FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 30
aprile/giugno 2013

Germogli

 

A DUE PASSI DALLE RADICI DELL’ALTERITÀ
L’ultimo romanzo di Lucrezia Lerro, Sul fondo del mare c’è una vita leggera

di Marco Testi



I personaggi di Lucrezia Lerro sono eccentrici rispetto alla narrativa che passa attualmente il convento. Se gli altri appartengono ad una fascia “borghese” (absit iniuria verbis) nel senso che praticano le vie connesse a questa estrazione sociale, ivi compresi la solitudine intellettuale o l’entropia etica, i suoi figli di penna appartengono ad un sottoproletariato non solo sociologico, ma psichico, e sia detto in senso neutro, non necessariamente patologico: hanno rinunciato per statuto nativo ai tic aristocratici dell’appartenenza all’intellighentzja intellettuale e sono immersi in una placenta quasi pre-logica, il che non vuol dire che non siano reali. Anzi, lo sono fin troppo. Sono quelli che vengono visti per strada con una certa sufficienza, se possibile evitati nei saluti pubblici; sono i poveri in spirito (non necessariamente di spirito), sono i semplici e quelli che danno importanza a cose che il buon borghese sorvola o sopporta negli altri con il ciglio sollevato in atteggiamento di pazienza verso gli ignoranti. I quali, se ignorano qualcosa, lo fanno nei riguardi dei “doni” che l’ipercriticismo e l’iper-razionalismo ci hanno portato: l’infelicità di chi si è andato a ficcare sotto il treno delle cose e delle merci, della scepsi che spacca il capello, quando il capello c’è, in quattro.

I poveri in spirito narrati dalla Lerro sono quelli che credono ancora all’equazione amore-cuore, al sentimento per sempre, alle promesse, ai segni del destino, non perché hanno letto Liala o Grand Hotel, ma perché li vivono davvero, quei sentimenti, un po’ troppo, secondo la misura “borghese” e allora sono messi ai margini. Perché i tic intellettuali seguono i tempi, giudicano a seconda dei tempi, perché sono i tempi a dettare le regole. E perché quello che è dentro deve rimanere dentro.
A volte vengono appellati “semplici” o, al contrario, troppo contorti, o solitari, quelli che incontri sempre senza un cane vicino, quasi arresi o consegnati (da se stessi e dagli altri) alla solitudine.

Come Piero, il protagonista dell’ultimo romanzo della scrittrice campana, Sul fondo del mare c’è una vita leggera. Il pregio non indifferente di questo racconto è che l’autrice è riuscita a mimetizzarsi dentro il personaggio fobico, solo, desolato, abbandonato e deriso di un inetto, ma non alla maniera di quelli sveviani o pirandelliani, per rimanere in Italia. Quelli erano figli di papà o colti che vivevano la vita come in un sogno di inadeguatezza. Non sarebbero mai morti di fame, almeno. La loro emarginazione era soprattutto di natura intellettuale. Ma dopo una stagione – quella dei Mastronardi e dei Volponi – in cui l’attenzione per questa forma di emarginazione sembrava tornata in libreria, il silenzio auto-difensivo del mondo della letteratura era tornato a seppellire gli strani, i mezzi-matti, i malati un po’ sul serio e un po’ per inerzia sociale.
L’inetto della Lerro è dunque un ritorno, non una novità. Nasce povero e disgraziato, ripete di essere invalido, vive in un paesino del sud dove tutti sanno tutto di tutti, o almeno credono di sapere, e si campa con il marchio cucito addosso dalla eccessiva contiguità e dalla consuetudine. In realtà i Pieri di Sul fondo del mare sono tanti, più di quanto non si immagini. Non sono i dementi, i mitomani o i vagabondi, che pure la loro storia da raccontare, se ci riuscissero secondo i nostri canoni di narrazione, la avrebbero.

Piero è un eroe alla rovescia non perché sia alternativo o antagonista rispetto a qualcosa (una situazione politica, un personaggio-icona), ma perché rappresenta una norma (le persone sensibili e portate all’introiezione fissativa) in una realtà che si serve di tale norma come capro espiatorio o come pharmakòs per scaricare su di lui l’aggressività tribale.
Piero è un solitario che ha qualche fissazione scaturita anche da un rapporto – stando a quello che lui confusamente ricorda – ai limiti dell’incesto con la madre e di incomprensione con un padre militare che ha tentato di imporgli un super-io talmente ingombrante da rendere impossibile l’adesione ad un qualsivoglia ordine. Ma il bello della narrazione è che nulla è spiegato da un narratore onnisciente, nulla è giustificato da una voce media e “equilibrata”, dalla parte del lettore. Qui tutto è visto e detto dall’angolo in cui si è rifugiato l’escluso, il non invitato, l’altro da non incontrare o se mai da prendere in giro.

