“Colore di un cielo diverso, pioggia altrui, luce che non conobbi nell’infanzia”. In questo verso conciso e dolente il poeta argentino Juan Gelman (Buenos Aires, 1930) riassumeva il suo esilio politico, durato dal 1975 al 1981 e vissuto in grandissima parte a Roma. Riconosciuto come uno dei maggiori poeti in lingua spagnola del nostro tempo e per questo insignito nel 2007 del Premio Cervantes, Gelman è morto il 14 gennaio scorso in Messico, dove viveva da lungo tempo, all’età di 83 anni.
La sua giovinezza è già segnata da un duplice amore, la poesia e l’azione politica. Nel 1956, a cura del collettivo di giovani poeti comunisti da lui fondato, pubblica il suo primo libro di versi. Conosce più tardi il carcere. Milita successivamente nella sinistra peronista e inizia una fitta attività giornalistica, in patria e sulla stampa internazionale. Nel 1975 il suo gruppo lo spinge a lasciare l’Argentina, già in preda ad azioni repressive, e Gelman approda a Roma, dove continua il suo lavoro di giornalista. E a Roma lo coglie il colpo di stato militare del 1976, fonte di innumerevoli lutti per il suo paese e per lui stesso: suo figlio con la giovanissima moglie vengono sequestrati, entrando nell’inferno dei desaparecidos che ha costituito la maggiore infamia della dittatura del generale Videla.
Juan Gelman visse la tragedia nella distanza dell’esilio. Di quell’esilio sono stato uno dei testimoni. Facevo parte di un gruppo di ispanoamericanisti riunito attorno a Vanni Blengino, luminosa e inquieta figura di intellettuale, e collaboravo ai suoi sempre stimolanti seminari presso la Facoltà di Magistero. Frequentavamo la casa di Gelman, ci riunivamo per cene in cui il piacere della convivialità si univa alla riflessione intellettuale e politica, sul presente oscuro e sul futuro ancor più oscuro dell’Argentina. Oltre la scomparsa del figlio e della nuora Juan aveva sofferto la morte di tanti amici fra cui scrittori come Rodolfo Walsh, Paco Urondo, Haroldo Conti; ed era stato condannato a morte dai montoneros per la sua opposizione al loro appello al ritorno in patria dei fuorusciti, che considerava come una corsa al suicidio.
A un piccolo libro, Bajo la lluvia ajena (Sotto la pioggia altrui), scritto a Roma nel 1980, Juan affidò gli aspetti più intimi della sua condizione di allora: “Chiudo gli occhi sotto il solicello romano. / Passi per Roma, sole, / e fra qualche ora passerai / dove fu casa mia, senza portarmi con te / ma illuminando i luoghi da cui manco, / e che reclamo, che mi reclamano. / Ad ogni modo li riscalderai / proprio mentre io dal freddo tremerò”.
Purtuttavia a Roma, nonostante la condizione di esiliato, e direi anche in forza di questa, Gelman aveva trovato calore e amicizia. “Amo questa terra altrui per quello che mi dà, per quello che non mi dà”, scriveva nello stesso piccolo libro. In privato esprimeva un’amichevole dolcezza, che brillava in quello sguardo ironico e carezzevole che si stringeva a proteggersi dal fumo dell’immancabile sigaretta. E anche quella dolcezza era un aspetto di una leadership carismatica che agiva profondamente su coloro che lo avvicinavano, e che fece di lui un punto di riferimento anche per una vasta comunità di esuli: quella “nuova razza di mutanti” che stava sorgendo in Europa, secondo l’ironica definizione del regista argentino Fernando Birri.
Il 1980 ebbe grande rilievo nella vita di Juan e nel nostro rapporto con lui. Fu un anno segnato da un inquietante panorama internazionale, e in Italia dal terremoto dell’Irpinia oltre che da una raccapricciante serie di attentati omicidi, fra i quali la strage di Bologna. E in quell’anno organizzammo insieme a Juan, col patrocinio del Comune di Roma e il caldo appoggio di Renato Nicolini, “mitico” assessore alla cultura, una “Settimana della cultura latinoamericana”, articolata in varie manifestazioni, dal teatro alle arti visive, dalla musica al videotape e alla fotografia, dalla poesia e dalla narrativa al cinema. Parteciparono artisti come Joaquín Roca Rey, i cineasti Fernando Birri, Raúl Ruíz, Gerardo Vallejo, il nostro Citto Maselli, oltre a una fitta rappresentanza di scrittori e poeti: accanto a Gelman furono Eduardo Galeano, Osvaldo Soriano, Mario Benedetti, Ernesto Cardenal, Jorge Adoum, Hernán Castellano. La straordinaria affluenza di pubblico e la presenza di molti esuli, spesso giovani, permise un approfondimento del tema dell’esilio e delle modificazioni che esso produceva non solo sul ruolo degli intellettuali ma anche sulla vita quotidiana di tanti che privi di prestigio e di privilegi di qualsiasi genere, avevano dovuto lasciare i paesi d’origine. E insieme a questo venne dibattuto l’argomento dell’immagine idealizzata che dell’America Latina la cultura progressista europea si era andata costruendo negli anni: il mito dell’America Latina come “terra promessa” della rivoluzione, cioè come luogo delegato dell’utopia. Con tutti gli equivoci e tutta la falsa coscienza che ne derivarono.
