FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 31
luglio/settembre 2013

Amori & Distacchi

 

L’AMORE NELLA LETTERATURA
DI GIOVANNI BOCCACCIO

di Marco Cappadonia Mastrolorenzi



L’amor che tutto move (Pd., XXXIII, v. 145)

Nella Repubblica della Letteratura Europea e nel panorama culturale mondiale continuano le celebrazioni per il settimo centenario della nascita di Giovanni Boccaccio (nato il 13 giugno 1313), considerato dalla critica e da molti studiosi uno fra i maggiori narratori italiani ed europei di tutti i tempi. Con il Decameron, per esempio, si impone subito come modello letterario a partire dal XVI secolo e viene tradotto in molte lingue; conosciuto ed apprezzato a livello europeo, tanto da influire, per esempio, anche nella letteratura inglese di Geoffrey Chaucer (italianizzato Goffredo Ciociaro, Londra 25 ottobre 1400) nei Racconti di Canterbury, che riprende, del testo italiano, cornice, personaggi e temi. Soprattutto a partire dal Cinquecento - e dopo il 1525 quando si stampa il libro Le prose della volgar lingua di Pietro Bembo - la sua prosa (con le strutture semiotiche del testo) diventa un modello da seguire, leggere e imitare, e anche dopo la metà del secolo XVI il suo successo continuerà indisturbato, nonostante il suo capolavoro assoluto, il Decameron, fosse stato messo all’indice dalla Chiesa Cattolica (Index librorum prohibitorum, 1525) per opera della Congregazione della Sacra Romana e Universale Inquisizione (o Sant’Uffizio), sotto il pontefice Paolo IV.

Boccaccio è tra i primi grandi scrittori italiani ed europei a possedere una dimensione mondo dell’epoca in cui vive e opera. Basti considerare, per esempio l’impatto che sulla poetica e l’opera dell’autore ebbe il mondo greco del romanzo alessandrino, e quello francese della Chanson de geste e del Roman de Alexandre. È bene rammentare che i codici francesi di due biblioteche veneziane del Settecento comprendono, anche, un codice del Roman d’Alexandre conservato al Museo Correr ms. B.5.8; Vi. 665. E poi l’importanza di Venezia (Bembo a parte) che ha notevolmente contribuito alla fortuna del Boccaccio latino: dal primo volgarizzamento del De mulieribus a quello delle Genealogie e del De montibus.{1}.

L’altra dimensione (per non parlare di quella ovvia autoctona) è quella napoletana, come si sa, o meglio, angioina. La componente napoletana in alcune novelle del Decameron (anche a livello linguistico) è fortemente in evidenza. Si ricorda il convegno Boccaccio angioino svoltosi tra il 26 e il 28 ottobre 2011 a Santa Maria Capua Vetere e Napoli in previsione del settimo centenario della nascita dello scrittore.{2}

Quello che ci interessa in questo scritto, oltre alla dimensione italiana ed europea dello scrittore, è analizzare l’articolata concezione dell’Amore nella letteratura boccaccesca e leggere Boccaccio come grande sperimentatore di generi metrici e letterari che avranno largo seguito in Italia e in Europa nei secoli seguenti. Giovanni Boccaccio sperimenta - ed è bene ricordarlo - vari generi metrici, e narrativi, lavora in versi e in prosa con la stessa maestria e scioltezza, talvolta anche mescolando le due forme scrittorie. Allo stesso modo presenta una visione plurale dell’Amore, una panoramica a trecentosessanta gradi che ne fa uno scrittore moderno per certi versi, anche se, ancora, non completamente svincolato dai canoni culturali della sua epoca.

Ne La caccia di Diana (1333-1334) abbiamo una narrazione in terzine di endecasillabi, un poemetto in diciotto canti composti da cinquantotto versi, dove si celebrano, in chiave mitologica, alcune gentildonne napoletane. Questo lavoro è il risultato della mescolanza di diverse tipologie di letteratura latina medievale e di letteratura volgare. Il motivo principale è quello del contrasto tra castità e amore e della forza di quest’ultimo che riesce a tramutare l’uomo da animale, dotato solo d’istinto, in un essere dotato, anche, di intelligenza. La tematica affrontata dall’autore, che verrà riproposta in modo più ampio nel Decameron e nell’Amorosa Visione, è mutuata dai classici latini Omero e Ovidio oltre che dai romanzi degli ellenistici come Achille Tazio e Senofonte di Efeso (fonti, tra l’altro anche dei Promessi Sposi manzoniani e di gran parte della letteratura d’amore europea) e da quelli cortesi. È qui presente una concezione cortese e stilnovistica dell’Amore che ingentilisce e nobilita l’uomo pieno di virtù.

