtra col buio. La porta schiude l’ovale del silenzio tagliato dall’indistinto di voci: promesse. Sussurrate all’orecchio prima che inizi la danza d’ombre in fuga tra le mura del convento. Accanto allo spettro del ciliegio, la donna curva sui fiori è un disegno sbagliato. Gli occhi in agguato dietro alle tela tengono all’erta il respiro mentre l’aria si avvera. Posa sul selciato i piedi ed è quasi presenza la vanità verbale. Passa l’arco la fame, l’inchino dei rami, il consenso del campanile alla fuga dello sguardo.
Hanno tutti una domanda sospesa d’attesa, come lo schiudersi d’ali appena dietro al muro che separa dalla caduta o dal volo. Un mucchio di piume residuo del cadavere di ieri, ossa rosicchiate dai cani, poco sangue rappreso, la macchia nera di un topo che sporca un istante la ghiaia e svanisce dove senti il lamento del buio. Nulla più a popolare l’assenza. Dove morire non faceva più differenza.


*

Si doveva arrivare alla combustione
per spogliare la profondità delle radici
dell’abissale incendio della terra
spalancare gli arti per cadere,
svellersi da questo inutile sostare.


*

Lava via la colpa di non essere evasa
tastando il buio intenta a farne casa,
insegnami a tenere l’astinenza dal dolore
assetando ogni giorno il carnefice interiore,
perché solo nello sguardo è la vertigine che strema
calmando come un cieco mentre abito la luce.


*

La luce ha fatto perdere le tracce
acquattata nella selva di nuvole
aria vibra gelida nello spavento
muto d’alberi che chinano il capo
sotto la spada carnefice del vento;
tutto piove il mondo turbinando
sul carminio brillato dei mattoni
e foglie avide di linfa e di fiori
in fuga nel boccio prima ancora
di spandersi scoppiando nell’aurora.


*

L’alba infine gravida di mondo
prepara il cielo teso a dire il giorno.
Sia pace o resa o avuto amore
quest’esitare accorto nel risveglio
dei corpi accanto senza più bisogno
di vento d’abbracci o braci di parole;
e domandi al vento di portarti
le note acuminate dei ricordi
ora che hai limato d’acqua e tempo
spigoli d’attese cedute rinunciando
al “mai” del desiderio un senso.


*

Si è fermata una lacrima di notte
tra ciglia di nervature sottili
tanto da quasi sparire nel ventre
di poca terra tesa ad assorbire
il sorriso inconsolabile che ha il sole
chiuso tra le sbarre fitte del balcone.
Dice di quest’aspra fame di silenzio,
dell’ardita resa dello sguardo all’aperto
di un mondo che avvolge e non circoscrive,
alla voce cullante del vento un ascolto.
Dice dell’esistere semplicemente
in pelle di trasparenze che accoglie
il colore vivo di tutte le foglie
sulla palpebra verde increspata
sopravvissuta alla rapida caduta
del busto tra le braccia dei suoi rami.


*

Sarà stata l’inquieta e paziente
trasparenza dell’acqua trafitta
dal sole il segreto, le foglie
che stagliano oasi dove posare
lo sguardo sulla corsa uniforme
di un cielo oggi troppo al respiro,
l’essere stato solo in potenza
nell’amnio di un abbandono
all’aperta contiguità con il buio
dopo di noi a inventare altro nome
all’antico dolore per paura del dono
tremendo della fragile risoluzione
a nascere un poco migliore.


*

Potessero gli occhi ora divenire
sguardo fiammeggiante dal corpo
di piccoli soli sospesi alla pianta
a precipizio sul pozzo del verde
che ardente gorgoglia nel centro
del mite gregge fremente dei gialli
radunati in corsa per celebrare
il primo istante del mondo; noi
ci piegheremmo a non violare
il cerchio di cristallo dell’amore
in piedi tra i raggi all’intersezione
cui convergono i passi delle ore,
lasciando le mani dalla preghiera
dell’attesa che un giorno si spezzi
l’attesa di ricomporre i frammenti,
la pace sarebbe un saluto consueto
non questo fragile dono privato
perché nell’ignoto sia custodito
dove il buio non appicca lo sguardo.


*

Come potrà mai amare l’umano
della luce impazzita delle sere
esplosa, generosa, bimba d’eterno,
nuda, feroce, dimentica d’inverno,
illudere di senso, stremare d’ardore,
colmando di pienezza la visione
sconfitta dal languore della bellezza;
come sfiorare le dita in trasparenze
abbracciare in un vento di cadenze
familiari alla sorgente del battito,
come vestire con grazia gli infiniti
toni dell’acqua sciolta nell’abbraccio,
la dolente dolcezza delle foglie scalze
abbandonate al respiro nel balzo
incontro allo slancio del tramonto
perdutamente ignaro d’ogni disincanto
fiero e sprezzante del buio imminente.


*

Fermento sul fiume dove frugano
a frotte lievi gli uccelli impastando
la farina minuta della luce lievitata
dalle onde, levitata dal vento, forte
e sazia fino allo sgomento tentata
un istante d’immergere il palmo
nel succoso piatto per colmarlo,
fino all’orlo sorridendo negarlo
in pasto a chi disperato di fame
un tempo ha saccheggiato il sole.


*

Poi quando la scopri, la verità, pagata
tanto cara e perciò non più preziosa
hai voglia di affidarla al vento, dirla
a uno sconosciuto sopra un treno
farla a pezzi e spargerla nel fiume
donarla in un sorriso al panettiere
alla postina al tabaccaio chiedere
che ridano di te, bonariamente
al posto tuo, salvare adesso il bene
dal buio in cui di spalle l’hai gettato
farne qualcosa che possa volarsene
via come non hai saputo fare.