L’escluso non si piange addosso, o almeno non lo fa in modo assiduo: a modo suo reagisce alla violenza della comune: tutto il racconto è dettato dalle torsioni psichiche di un uomo che vede la strada da dentro casa, ed ogni volta che esce si prepara alla lotta con un esterno immaginato come aggressivo. La voce che racconta è quella di chi si sente diverso.
Ma il dentro non è migliore per Piero: la moglie – pur condividendo la casa con lui – vive in un’altra dimensione, quella dell’indifferenza venata dall’astio e dalla delusione.

Dalle disordinate parole di Piero si ricava il dramma del fallimento. “Nessuno mi ha insegnato che ce l’avrei potuta fare a lavorare e a vivere senza malinconie. Ho troppo tempo libero e va a finire che mi faccio male, mi do il tormento”. La mimesi narrativa qui ci offre tracce notevoli per spiegare il senso complessivo del racconto, perché dalle sconnesse parole del protagonista una connessione in realtà emerge, quella dei luoghi comuni dell’agorà e insieme quella delle profondità psichiche, che messe a contatto dicono di un tempo troppo lungo lasciato alle malinconie e alle elaborazione della diversità. Dicono di un tempo non pacificato e quindi disforico, eccessivamente votato all’introiezione, lontano dalla comunità. Raccontano di una antropologia critica verso la dimensione del lavoro e che nello stesso tempo rende territorio consegnato alla follia qualsiasi soluzione che non comprendesse la dimensione del lavoro. Il fare occidentale, a contatto con uno spirito sofferente, manifesta i suoi limiti e in questo romanzo ne denuncia le conseguenze sociali.

Il bambino non amato e abusato, cresciuto con l’incubo e non con le naturali aspettative del sesso, non è riuscito a crescere con gli altri. Degli altri imita il linguaggio machista e scurrile, quello dei ragazzotti all’assalto delle straniere discinte e “progredite”, dagli altri riprende l’aggressività verso i più deboli o verso i soliti idoli polemici, come il prete. Ma non è la solita tiritera anticlericale o anticristiana: anche la dimensione del sacro è filtrata attraverso la mente disturbata del protagonista che vede abissi in sacrestia ed è attratto, troppo, dal presepe che vorrebbe rubare e portare a casa sua, come un trofeo di guerra. Perché? Perché a Natale la gente mostra felicità e lui può solo denunciare la propria solitudine e l’incapacità di essere “normale”. Perché il Natale gli è stato sottratto da molti anni, e lui vorrebbe riappropriarsene per rifondare una nuova infanzia con Maria, Giuseppe e il Bambinello.

Se ci si pensa bene la linea del romanzo è elementare: non ci sono mediazioni, tutto è presentato dal punto di vista soggettivo di un uomo che non risponde esattamente alla caratteristiche del secondo nouveau roman, quello metropolitano e talvolta glamour, in cui anche gli alternativi hanno armi logiche e messaggi sociali da offrire. Qui sembra che le mediazioni autoriali siano arrivate vicinissime a quel grado zero della scrittura che ha affascinato terribilmente alcuni autori, fin dall’Ottocento. La realtà psichica è lasciata filtrare senza codificazioni di seconda grado: si manifesta brutalmente, con tutte le sue asperità ma anche con quei bagliori terribili di un fascino derivato dalla loro provenienza dal sottosuolo elementare e indistinto.
La Lerro ci porta molto vicino, con questa assoluta elementarietà, alle origini e alle manifestazioni dell’alterità, a cui l’occidente ha dato molti nomi, senza mai riuscire ad esorcizzarla, nonostante le teorizzazioni che si sono succedute negli anni.


Lucrezia Lerro, Sul fondo del mare c’è una vita leggera, Bompiani, 2012, pagg. 112, euro 16.




Lucrezia Lerro
è nata a Omignano, in provincia di Salerno, nel 1977.
Sue poesie sono apparse su “Nuovi Argomenti”, nell’“Almanacco dello Specchio” (Mondadori) e nell’antologia Nuovissima poesia italiana (Oscar Mondadori).
Nel 2005 ha pubblicato per i tipi di peQuod Certi giorni sono felice (Selezione Premio Strega 2006, poi riproposto nel 2008 nei Tascabili Bompiani) e nel 2010 la raccolta di poesie L’amore dei nuotatori. Per Bompiani ha pubblicato Il rimedio perfetto (2007), La più bella del mondo (2008), La bambina che disegnava cuori (2010) e Sul fondo del mare c’è una vita leggera (2012).


testi.marco@alice.it