Il Filostrato (non vinto d’amore, ma amante della guerra) è stato scritto durante il periodo napoletano, probabilmente tra il 1337 e il 1339, in ottave di endecasillabi. Al centro della vicenda vi è l’esperienza amorosa di Troilo e delle implicazioni psicologiche legate alla complicata situazione. Si narra la vicenda amorosa di Troilo, figlio del re di Troia Priamo, innamorato della principessa Criseida, figlia dell’indovino Calcante. Durante uno scambio di prigionieri, però, la giovane donna si innamora di Diomede e il giovane troiano, in cerca di vendetta, si getterà nella battaglia trovando la morte per mano di Achille. Il poema narrativo è tratto dal Roman de Troie, romanzo francese del XII secolo di Benoit de Sainte-Maure. In quest’opera si indaga l’aspetto tragico dell’amore che porta il virtuoso che lo prova a morire accecato dall’ira per essere stato tradito (uno dei modelli eseguiti è la tradizione dei cantari).

Il Filocolo (presumibilmente 1336-1339) è la più interessante e matura delle opere del periodo napoletano, l’unica in prosa e anticipatrice di diversi elementi poi espressi nel Decameron: è un romanzo in cinque libri, scritto (così almeno riferisce Boccaccio) su invito di Maria, figlia di re Roberto d’Angiò e definita gentilissima donna, identificabile con la Fiammetta amata dallo scrittore a Napoli. Il libro in prosa racconta la storia di due giovani, Florio e Biancifiore ed è tratta dal poemetto francese Floire et Blanchefleur del XII secolo e già ripresa dal Cantare di Florio e Biancifiore, scritto in toscano nel XIV secolo. L’autore si ispira anche allo schema del romanzo greco alessandrino, conosciuto grazie alla mediazione di Dionigi di Borgo S. Sepolcro, mentre il motivo del pellegrino amoroso proviene dal Cligès di Chrétien de Troyes. Varie e multiformi sono dunque le fonti e il romanzo, con diversi motivi lirici, epici e, anche, comici.
Vi si narra la storia d’amore del figlio di un re Saraceno e di una schiava cristiana abbandonata. I due fanciulli si innamorano in seguito alla lettura del libro di Ovidio, Ars amandi. È evidente la spia intertestuale che rimanda direttamente all’ipotesto d’origine dell’esecuzione, ovvero i versi danteschi del canto V dell’Inferno quando Francesca racconta a Dante del bacio con Paolo: Quando leggemmo il disïato riso / esser basciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi basciò tutto tremante. / Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: /quel giorno più non vi leggemmo avante. (vv. 133-138, che a sua volta contiene un altro ipotesto d’origine, il romanzo della tradizione cortese che racconta le vicende adulterine di Lancillotto e Ginevra). Dietro vi è, naturalmente, l’uso delle fonti classiche che conosciamo, come la lontana matrice del romanzo occidentale, cioè la ricca letteratura orientale e tardo-ellenistica. Solo per fare alcuni esempi ricordiamo i principali romances greci sopravvissuti (datanti dal II secolo d.C.), come Le avventure di Cherea e Calliroe di Caritone, Abrocome e Anzia di Senofonte di Efeso, Teagene e Cariclea di Eliodoro, Dafne e Cloe di Longo (fonti base per l’intera letteratura amorosa dell’età moderna e contemporanea riutilizzate, soprattutto a livello di palintesto).{3}
Dopo essere stati separati a lungo, attraverso tante peripezie, i due ragazzi si ritrovano, la giovane schiava si converte al cristianesimo e termina con un bel matrimonio segno di assoluta positività a coronamento di un amore virtuoso e benefico. Per Torquato Tasso (per esempio) potrebbe aver funzionato come intertesto esterno nell’episodio drammatico di Clorinda e Tancredi (XII, 51-61; 64-69), quando la donna, al termine di un estenuante combattimento, si accascia al suolo ferita e prima di morire, chiede al suo uccisore di poterla battezzare secondo il rito cristiano (Tasso ne fa un palintesto partendo da fonti e modelli da rielaborare a livello semiotico).

Il Teseida è un poema iniziato, con ogni probabilità, negli ultimi anni del soggiorno a Napoli e completato nei primi anni del rientro a Firenze; è, quindi, databile tra il 1339 e il 1341. Si tratta di un poema eroico scritto in ottave di endecasillabi e costituisce l’antecedente dell’ottava epica e romanzesca del Quattrocento e del Cinquecento ed è strutturato in dodici libri (come l’Eneide di Virgilio) preceduti ognuno da un sonetto che serve da introduzione e sommario, dove il primo contiene l’argomento generale dell’intera opera. Vi è poi una lettera in prosa dal titolo A Fiammetta che ha funzione di proemio dove l’autore dice di voler vincere il «turbato aspetto» della «crudel donna» raccontando una storia d’amore molto antica e simile alla sua e di essersi nascosto dietro uno dei personaggi. Questo poema epico in ottave rievoca le gesta di Teseo che combatte contro Tebe e le Amazzoni, ma il vero centro narrativo è la passione amorosa dei prigionieri Tebani Arcita a Palemone che si invaghiscono di Emilia sorella di Ippolita, regina delle Amazzoni e cognata di Teseo.
I due pretendenti arrivano a sfidarsi a duello (secondo tradizione) per sposare Emilia. Lo scontro tra Arcita e Palemone si conclude con la vittoria del primo, il quale, pur essendo ferito a morte, sposa lo stesso Emilia. Nelle disposizioni testamentarie Arcita lascia scritto che, alla sua morte, Emilia dovrà andare sposa a Pelemone.
Arcita, quindi, muore e Teseo fa predisporre l’ufficio funebre facendo preparare un immenso rogo. Sul luogo dove era stata abbattuta la selva per accendere il rogo viene, poi, fatto innalzare un tempio che custodirà le ceneri del giovane tebano. La storia termina con le sfarzose nozze di Palemone ed Emilia. In questo caso, abbiamo un esempio di lealtà e rispetto per l’avversario (nobiltà d’animo e alto sentire della più alta tradizione cortese) con il trionfo finale delle virtù amorose che possono possedere anche uomini dotato di passionalità e istinti sessuali (concezione biologica dell’amore positiva). Nel poema si sente l’influenza della Tebaide di Stazio, dell’Eneide di Virgilio, della narrativa francese, nello specifico del Roman du Chastelain de Couci di Jakemes de Boulogne, ma l’originalità di Boccaccio consiste nell’aver cercato di creare, in lingua volgare, un nuovo genere epico-cavalleresco (con il superamento delle fonti). Quest’opera boccaccesca fece sentire la sua influenza base nella costruzione letteraria delle opere principali di Matteo Maria Boiardo e Ludovico Ariosto (Orlando Innamorato e Orlando Furioso) e non solo a livello metrico.

