FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 30
aprile/giugno 2013

Germogli

 

FIORI DI NESSUN LUOGO
Sedici poesie inattuali

di Francesco Marotta



*

Specchiata nel lume ghiaccio
della notte, lingua e canto
di terre dissolte in pozze di luna,
la costellazione
invisibile di un seme.
Nessun legame lo trattiene,
la sua sola memoria
è un passato
votato a diventare foglia
nell’abbraccio materno dell’alba.
Fermenta come olio
evaso da lampade di tenebra,
annaspa nella vertigine
fonda di una zolla, schiude
i suoi occhi d’oasi tra i sassi -
inaccessibile respiro
del mondo che si fa voce
e parla dalle labbra della luce.


*

Le parole della notte
sciamano lentamente dentro il palmo,
costringono lo sguardo
nel vortice di fuochi azzurrati
accesi dal riverbero profondo
che incanta le dita -
sillabe silenziose
nel lampo intermittente
di ombre protettive, custodi
di indecifrabili visioni
balenanti nelle pupille
di uno stormo in attesa.
La voce che su quelle ali migra
verso il buio, ignara
si trascina l’eco
di mai disperse nevi -
si aggruma oltre l’orizzonte
che sbrina nel chiarore,
risale l’acqua di un antico sole
stringendo in bocca rose
dal rapinoso stagno delle ore.


*

Mani che annaspano nell’aria
dietro vele salpate
al richiamo di un faro -
mani che stringono
le stesse parole mute
che il polline semina nel vento
per salutare l’esilio
della foglia dalla spina.
Mani arrese
a un volto che si scioglie
come la terra d’autunno
in devozioni d’acque,
come la notte
a un passo dall’addio
che marchia il cielo
col rosso del suo sguardo,
prima di immergersi
per legge di silenzi
nella luce improvvisa
di non visibili tracce.


*

Nessun fiore
nello spazio sabbioso
di urne di canto - solo la polvere
dice di un astro venuto a lambire
per strade di fiamma
la sorgente dove lo stelo
si veste d’immenso
e s’affila nell’orbita
di cieli scoperti per caso.
Nessun fiore racconta alla voce
le sue storie di un giorno
covate tra febbri e radici –
quando sporge oltre i bordi
bagnati di luce
a contemplare la chiarità
di una morte sapiente,
il colore dissolto nell’onda
di un’acqua ormai cieca.


*

Se potesse il nostro sguardo
consumato dalla febbre del cammino,
fiume irrequieto di memorie,
fermarsi a rimirare
gli orli feriti delle immagini
che costellano le rive,
e osservasse le pietre
dove frange la marea dei giorni
come un uccello fissa il proprio volo
negli specchi del cielo, anche il nulla
di cui fa fede la risacca
illimitata dei miraggi
sarebbe un silenzio che trascorre
in natura di deserto rifiorito,
il mistero che si schiude
dal grembo di neve dell’aurora,
la gemma che s’annuncia
nel respiro profondo della pioggia,
l’astro delle stagioni
che fascia i calici dell’anima.
Sarebbe voce
stagliata su orizzonti di vertigine,
alfabeto di fuochi in fondo al mare,
e i nostri volti, tutti,
gli infiniti nomi della luce.


*

Pensa un istante sottratto
a dimore d’inchiostro,
una sillaba refrattaria
a immobili eternità di alfabeto.
Pensa una parola che si leva in volo
e s’inoltra in sconosciute
migrazioni d’esilio,
in terre silenti di un tempo
fuggito dal seno
di meridiane spente.
Pensa. E poi immagina
la fedeltà laboriosa di una gemma
al suo destino d’essere e passare.
Il suo lampo che attraversa la mente
e rovescia in cristalli di veglia
lo sciame lunare di un grido,
ha il volto schiarito
dell’ultima pagina
conquistata a fatica -
è una lacrima che traghetta fuochi,
e annuncia il giorno
colma del gelo di fiori mai nati.


*

Sul volto di una pietra
levigata da lingue di sorgente,
i segni di luoghi aperti
a venti di visione –
le orme del tempo e l’acqua,
a immagine del cielo,
che si avvicina a cavità di quarzo
con mani colme
del lume delle fonti.
Domani sarà un flauto
che risale l’aria e incastra
suoni nelle lettere del mondo,
una guglia accesa su cattedrali d’alghe,
oppure uno sterpo,
un glifo di sabbia dove l’ombra
s’imbevera d’azzurro.
Domani sarà albero o stelo
di granito, pupilla in volo
o cieco affluente di memoria,
sarà fiamma, pioggia,
luna trapassata d’echi,
forma indefinita, pulviscolo,
pensiero -
domani sarà una rosa,
verdissima linfa
che soffia luce all’alba.


*

Erbe al passo delle fonti,
con nomi d’alberi e di stelle
iscritti in libri d’ore,
segnati dal labbro
rossofuoco del deserto.
Domani porta con sé
reliquie di respiro,
lo spazio inviolato
di occhi risanati
con linfe di visione.
Le parole per dire
la distanza incolmabile
tra gli steli e la mano
le possiede il silenzio -
indicibili rose d’abisso
germogliate
all’insaputa degli occhi
tra le pagine d’ombra
di memorie mai scritte.