In quello stesso 1980 uscì per Guanda in traduzione italiana di Antonella Fabriani, con testo a fronte, Gotán, che raccoglieva testi di Gelman dal ’62 al ’68 e che vinse il Premio Mondello, e in Spagna Hechos y relaciones, contenente due raccolte scritte fra il ’71 e il ’78. Insieme al dattiloscritto di Notas di cui Juan mi aveva offerto una copia, questi libri, dalla aerea felicità di scrittura di Gotán all’immersione nella morte onnipresente dei lavori successivi, mi aprirono la porta di un universo poetico i cui strumenti la distanza e il dolore andavano affinando e affilando. La morte si faceva tema centrale nella poesia di Gelman: non già quella dei naturali ritmi della vicenda umana, ma la morte incomprensibile, alienante, che da se stessa si riproduce e si moltiplica nelle stragi della dittatura. La poesia ne resta attonita, non esprimendo mai una pulsione di violenza opposta alla violenza, ma invece, come scrive Julio Cortázar, “una permanente carezza di parole sopra tombe ignote”. Davanti alla violenza la poesia alza una serie incalzante di “perché”, lacerando se stessa fin nell’intimo del tessuto verbale. Le parole si combinano secondo le norme di una retorica “altra”. Gli elementi formali acquisiscono vibrazioni e tensioni pressoché insopportabili. La forma interrogativa, insistente, reiterata, oltrepassa la normatività retorica, identifica lo spirito che si perde, si smarrisce. “Il timore della vecchiaia invecchia? / il timore della morte immorta? / che sto facendo con le migliaia io / di compagni morti? / mi sto immortando io? / forse vi temo / amati? / ti forse temo paco / viso / come allegria umana? / o li invidio io forse? / o li invidio io forse / uniti come potremmo andare adesso / senza soffrire per il proprio e l’altrui? / ma perché ci piango su di voi / pezzi della mia vedova? / forse posso infine piangere? / posso infine finalmente piangere?”.
È in questa frequentazione della morte che va prendendo luce, attraverso lo smarrimento e la perdita, attraverso l’estenuazione di un non saziabile amore, una visione: e in questa visione la scrittura di Gelman assorbe il “reale” dentro la scrittura, non più come materiale ma come materia che viene detta, che è anzi essa stessa la parola con la quale viene detta. Raggiunge così i grandi mistici che gli sono cari, Santa Teresa, Sor Juana Inés de la Cruz, San Juan de la Cruz. “La loro lettura da un altro luogo – disse anni dopo in occasione del Premio Cervantes – mi ricongiunse con qualcosa che sentivo io stesso, la presenza assente dell’amato”.
Se pure il rapporto con la morte assume in questi testi venature di ambiguità, quasi di fascinazione carnale, in una sorta di desiderio espiatorio che viene da lontano – del resto fu proprio in quegli anni che Gelman visse il suo incontro di fondo con la cultura ebraica in cui erano le sue radici, maturando una definitiva visione della vita come erranza ed esilio – la morte può tuttavia risolversi anche in un’immagine femminile, quasi un esorcismo, frutto dell’inversione per la quale, come ben sapevano i poeti mistici, il corteggiamento della morte è l’affermazione della vita: “adesso un’ombra / si scuote la capigliatura di luce / saluta / col suo cappello di carne e ossa / il suo cappello è di miele / saluta i compagni di carne e ossa e miele”. Un ponte viene gettato fra la morte e la vita, perché avvenga la pacificazione, la mediazione impossibile. Nel 2007, al culmine di una straordinaria messe di riconoscimenti, ricevendo dalle mani del re di Spagna il prestigiosissimo Premio Cervantes, Gelman avrebbe detto: “ahí está la poesía: de pie contra la muerte”.
E questo non credo sia necessario tradurlo.
Dopo quegli intensi anni romani, Juan fu a Madrid, a Parigi. Lasciò l’Europa verso la fine dell’81, andò in Nicaragua, in Messico. Dopo la fine della dittatura visitò più di una volta Buenos Aires, ma non volle tornarvi definitivamente. Ebbe la definitiva certezza dell’assassinio di suo figlio e di sua nuora, ma grazie anche alle instancabili ricerche della sua prima moglie e della madre della ragazza, riuscì a ritrovare una nipote, nata in prigionia e della quale per lunghi anni si era ignorato il luogo di residenza. Scrisse molti altri libri, l’ultimo dei quali pubblicato nel 2013. Negli anni altre traduzioni italiane si sono aggiunte a quella di Gotán.
Ho ritrovato fra le mie carte di allora, scritto sulla mia Olivetti su un foglio ora ingiallito, un breve appunto: “Domani Juan Gelman lascia l’Europa per sempre”. Forse avrebbe dovuto servirmi come avvio di un testo più ampio: a rileggerlo adesso mi pare raccolga, non detto, tutto ciò che avrei voluto dire.
tarquini.francesco@fastwebnet.it
|