La Comedia delle ninfe fiorentine o Ninfale d’Ameto è un’opera didattico-moraleggiante di carattere allegorico. Si tratta di un prosimetro (con terzine di endecasillabi) composto tra il 1341 e il 1342 dopo che l’autore aveva fatto ritorno a Firenze ed è dedicato all’amico Bartolo del Buono (padre del più famoso Niccolò), del quale ci sono pervenuti ventotto manoscritti e otto stampe. All’interno di una cornice che anticipa quella del Decameron sono inserite delle novelle anticipate da un proemio in cui l’autore dichiara che sono degni di essere letti «i passati amori» che riaccendono con maggior piacere quelli nuovi. Si narra la storia di Ameto, un rozzo pastore che si innamora di una ninfa devota a Venere, Lia. Le ninfe, dietro decisione di Lia che sa dell’amore dei Ameto, raccontano al pastore le loro storie d’amore. E così i vari personaggi fisici acquistano valore allegorico e didattico; Mopsa, per esempio, rappresenta la saggezza, Emilia la temperanza, Adiona la giustizia, Acrimonia la fortezza, Agapes la carità e Fiammetta la speranza. In sequenza raccontano la loro storia concludendola con un canto mentre l’ultimo racconto, che termina con un inno in lode a Cibele, viene narrato da Lia. Al termine della storia di Lia appare Venere che, per ordine delle ninfe, prende Ameto e lo getta in una limpida fonte dalla quale egli ne esce purificato (funzione purificatrice dell’Amore).

Amorosa visione è un poema in terzine di endecasillabi (presumibilmente 1342-1343) diviso in cinquanta canti. La narrazione è preceduta da un proemio di tre sonetti che formano un grande acrostico e sono composti da parole i cui monemi corrispondono alle rispettive lettere di ciascuna terzina del poema (ordinatamente e progressivamente). È un poemetto didattico-allegorico, (sovente scivola nello stile parodico) e evidenti sono i debiti nei confronti della Commedia dantesca (la donna gentil, la visio in somnis) e nei confronti di Petrarca (i Trionfi, ma anche il Secretum come modello da eseguire e da scartare); non a caso Boccaccio divulga i due grandi scrittori e li lega unendosi a loro nella triade delle Tre corone della Letteratura Italiana. Il protagonista della storia si addormenta e sogna di andare vagabondando per luoghi deserti quando incontra una donna che lo invita a seguirlo e lo conduce ad un castello con due porte; quella a destra è piccola e stretta e conduce alla virtù, mentre quella a sinistra è grande e larga e promette ricchezza e gloria mondana. Lasciandosi convincere da due giovinetti, sceglie la porta più larga e prende ad attraversare numerose sale sulle cui pareti sono affrescati i trionfi della Sapienza, della Gloria, degli Avari, dell’Amore, della Fortuna e di una donna gentile. Per prima cosa scorge una fontana di marmo sulla quale spiccano quattro cariatidi che rappresentano simbolicamente le quattro virtù cardinali, tre piccole statue di donna, simbolo dell’amore puro, dell’amore carnale e dell’amore venale, e tre teste di animali, un leone, un toro e un lupo che simboleggiano la superbia, la lussuria e l’l’avarizia. In seguito entra in un giardino dove passeggiano donne leggiadre ed egli riconosce tra esse Fiammetta. Con quest’ultima si allontana in un luogo solitario, ma quando cerca di possederla il sogno svanisce. Risvegliatosi, si ritrova così accanto alla guida che lo rimprovera e gli dice che potrà raggiungere quello che desidera solo seguendo la virtù e lasciando i beni terreni. Il poema termina con una invocazione alla donna amata perché sia verso di lui pietosa: «Dunque, donna gentile e valorosa».