*

Lascia incolti gli specchi del silenzio
la pupilla di un fiume - antica,
perpetua nel suo sottrarsi
alla carezza evocata
da ciò che non ha voce.
Chi grida speranze
dalla cenere immobile del tempo,
attende che il suo vaso si colmi
dell’anima di un fiore -
dei suoni d’acqua
che inconsapevoli corrono
alla caduta nella tenebra del mare.
La luce che lievita
con lo stesso nome, declinando
aggiunge fiamme al fuoco,
ore alla clessidra –
prima che il labbro della sera
cancelli note chiare
dall’arco del suo canto.


*

L’occhio segreto
di una rosa innevata di giorni
contempla sui bordi del cielo
sciami di luci alate
partorite dal sogno delle spine,
s’immerge nella purezza
d’acqua del silenzio.
A te che attendi
dalla misericordia dell’aurora
il dono di un fuoco fiorito,
una sorgente accesa
tra le sillabe di sabbia
del tuo volto, l’inudibile
dio che libera nell’aria
il vento del disgelo
colma la pupilla di presenze,
un concilio di immagini
raccolte in taciti,
liquidi cristalli di sale.
Tu le chiami lacrime,
schegge di mondo
che il nulla strappa a un grido -
ma il nulla è nella mano
di chi sigilla il varco,
cancellando quelle tracce
d’infinito dal suo ciglio.


*

Il calice inviolato
di memoria
su cui talvolta posano le labbra
al lume d’invisibili presenze,
conserva la neve segreta
sposa dei boschi,
il bagliore dove dio si mostra
nel vento sempreverde
di una gemma.
Il suo occhio
che d’un tratto s’illumina
nell’eco sotterranea
di una fonte,
fruga tra le brume fumanti
l’ombra dalle mille braccia
nella cui stretta farsi corpo,
albero, eternità migrante
in un respiro.


*

C’è sempre un’ombra
che ci somiglia, rinserrata
in noi, nelle pupille,
come cenere nell’urna,
come una vela nel porto
alla fine d’una lunga traversata.
La strada degli occhi
è costellata di onde
che il giorno visita una ad una
prima di immergersi nell’oblio
di quarzo degli abissi.
È cammino di voci
che bussano alle tempie
in cerca di dimora,
è fiochi grani di pollini
vaganti in reti di alveare,
è lingua di sorgente in attesa
del deserto in cui svanire.
Immagina una rosa di nessun luogo,
la rosa dei miraggi,
nella cui luce il tempo schiuma
unguenti di destino,
e senza suoni
guarisce la ferita delle sabbie.


*

Ramifica intorno alla voce
l’iridescente muschio
verdebuio,
occulta arsura
galleggiante
nel pozzo delle mani,
ultimo porto di luce
nel declinare aspro dell’estate.
Presto anche il polline
troverà dimora
in estasi di tuono
e una parola, tremula luna
in respiri di passaggio,
allaccerà i suoi occhi
alle vene rosseggianti
di una foglia –
parola àncora
in acque inavvertite
di piovasco,
indicibile come il lampo
che cava dalla pietra un grido
e trapassa il silenzio
appesantito d’ombre
di una rosa che imbianca
sul crepuscolo.
I fiori dell’autunno
parlano dal cupore fondo
che ha il luccichìo
dell’anima dei morti.


*

Sigilla nella purezza del gelo
l’alfabeto sulle cui ali
attraversi i giorni,
trascinando di soglia in soglia
il dolore di una luce
che non ha più parole.
L’estasi costellata di presagi
di un petalo che cade
nell’onda di risacche d’erba,
il faro sempreluce
racchiuso nello scrigno
di un grido di gabbiano,
cercano il porto in carità di nevi,
si fanno vela nel vento
che stempera il fuoco
dei pensieri,
e da maree di tempo
approdano alla lingua dei tuoi occhi.


*

Risonante ombra
frammezzo gli occhi
di una stella incisa a punta,
a strali, o sulle ali
offerte in voto
a un angelo di marmo –
ombra che regge
la repentina luce
che nomina, oscurandoli,
i ceri di un grido e della sera.
Qualcosa sbarra il passo
a transiti di luna –
stellalbe deserte
sul ciglio di una rupe
o gli occhi del cielo
rilucenti di schiuma verdefaro.
Qualcosa d’incompiuto,
nell’ora che s’innalza
come una preghiera
sul margine più quieto
di silenzi arresi
a interminabili, luminosi
baratri di gigli.


*

S’inarca il fuoco
di un fiume mareggiante d’ali
trattenuto dal vento
a un passo dalla foce,
dialoga con la notte
dai pori accesi dei suoi mille occhi,
e l’eco riporta cristalli azzurrati
di perdute sorgenti, l’infanzia
offerta in dono
alla sete della terra
e delle stelle.
Dalla sua ombra
prendi soltanto quanto basta
per farti mondo
e orientarti su strade d’uragano,
camminare tra spine
di boschi pietrificati e luci
che fuggono al riparo delle pietre,
lo sguardo filtrato
da corpi trasparenti
in bilico nell’aria che arde di faville,
e ti apre il varco
alle distese di un canto
senza voce.


La silloge è inedita



dorkus@libero.it