FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 32
ottobre/dicembre 2013

Geometrie

 

POESIA, PAZIENTE GIARDINIERA
Breve antologia di Gianfranco Palmery

a cura di Patrizia Passarelli



Cadael

O mio cadente Cadael, angelo
delle cadute e dei capitomboli banali
e terrestri, non principe degli abissi
ma piumato putto dei canali: sei tu
il mio angelo guardiano distratto, mai
più che pubere, inesperto; o sei l’alato
genio della scrittura che in eterno
cade e precipita sulla terra e fatto
volare dalla finestra irrompe
dalla porta con la sua muta scorta
di affanni, e le fanfare dell’eternità?

L’indiscutibile editto di quell’anima
doppia ha deciso il tuo volo: lo negano
ma ti vogliono annegato, angelo
ingenuo e di fuoco: chiuso in gabbia
o annegato – tu, scafo inaffondabile che ondeggia
sulle acque col suo carico ardente.
Come una scritta sacra, su una sacra
benda, un’infula, rifulgeva il tuo nome
di dèmone o di stella, incendiato
astro cadente: Cadael.


Il poeta e la morte

Morte che mi scorporerai, pure sgombra
di me quanto resterà da ogni umana
nostalgia e brama, dismemora
dei mondani amori la mente – o annientami
compiutamente! Per rispetto di questo
almeno ultimatum solenne

LA MORTE

                                     Che insolita
tirata: eroica e insolente, ma col solito
sbaffo d’ironia. Un altro del coro:
perdutamente in cerca d’immortalità ma
sulla punta dei piedi, con ironici voli
e svolazzi e saltelli. Saltellare
non vi salva – tutti siete, fringuelli
e usignoli, nelle reti del ridicolo

IL POETA

Seria e sacra ti so, e scriverei
per te odi e inni per toglierti lo smacco
di somigliare ormai a un trasloco
un po’ losco e a uno sgombro – ma dei figli
del secolo immagina gli odi, i sogghigni...

LA MORTE

Il secolo è nel sacco. Ancora non scegli
fra il tuo cuore e gli stolti? O poeti,
ipocriti agiati, solo capaci di
arroganza e ironia: coi vostri lagni
o le smorfie allo specchio – da nessuno
di voi vorrei celebrato il mio Trionfo!

IL POETA

Però, tu pure che spocchia. E come sempre
di tutto dimentica. Ricorda
per quale potere zampillò da questa lingua
mortale e arida la magia incantatoria
del linguaggio: fu virtù della mia specie
il paziente furore che contrastò
il tuo oltraggio vorace… Vicino a me
non vedi l’ombre amorose dei poeti
morti immortali – i miei mani?

LA MORTE

                                             Le illusioni
tue vedo e della tua razza vanesia
in estinzione… Trastulli
di condannati questi intrugli di rime,
meri rimasugli d’uno spuntato orgoglio
d’arcangeli putacaso spennati – e non sento
che fragore d’ossa e silenzio

IL POETA

Conosco questi veleni. Ma vedi
che sei tu maestra d’ogni sarcasmo

LA MORTE

Ma cosa vuoi da me che mi provochi
con le tue invocazioni e questa fatua
disputa avvocatesca… Aspetta
il tuo turno! Il mio è un lavoro
di confine, io raccolgo il balzello e non do
notizie e garanzie sul dopo: se avrai un corpo
di luce senza postume voglie o il nulla
in dotazione, non so nulla… E poi
che cosa temi: nei tuoi alteri
lamenti, non ti sei sbandierato già
in vita spogliato d’ogni ardore e sordo
alle sirene del mondo?


Carte celesti

È finita allora la sarabanda,
i colpi di spillo e di pugnale,
il fuoco il sangue la danza
ossessa, sacrificale...
Il vento rotea nella stanza
vuota, alza polvere e fogli
ingialliti o ancora candidi: quanti
fitti di versi mai finiti!
Cifre cimmerie, d’intricate carte
celesti tracciati indecifrabili
per stelle ormai spente, crollate
costellazioni della mente: di nascosto
se n’è andata via, ha lasciato la camera
alta deserta la poesia.


Dopo la tempesta

Spogliato ti spegnerai del dispotico
potere della poesia: deposta la bacchetta
magica come Prospero, lo scettro
della sua regalità invisibile, di esiliato,
usurpato, per le sue aeree prodezze alla fine
placato, senza più incanti e incandescenti brame
di rivalsa – ti risveglierai umano all’umile
epilogo arrivato, pregando assolto
di lasciarti partire poi che i tuoi stessi
artifici e incantesimi avrai sciolto,
sapendo il dono reso il nuovo dono;
e dunque qui incidi l’enigmatica
sentenza che non sarà intesa,
la divaricata divisa, l’impresa
che predica: “Ho desideri diversi dai miei”.
Poi comporrai la perdita e il perdono.