Elegia di Madonna Fiammetta (1343-1344) è un romanzo in prosa suddiviso in nove capitoli (l’ultimo dei quali funge da congedo, più un prologo di anticipo) che narra la storia di una donna napoletana abbandonata e dimenticata dal giovane fiorentino Panfilo; un romanzo psicologico strutturato come un lungo monologo-confessione. Assume infatti la forma di una lunga lettera di una fanciulla napoletana alle «innamorate donne mandata» (incipit). La protagonista, che è anche voce narrante, racconta la sua vicenda sentimentale: innamoratasi al primo sguardo di Panfilo, mercante fiorentino, vive una stagione di felicità interrotta però dalla partenza dell’amante per Firenze.{4}
Non si tratta di uno sfogo sincero e appassionato, di una trascrizione spontanea e immediata dei sentimenti: siamo invece di fronte ad un’opera tutta letteraria, interamente strutturata secondo i dettami e i procedimenti della retorica. Non stupisce quindi la complessa e costante trama di riferimenti a fonti svariate, classiche e medievali. Interessante è notare che il Boccaccio, a molti secoli di distanza dalle Heroides di Ovidio, pone una donna come narratrice in prima persona. Fiammetta infatti non è rappresentata come oggetto d’amore, cosa che accadeva di norma nella lirica stilnovistica e trecentesca, ma come persona dotata di volontà ed emotività proprie, attraverso le quali parla alle altre donne per suscitarne la compassione e consolarsi così della propria sofferenza.

Il Ninfale Fiesolano (1344-1346) è un poemetto eziologico in ottave di endecasillabi dove si raccontano le origini di Fiesole e Firenze. Qui Boccaccio riprende le cadenze e le formule linguistiche del cantare popolare toscano cui sovrappone fitti motivi di derivazione classica (Metamorfosi ovidiane, Georgiche e Bucoliche virgiliane). Vi si narra la storia del pastore Africo che si innamora della ninfa Mensola, seguace di Diana. Come le altre ninfe è obbligata alla castità. Venere gli appare in sogno e gli promette di aiutarlo. Intanto, con uno stratagemma, Africo e Mensola si incontrano e si innamorano. Ma la ninfa, consapevole dell’errore fugge e Africo si uccide gettandosi in un fiume. Anche Mensola, rimasta in cinta di Africo, verrà tramutata in un fiume dalla crudele Diana. Secondo Carlo Salinari{5} «lo schema dell’arioso poemetto sembra rifarsi alle favole eziologiche, assai diffuse sulle orme delle Metamorfosi di Ovidio, ma la materia dell’idillio non è ovidiana, come potrebbe far pensare la metamorfosi della ninfa, perché il suo mondo è quello della realtà, interpretato con un gusto fresco e con schietta aderenza, attraverso un linguaggio che, superando le tendenze auliche, esprime, nei modi della poesia popolaresca, i temi della passione, del pudore e del rimorso, accanto a quelli nuovi per il Boccaccio, degli affetti familiari».

Dall’analisi delle differenti concezioni dell’Amore presenti, fin qui, nei lavori letterari di Boccaccio, possiamo determinare le diverse tipologie e weltanschauungen che si articolano e si intersecano dentro i testi:

  • Amore virtuoso (di stampo cortese e stilnovistico; La caccia di Diana)
  • Amore tragico (Filostrato)
  • Amore cristiano e matrimoniale (Filocolo)
  • Amore passionale (che diventa esempio di virtù cavalleresche e cortesi; Teseida)
  • Raggiungimento della virtù (dopo aver lasciato i beni terreni e le pulsioni erotiche; Amorosa Visione)
  • Amore come speranza di riavvicinamento (Elegia di Madonna Fiammetta)
  • Amore al femminile (donna soggetto d’amore; Elegia di Madonna Fiammetta)
  • Amore impossibile (con finale tragico; Ninfale Fiesolano)


Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse (If., V, 137)

È noto che Boccaccio fu uno dei fondatori dell’Umanesimo insieme a Petrarca e il primo grande divulgatore della Commedia dantesca. Ed è proprio l’opera dantesca a costituire il modello per Boccaccio da cui partire verso scarti o esecuzioni. Il Decameron come libro dell’amore. La dedica di Boccaccio al Decameron («comincia il libro chiamato Decameron cognominato prencipe galeotto») rappresenta una spia intertestuale precisa che rimanda esplicitamente ai famosissimi versi danteschi del canto V dell’Inferno quando Francesca racconta a Dante del bacio con Paolo: Quando leggemmo il disïato riso / essere basciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi basciò tutto tremante. / Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: /quel giorno più non vi leggemmo avante. (vv. 133-138). È come se questo episodio (non importa se effettivamente verificatosi o meno) rappresentasse, per sineddoche, la poesia e la letteratura romanzesca amorosa della civiltà cavalleresca, responsabile, in qualche modo, della dannazione dei due cognati che si sono lasciati trasportare dalla passione invece che dominarla (i peccator carnali, / che la ragion sommettono al talento, vv. 38-39). Un idea differente rispetto all’amore cortese dei trovatori, il cui destino inappagato diventa il tema centrale e la stessa idea erotica presente è capace di accogliere in sé una quantità di contenuti etici senza rinunciare completamente al nesso con l’amore naturale per la donna. E l’amore diventa il campo semantico di applicazione nel quale poteva svilupparsi qualsiasi perfezione estetica e morale degli ideali di quella civiltà. Per Boccaccio la dedica al Decameron costituisce l’importante funzione che il libro avrà di intermediario tra gli amanti (oltre che strizzar l’occhio a Dante per iniziare lo scarto dal modello). Se per Dante la virtù sta nel dominare certi impulsi erotici (per poi assoggettarli a una legge superiore e sublimarli ad una concezione dell’Amore Assoluto), per Boccaccio sta, invece (anche), nel soddisfarli e viverli dentro una dimensione fisica e istintuale.