*

A mio padre

Si è fatto a lungo attendere l’inverno
le foglie sono state incerte se cadere
dai rami irrigiditi nel mattino –
Adesso poso i piedi sulla brina
costretta a trasformare l’andatura
incontro finalmente alla sconfitta
in grazia al privilegio dell’assenza
depongo questo scudo di speranza
accolgo l’armistizio della rinuncia.


*

Credevo di trovarli tutti ad aspettarmi
schierati sul binario alla stazione
coi volti contratti dalle notti
bruciate a fiutarmi per le strade di Bologna
oppure accovacciati sul muretto dove ho atteso
dieci anni ogni volta di andarmene per poco
dalle prove generali del per sempre;
credevo di cadere in quelle orbite vuote
leggendo il labiale delle bocche deformate,
di stringere le mani nelle tasche per sottrarle
alla stretta delle mani dei Fantasmi verso il vuoto;
ma i versi hanno drenato il sangue dei ricordi
il tempo bendato lo sfregio dei ritorni
e non piove che sole sull’alveare
della piazza all’uscita dalla stazione.


*

In questa primavera d’autunno anche la pioggia
viene invadente in veste d’ospite dell’alba,
lungo i piani alti passa rapida e non sosta
viene in corsa da noi che abbiamo scelto
da sei anni ormai di stare a piano terra
per mettere famiglie di gerani ai davanzali
guardare la gente che passa tra gli scuri
far crescere edera lungo le inferriate
attendere che il sole stia nella cornice
per levare gli occhi senza perdere lo sguardo
spiando dal basso il cielo tra le foglie
in attesa di un vento che venga a separarle.
Torna l’acqua intorno e bussa a ogni porta
passo dopo passo rapidissima ci accerchia;
gocce in agguato su vetri alla finestra
hanno i volti liquidi di quello che non resta,
presto il giorno la chiuderà in un canto
a battere sfumando il ritmo del ritorno.


*

C’è una notte più chiara prima dell’alba
quando il buio è slavato dal bianco sporco
violato soltanto dai lampioni agonizzanti.
Nebbia si svolge come una benda
sugli occhi sfregiati dalla luce dell’estate.
Torna finalmente segreta la bellezza
alla luce pudica di un vagito d’inverno
dove il prato è neve tiepida che placa
attutendo il vento la sete di silenzio.
I cani si fermano quando penso un verso
aderendo di schiena al primo tronco,
pensano abbia smesso ancora di giocare
riportata al via da una memoria che grava
come sulle ciglia acqua che condensa.
E ci sei anche tu sospeso nel punto
dove il cielo si umilia con il mondo
all’orizzonte presidiato dalle forme
degli alberi che si stringono in alto
a custodire congiunti il volo eterno
che non hai più bisogno di spiccare.


*

Anche oggi ci alziamo prima dell’alba
per andare a vedere come muore la brina
sui prati invasi dal ritorno del sole;
cede il ghiaccio, si scioglie per fuggire
nella terra dove torna in moto circolare
dalla trasparenza acqua da ricominciare;
ha un freddo estremo dentro anche il dolore
che mitiga coi giorni il tempo nel passare;
la notte si accontenta delle foglie delle mani
martoriate da stagioni di volti voci e nomi
che il vento rovescia come scaglie tra i rami
a raccogliere le lucciole di un fieno di memoria
deviando la falce del presente che ti assedia.
Più tardi è il trionfo sulla notte del reale
spiana i denti trascinando il carceriere
il cane detenuto al capo di un guinzaglio,
mentre a piede libero le mie gli fanno largo
chinando il capo e distogliendo lo sguardo;
c’è sempre una tana alla fine del giorno
un buio segreto che conoscono i muri,
i ragni operosi negli angoli sicuri
dove seppellirsi per averlo intorno
e restare interi, dimenticati e puri.


*

Ai miei cani

Non so come voi l’alfabeto degli odori
ne seguo brancolando la grafia millenaria
dall’alba dove sorgono e da sempre sono
duri tratti puri che si accennano nell’aria;

chiudo gli occhi piano si disegna il pane
che hanno terminato da poco di sfornare,
ha un ricordo di farina e stretta ancestrale
tra l’uomo e il grano in un tempo animale;

al mercato è intero l’odore delle mele
ha un sentore di raccolta, rosso, di sudore
ben prima che il traffico lo possa dissipare
e ogni via del centro cessi di ricominciare.

Gli odori a mezzogiorno sono un arabesco
vertigine che sfianca, inganno della fame,
chiudo i miei e vedo: gli occhi di mia madre
le sue mani cariche di pizza da infornare,
una neve di ricotta su un prato di sformato,
un cuore di riso, il petto rosso spalancato
dei pomodori rustici dell’orto di Mignano;

le mele hanno un odore più intenso fatte a spicchi
da una madre, bucce si radunano rapide in un canto,
la polpa sul piatto nella casa dell’infanzia.

A sera il disegno degli odori va sfumando,
si attenua con la luce il sentore più vorace,
chiudo gli occhi e fiuto il sangue delle foglie
che perde nel vento il senso acre del verde;
gli occhi delle case si rivolgono all’interno
dove custodiscono il principio dell’inverno;

la sera è più greve l’odore delle assenze
o soltanto più lieve quello delle mele

la notte ha un’attesa di pane da infornare



La silloge è tratta dall’omonimo libro (menzione al Premio Montano per la raccolta inedita).



chiadeluca@hotmail.com