Dove ritrovo i pensieri che pensavo

Dove ritrovo i pensieri che pensavo
stanotte o solo un momento fa: aria fumo –
questi stessi pensieri sul pensiero
che svanisce svaniscono non lasciano
di sé che un segno di secco inchiostro
sulla carta – come il nero del fumo
sul muro: la funerea traccia
che dice solo il passaggio, la scomparsa.
Ah pienezza del pensiero che va
inafferrabile e vivo, evanescente-
mente estraneo alla sua vanità:
quieto e rapido respiro della mente
che si espande, ritrae: aria fumo:
finché scompare, spiritale niente.


Fino a che punto posso chiudere fuori

Fino a che punto posso chiudere fuori
l’inferno, tenendo tutte le finestre
chiuse, spenti per sempre il televisore,
la radio, niente giornali, mai porte aperte
al mondo – per dire: a parte i forzatori
eterni di porte, che portano disdette,
scadenze e tutte le oppressioni: orrore
medio che mette la vita alle strette –;
se poi può penetrare attraverso un condotto
o un muro interno, in casa – fin nel letto – ahinoi!
senti come battono al piano di sotto
in un’apoteosi di misteri e squallori
condominiali: disseppelliscono un morto
murato vivo o cambiano vasca e accessori?


Quella poesia raggiante, stellare

Quella poesia raggiante, stellare
che balenava in sogno, ora
non la sogno più – forse appare
ad altri, forse sfolgora
per altri occhi, stella gemma
come è stata per me di notti
incantate; ma nella flemma
di giorni torpidi smorti
c’è solo una poesia planetaria
che conosce la fatica e pena
sotto una legge suntuaria,
senza altra luce che quella
delle lampade, la notte, a schiena
curva – perduto il cielo, in cella.


Tra una poesia e l’altra si distende

Tra una poesia e l’altra si distende
la prosa dei giorni – il prigioniero
andirivieni tra le stanze in sonnolente
cerimonie consumato, nello zelo
vano del quotidiano: quello che resta
fuori dalle poesie, segreto, come
mettere il latte a bollire e aperta
la credenza disporre per la colazione
sul tavolo il pane tagliato nel piatto,
il cucchiaio il coltello la tazza
per il latte, aprire il barattolo
del miele, il burro, lentamente spalmando
il pane – ed ecco, accolta la gatta
sulle gambe, si comincia, sbriciolando.


Poesia, mia paziente giardiniera

Poesia, mia paziente giardiniera,
taglia sfoltisci metti ordine
nel groviglio dei pensieri, in questo
gran disordine dove ogni pensiero
si ripete si perde come in un assedio
di erbe che si fanno presto sterpi
tra loro soffocandosi serpentine
e solo il dispetto, tra serpi e spine,
velenoso verdeggia; anche nei sogni
le ortiche invadono la casa, i ragni
fanno il nido nel mio letto: e tu, presto,
riprendi tutto – ragni erbe serpi,
sotto la tua paziente tutela,
mia poesia, perfetta giardiniera.


I sogni dei gatti

Dove vanno i sogni dei gatti, dove
evaporano? Alle porte di quale
felice paradiso felino si affollano
a volo portando i loro volubili
desideri? Da quei gracili crani
si levano in volute invisibili come
dalla sua lampada il genio che in lieve
evanescente flutto fumoso si agita
nell’aria – oh i gatti sono davvero
calde lucerne di carne dove abita
uno spirito possente e serpentino
che solo il sonno libera e librandosi
sui loro corpi anellati nelle mutevoli
forme del sogno ha il suo solo destino


Gatti e prodigi

Soltanto i gatti delle favole fanno
prodigi? Voi siete i gatti della fera
realtà, i miei gatti feriali
e quotidiani e vi aggirate accidiosi
per le stanze in attesa che mi prodighi
io per voi – e sapete come esigerli,
ben guardati guardiani, i miei tentennanti
prodigi di tutti i giorni; o forse ci stringe
tutti una catena di grigi incanti?
La famosa felina libertà è vera
solo nei sogni: eccoci qua assonnati
asserragliati in casa tra letti
e poltrone, sempre fermi a metà
della storia, incantati: la gatta
bianca dalle orecchie mozzate, il gatto
senza stivali e lo spiantato Carabas