Tre intere giornate (III, IV,V) sono dedicate al tema amoroso in varie sfaccettature (senza calcolare le novelle, comunque, ispirate all’Amore). Nell’introduzione alla prima giornata l’autore-narratore della cornice (prima di passare la parola ai personaggi-narratari) scrive una dedica alle donne preparando così l’orizzonte d’attesa per il destinatario ideale o Lettore Modello. Una letteratura d’evasione, oggi diremmo a destinazione borghese o a destinazione mondo con un’attenzione particolare al contesto culturale femminile e alla tematica amorosa. Le Muse ispiratrici sono ora donne, non più intermediarie tra l’uomo e Dio, ma tra lo scrittore e il testo. L’amore si presenta come una forza irresistibile della natura, come si dice nell’introduzione alla IV giornata: «gli altri e io che vi amiamo naturalmente operiamo» e spesse volte con «grandissimo danno del praticante» (con i pericoli del caso). Egli sviluppa l’aspetto naturalistico dell’Amore, già trattato come fondamento del sentimento stesso dagli antichi. L’amore è un bene e un valore in sé, a prescindere dagli effetti virtuosi di elevazione morale attribuitigli dalla tradizione cortese. Nel Decameron è assente il conflitto tra spiritualità e sensualità, presente, invece, nella cultura del Trecento e (fortemente e drammaticamente) in Petrarca.

Tale idea dell’amore comporta una particolare valorizzazione del ruolo femminile e del rapporto tra i sessi. Eros e sessualità femminile sono rivalutati con grande spregiudicatezza da Boccaccio fino a capovolgere i loci communes della polemica misogina: insaziabilità sessuale, infedeltà, adulterio femminile. L’amore non esiste senza il coinvolgimento del corpo e senza il suo adempimento erotico. Lo stresso tema del suicidio (cfr. per esempio Ninfale Fiesolano), tendenzialmente estraneo alla tradizione cortese, allude all’impossibilità della sopravvivenza fisica senza l’amato. Prende, così, campo una concezione biologica e istintuale della vita che si ritrova in V,1, dove Cimone, per amore di Efigenia, diventa un uomo gentile e virtuoso, ma il necessario compimento erotico dell’amore lo rende violento e lo trasforma in un assassino.

Cade, inoltre nel Decameron ogni distinzione tra amore onesto e amore dilettevole: solo l’amore mercenario è condannato. È nota la simpatia dell’autore per le scene di adulterio femminile. In VII,8 Monna Sismonda applica il suo ingegno nel tradire il marito; l’amore naturale, per esempio, si concentra intorno alla figura di Caterina in V,4, mentre in VI,7 monna Filippa arriva ad esprimere. nel modo più estremo. le ragioni delle donne difendendo l’adulterio davanti al tribunale di Prato come diritto al totale appagamento erotico e alla libertà di gestire il proprio corpo. Filippa giunge addirittura a contestare la validità della legge che condannava a morte la donna adultera poiché fatta dagli uomini contro le donne e senza la loro approvazione.

Notissima è la novella della badessa e le brache (IX,2) il cui monastero di monache si trasforma, alla fine, in un comico incontro tra amanti. Boccaccio, in questo senso, supera decisamente i limiti della concezione cortese dell’amore che diventa una forza eversiva tendente a un livellamento democratico tra i sessi e i differenti ceti della società. La spinta erotica, però, non arriva a mettere in crisi l’ordine borghese, ma soltanto i suoi aspetti più autoritari. In V,9 (novella di Federigo Degli Alberighi) - nonostante il clima iniziale inquadri un uomo che sperpera il proprio danaro per una donna sposata - l’autore non va contro il matrimonio, anzi; il racconto si conclude con le nozze tra Federigo e Giovanna, rimasta vedova (un finale borghese, quindi).

Le donne, e questo è un fatto del tutto nuovo nella letteratura italiana, acquistano dignità di personaggio e si trasformano in soggetto del desiderio (oltre che di oggetto), senza il timore di esprimere i propri desideri erotici; è spesso la donna a prendere l’iniziativa, ella non è priva di coraggio, ma dà prova di ingegno e virtù, anche se il suo campo di applicazione semantico (e prima sociale), nello spazio narrativo, difficilmente va oltre l’ambito erotico.
La donna del Decameron smette di essere la donna angelicata della tradizione stilnovista: è diventata la donna borghese, ingegnosa, intelligente, capace di elevata nobiltà d’animo, ma sempre, come si è detto, dentro la sfera applicativa del ruolo concessogli. In IV,1 Ghismunda trasgredisce l’autorità paterna (e del principe), contrapponendo al padre un ideale di vita costruito intorno a valori nuovi, sulla libertà dei sensi e dell’intelletto. Le sconfitte delle eroine dell’amore e la fine tragica di alcune di esse (cfr. Elegia di Madonna Fiammetta), mettono in luce i limiti storici e culturali cui sono destinate a scontrarsi in quel un sistema sociale.{6} La ribellione di Ghismunda in IV,1 si scontra con una condizione storica in cui la donna è condannata a subire, comunque, l’iniziativa maschile.{7}

Il libro si chiude con l’esempio di Griselda{8} (X,10), segno di una femminilità che rappresenta l’esatto contrario rispetto a Ghismunda e in contrasto anche con le altre figure dell’opera, completamente passiva e sottomessa alla sopraffazione maschile. E qui finisce il grande carnevale della rappresentazione boccaccesca, una società al femminile completamente ribaltata rispetto ai valori della tradizione cortese, dove il ruolo della donna non è affatto secondario, ma più attivo e dinamico (spesso irriverente rispetto all’ideologia dominante).

In definitiva la donna del Decameron è una sorta di proiezione dell’eros e delle pulsioni sessuali maschili della società tardo medievale, un ruolo attanziale che veicola un’ideologia letteraria specifica. Caduto l’interesse per la tematica erotica, e sfruttato fino in fondo il mondo nascosto delle pulsioni erotiche femminili (e degli stratagemmi messi in atto), la donna, il corpo, il sesso tornano ad essere una forza negativa da esorcizzare e condannare. Con Griselda Boccaccio ottiene lo stesso effetto che Dante ottiene con Beatrice contemplata nella Rosa dei Beati e Petrarca con la preghiera alla Vergine nella poesia di chiusura dei Rerum Vulgarium Fragmenta.

Griselda è il modello di perfezione morale femminile plasmato dall’uomo dell’epoca come proprio ideale, forse, irraggiungibile proprio perché non reale, come non sono reali Beatrice e Laura. La condizione reale della donna{9} è un carattere di un contesto storico inesorabile in cui la donna è condannata alla passività e a subire l’iniziativa e le prevaricazioni maschili.

La novella di Griselda, dunque, si pone come éksodos = fuori strada rispetto al resto della popolazione degli attanti femminili presenti ed operanti dentro lo spazio semantico del testo. Fa, però, parte del sistema semiotico della narrazione e del contesto sociale dell’epoca. È quindi una novella intratestuale che secondo il classico schema ascensionale letterario medievale conduce alla virtù partendo dai piani meno elevati del sistema.

Quest’ultimo testo chiude questa grande rappresentazione della classe borghese mercantile e della classe aristocratico cortese di origine cavalleresca. Leggiamo, quindi, questo ultimo racconto come una sorta di agnizione dei personaggi recitanti in questa grande commedia della classe borghese mercantile dell’epoca e della classe aristocratico-cortese in cui si evidenziano maggiormente le virtù cavalleresche di quel mondo. Griselda rappresenta l’esempio massimo di virtù femminile attraverso un comportamento magnanimo, nobile, paziente e sottomesso alla «matta bestialità» maschile (ma anche la determinazione dello sposo).

Tutti quei personaggi recitanti nello spazio narrativo non ci sono più, la scena finale è soltanto per Griselda, il massimo esempio di ideale femminile di quella cultura giunta al termine (per poi svilupparsi in modo differente) del suo percorso storico.


Amor condusse noi ad una morte (If., V, v. 106)

Il Corbaccio risale, forse, al 1365 (data ricostruita filologicamente) e fu composto in volgare, seguendo lo schema delle rime petrose dantesche. L’etimologia del titolo risulta ancora incerta e rimangono due ipotesi: si potrebbe riferire allo spagnolo corbacho e al francese courbache che sta per «sferza contro le donne», oppure potrebbe riferirsi a un uccello (il corvo = corvaccio) simbolo dell’amore che fa uscire di senno. Il protagonista, disperato per l’amore non corrisposto di una vedova, invoca la morte e, dopo essersi addormentato, inizia a sognare. In sogno gli appare lo spirito di un uomo che sostiene di essere il defunto marito della donna il quale dice di essere stato inviato da Dio - e per intercessione della Vergine Maria - per farlo uscire dal labirinto d’amore nel quale è entrato. Il protagonista narra allo spirito (in prima persona) la storia del suo amore e da questi viene messo in guardia sul pericolo cui va incontro a causa della lussuria femminile. Lo spirito lo invita, dunque, alla vendetta che potrebbe proprio consistere, viste le sue indiscusse qualità di scrittore, nella letteratura al fine di smascherare la vera indole subdola delle donne.