Di tenacia necessità

L’ostinazione è un’anti-virtù – o una virtù
destituita, declinata: come fare di tenacia
necessità; della perseveranza
l’invelenita perversione; eppure, o santa, santa
e dissennata ostinazione! Tu hai sostenuto
Baudelaire nel suo disastro, nella derelizione,
spenti la speranza e il coraggio; contro
il silenzio, le decimazioni, Rolfe, Poe; St. Malcolm
Lowry nel suo ilare naufragio – e tutti,
tutti gli ostinati della terra nelle loro
discese agli inferi, nell’infernale strazio
di testimoniare l’inferno, logorati
dal glorioso smacco, lasciati all’inedia, assediati.
Pietà per gli ostinati, se osano
smentire il mondo, sforzare il rifiuto
di un ordine che non li prevede e ostile
li aspetta – oscuri stemma e stella,
facendosi un destino della disdetta...
Prego per voi, miei intemperanti spettri,
qui convocati, tutelari numi e mani
di apostati e spostati, di irregolari
alla fine aureolati – voi, irriconciliata
consorteria di ex reietti: quali tesori,
o sfortunati capitani: forse sete e ori
avevate da portare in porto – per pretendere
ascolto, conforto? Troppo poco o troppo: un nome,
un sepolcro – e dentro una disincarnata
voce che incanti dall’oltretomba nei secoli


La tacenza

Tu sei avanzato solo nella tacenza,
che non è la virtù alta assoluta
del silenzio, della mente che si fa muta,
ma è come una perdita o un’indigenza
dell’anima, il disanimato tener chiusa
la bocca – se nella mente la veemenza
dei pensieri smentisce quelle labbra
serrate, alternandosi eternamente
in te furore e accidia, inerzia e rabbia.
E come al monacale «fuge, tace
quiesce» potresti mai rispondere
tu mutevolmente muto e loquace,
infervorato e spento, pronto a spendere
parole opache profane così fatuamente
   o a celare tacendo l’inferno o il niente?


La gloria ferita
Ode per John Keats

«Se dovessi morire – rifletteva
nella lettera a Fanny – non avrei
lasciato nessuna opera immortale
dietro di me... se avessi avuto tempo
sarei riuscito a farmi ricordare».
Eppure l’anno prima aveva scritto
a George «penso che sarò tra i poeti
inglesi dopo la mia morte». Ecco
cos’è disperare e sapere: un conflitto

tra umore e giudizio, un perenne allarme
e altalenare dell’idea di sé:
meritare memoria e dubitarne –
se la mente è ormai lesa, poiché
il silenzio e i veleni del mondo
corrompono l’umore e sanno come
alterare il giudizio, come spegnere
sete d’amore e fama con la feccia
dell’odio. «Qui giace uno il cui nome

è scritto nell’acqua» – tutto secondo
il fatale copione Morte in vita –,
e quanto duole l’implacata epigrafe
– ah la buia sconfitta, il fallimento! –
da una voce indelebile smentita
col suo disincarnato incanto nei secoli.
Quella fragile stele al Campo Cestio
che ancora dice la tua pena e intreccia
durata e sparizione è un monumento

ma così in vano alla Gloria Ferita.


Alza gli occhi all’azzurro, guarda le nuvole

Alza gli occhi all’azzurro, guarda le nuvole,
guarda le belle nuvole nubiane
che in carovana nei cieli di Roma
passano, sostano, sospinte dal vento
negriero, nere e luminose: da loro
prendi lezioni di docilità
e splendore

guardale transitare nel loro fulgore
fuggevole incuranti di restare



Le poesie sono tratte:

  • “Cadael”, “Il poeta e la morte”, “Carte celesti” da L’opera della vita, Edizioni della Cometa, Roma 1986.
  • “Dopo la tempesta” da Il versipelle, Edizioni della Cometa, Roma 1992.
  • “Dove ritrovo i pensieri che pensavo”, “Fino a che punto posso chiudere fuori”, “Quella poesia raggiante, stellare”, “Tra una poesia e l’altra si distende” “Poesia, mia paziente giardiniera” da Sonetti domiciliari, Il Labirinto, Roma 1994.
  • “I sogni dei gatti”, “Gatti e prodigi” da Gatti e prodigi, Il Labirinto, Roma 1997.
  • “Di tenacia necessità”, “La tacenza” da Giardino di delizie e altre vanità, Il Labirinto, Roma 1999.
  • “La gloria ferita” da Corpo di scena, Passigli, Firenze 2013.
  • “Alza gli occhi all’azzurro, guarda le nuvole” da Compassioni della mente, Passigli, Firenze 2011.


patrizia.passarelli@fastwebnet.it


Vedi anche, su questo numero
La prosa dei giorni (per Gianfranco Palmery)
di Francesco Dalessandro