Questo tardo scritto boccaccesco rappresenta un ribaltamento della posizione nei confronti della donna rispetto a quanto messo in scena nel Decameron, ma anche rispetto alla produzione letteraria giovanile. A guardar meglio, però, Boccaccio dirige la sua ideologia esclusivamente intorno alla visione misogina, escludendo ogni riferimento ad altra natura. Più che un ribaltamento rispetto alla visione precedente è un dirigersi altrove, puntare il mirino esclusivamente su un modello differente e che aveva visto già il suo compimento con la novella di Griselda che chiude il libro di novelle . Ogni altra posizione e concezione dell’amore legato alla donna in quanto forza fisica non esiste più. L’autore si riposiziona ora all’interno della concezione medievale prevalente. Nel Decameron, ma non solo, l’amore era visto, per così dire, al naturale, come forza positiva e incontrastabile e quelle novelle stesse erano dedicate proprio alle donne, un pubblico non letterato da allietare con testi gradevoli. Ora, invece, l’amore è sentito come motivo di degrado che conduce alla morte dello spirito e le donne, in quanto femmine, sono ripudiate in nome delle Muse classiche, simboli di una letteratura e di un pensiero più elevati e austeri. Nella tarda produzione letteraria,{10} Boccaccio esegue una operazione di scelta e di selezione del destinatario adottando altri criteri; cambia pubblico e ricezione culturale, alza il livello, possiamo dire, muovendosi verso una destinazione esclusivamente di dotti.{11}



{1}20-22 giugno 2013 presso Casa Artom, sede italiana a Venezia della Wake Forest Universuty, North Carolina - USA, si è svolto il convegno per celebrare il VII centenario della nascita di Boccaccio. Il Convegno è voluto essere un omaggio al lavoro svolto trent’anni fa da Vittore Branca e Giorgio Padoan, Boccaccio, Venezia e il Veneto.

{2}Boccaccio angioino. Verso il centenario. Organizzato dalla seconda università di Napoli, la Federico II, l'Orientale di Napoli e l'università di Salerno.

{3}Per il concetto di palintesto (come nuova testura costruita attraverso la rielaborazione semiotica di fonti e modelli) mi permetto di rimandare al mio recente studio Il primato e la norma, in «Letteratura e società», Anno XIII, n. 2 maggio-agosto 2011, p. 43.

{4}Secondo il seguente schema generale: equilibrio iniziale, rottura dell'equilibrio, peripezie dell'eroe, ristabilimento dell'equilibrio. V. PROPP, Morfologia della fiaba, Einaudi, 1966. Schema e funzioni sovrapponibili all'intera produzione letteraria giovanile.

{5}C. SALINARI, C. RICCI, Storia della letteratura italiana, Laterza, Roma-Bari, 1991, p. 613.

{6}Una trattazione analitica del concetto di corpo nel Medioevo è affrontata da J. LE GOFF, N. TRUONG, Il corpo nel Medioevo, Laterza, 2007.

{7}Per un discorso più articolato di quello affrontato fin qui rimando a R. LUPERINI, P. CATALDI, L. MARCHIANI, F. MARCHESE, R. DONNARUMMA, La scrittura e l'interpretazione I, Dalle origini al Manierismo, Palumbo, 2010.

{8}Novella tradotta in latino da Petrarca e inserita nella dimensione Mondo dell'epoca. Quel testo, grazie alla traduzione in latino ebbe all'epoca la funzione che hanno oggi i contemporanei best seller il cui campo di applicazione culturale è quello della mondializzazione del prodotto.

{9}Cfr. E. EDITH, Le donne nel Medioevo, Laterza, 1991.

{10}Per quanto riguarda le altre opere della maturità come De genealogiis deorum gentilium, il Trattatello in laude di Dante, il De mulieribus claris e le Esposizioni sopra la Comedia di Dante non sono materia di argomento di questo scritto.

{11}In questo senso i severi modelli danteschi e petrarcheschi sono molto più eseguiti che scartati. Si pensi al Secretum e al messaggio di Agostino a Petrarca sulla necessità di staccarsi dalle catene che lo tengono prigioniero e gli impediscono di raggiungere la libertà. Il riferimento è, come si sa, all'amore fisico e terreno per Laura e al desiderio di gloria letteraria. Desideri che distolgono dal raggiungimento della felicità eterna. Questo manca, naturalmente, in Boccaccio, ma in quest'ultima opera lo scrittore fiorentino è molto più vicino ai modelli medievali di quanto non lo fosse stato precedentemente.




BOCCACCIO ITALIANO ED EUROPEO
Intervista a Rino Caputo


In occasione del settimo centenario della nascita di Giovanni Boccaccio, ho incontrato il professor Rino Caputo del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Roma Tor Vergata per conversare intorno alla figura di questo grande scrittore Italiano ed Europeo. Saluto e ringrazio Rino Caputo per l’intervista.


Cominciamo con la dedica di Boccaccio al Decameron (comincia il libro chiamato Decameron cognominato prencipe galeotto): essa rappresenta un elemento intertestuale specifico che rimanda ai famosi versi danteschi del canto V dell’Inferno quando Francesca racconta a Dante il momento decisivo della sua esistenza: il bacio con Paolo: Quando leggemmo il disïato riso / essere basciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi basciò tutto tremante. / Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: /quel giorno più non vi leggemmo avante, vv. 133-138. Dante, in un certo qual modo, è come se riassumesse in pochi versi la tradizione della letteratura romanzesca amorosa della civiltà cavalleresca, responsabile, secondo questa visione, della dannazione dei due cognati che si sono lasciati trasportare dalla passione. Anche se gli ideali della tradizione cortese sapevano coniugare la stessa idea erotica presente in letteratura con i contenuti etici di un certo spessore, senza, quindi, rinunciare completamente al nesso con l’amore naturale per la donna. Dante, invece, trasforma questi temi in qualcosa di Assoluto e senza ritorno (nel senso che finisce e chiude l’esperienza culturale di un certo tipo di letteratura). Per Boccaccio la dedica al Decameron rappresenta la funzione fondamentale che il libro stesso avrà di intermediario tra gli amanti. Se per Dante la virtù sta nel dominare certi impulsi erotici, per Boccaccio sta, invece, nel soddisfarli? Quali distanze e convergenze sono osservabili tra i due scrittori intorno alla concezione dell’amore?

Grazie a voi e ben trovati. Possiamo dire che non si tratta tanto, per Dante, di reprimere gli impulsi, quanto di assoggettarli a una legge superiore che è, anche, un piacere maggiore, per così dire. L’amore diventa, per Dante, l’Amore. Ma ciò che costituisce per il poeta della Commedia una scelta di valore, per Boccaccio diventa una costatazione dell’irrefrenabile forza della carica istintuale umana. Sempre quindi di caratteristiche umane si parla, in Dante come in Boccaccio.

Boccaccio è più che mai un autore Italiano ed Europeo che diventa un modello di intellettuale soprattutto a partire dal Cinquecento dopo che Pietro Bembo scrive e divulga le famosissime Prose della volgar lingua. Nonostante il Decameron fosse stato considerato un testo proibito fin dal 1559, con l’introduzione della stampa il capolavoro dello scrittore fiorentino diviene uno dei testi più stampati e letti (e più imitati). E bisogna considerare anche che Boccaccio fu un grande sperimentatore di generi letterari e metrici, di stili e di strutture narrative, e fu, anche, tra i primi a studiare il greco e a provarsi come filologo (ma bisognerà aspettare, almeno, Lorenzo Valla). In che modo Boccaccio è presente nella cultura letteraria europea agli inizi dell’età moderna? Quali sono i cardini principali, per così dire, di diffusione culturale delle novelle boccaccesche?

Boccaccio è noto in Europa già subito dopo la pubblicazione del Decameron. Basterà ricordare la prima menzione, quella del gentiluomo inglese residente a Firenze, il Geoffrey Chaucer dei Canterbury Tales, che riprende, del testo boccacciano, cornice e personaggi e, in qualche caso, tematiche. Ma è in Francia che il volume di Boccaccio trova la sua diffusione più estesa e intensa. Le Livre des cent nouvelles, come sarà conosciuto d’allora in poi anche in tutto il resto d’Europa, conosce una diffusione capillare alla quale si aggiunge la grande operazione di rilatinizzazione del volgare compiuta dal Petrarca con la traduzione della novella Griselda. Il Boccaccio diventa in tal modo il modello di stile attraverso l’indicazione di un ‘comportamento’ magnanimo e nobile (la ‘pazienza’ di Griselda, la ‘determinazione’ dello sposo).

Il 2013 è stato, ed è attualmente, l’anno di celebrazione delle opere e della cultura di Giovanni Boccaccio. Quali iniziative accademiche lo hanno impegnato per ricordare il settimo centenario della nascita del grande scrittore italiano e quali celebrazioni sono state fatte all’Università di Tor Vergata?

Anche nella mia qualità di Presidente dell’Ars Nova italiana del Trecento di Certaldo, ho promosso, in una con il Vice Presidente Agostino Ziino, con l’Ente Boccaccio, e col Comune di Certaldo il grande convegno internazionale Med & Ren, che ha riunito, nella giornata di apertura, a Palazzo Vecchio in Firenze, più di duecento studiosi da tutto il mondo. Ma già prima, a fine giugno, si è svolto un bel convegno, a Venezia, su “Boccaccio veneto” e, qualche tempo fa, a Napoli un “Boccaccio angioino”. A Tor Vergata, ho tenuto il corso del presente anno accademico dedicato all’opera di Boccaccio e in autunno, prima della fine delle celebrazioni settecentenarie, terremo un convegno sull’autore del Decameron tra letteratura, storia e filologia.

E quindi sarà un’ottima occasione per chiudere degnamente le celebrazioni accademiche con un ulteriore incontro di studiosi intorno all’opera letteraria e al grande lavoro filologico e divulgativo (si pensi a Dante e a Petrarca, per esempio, e a come egli leghi insieme queste straordinarie figure) svolto da Giovanni Boccaccio, scrittore, più che mai italiano ed Europeo. Grazie professor Rino Caputo.


Per approfondimenti si veda anche il seguente video di Rino Caputo:
(http://www.youtube.com/watch?v=L7ZgOSPgEcY)


RINO CAPUTO (1947) è Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “Tor Vergata” e dall’ottobre 2010 Presidente della Conferenza Nazionale dei Presidi delle Facoltà di Lettere e Filosofia delle Università italiane.


malomastro1@alice.it