FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 23
luglio/settembre 2011

Vulcani

 

POMPEI, MAR DEI CARAIBI

di Armando Santarelli



«Il vulcano ha smesso di eruttare».
Sì, potrei iniziare così. E narrare la storia di un uomo dinamico e brillante - un vulcano appunto - costretto all’improvviso, a causa di una malattia incurabile, a lasciarsi alle spalle le molteplici, frenetiche attività che riempivano la sua vita. Descrivere l’immenso vuoto in cui precipita, l’angoscia che ne deriva, la penosa ricerca di un impossibile riscatto spirituale, l’inevitabile oblio.
Già. Lo scheletro è bell’e fatto; completarlo per bene, con organi, muscoli, vasi, nervi, è un’altra cosa. Purtroppo, non sono un Cechov, cui era sufficiente posare lo sguardo su un portacenere per trarne ispirazione per un racconto.
Che fare, allora?
La cosa più semplice: attingere ai ricordi scampati al manto soffocante dell’invisibile lava del tempo, alla realtà dei miei incontri più significativi (due, in sostanza) con il fenomeno geofisico che chiamiamo “vulcano”.

Un vulcano si ammira quando è spento, o quando è blandamente attivo. Ma, come tutti sappiamo, se entra in un’eruzione importante diventa uno dei più temibili agenti di devastazione e di morte. Ed è così che ho conosciuto il primo vulcano della mia vita: è il Vesuvio, il distruttore di Pompei ed Ercolano. Avevo sette anni; lo zio Paolo, religioso dei Fratelli delle Scuole Cristiane, mi fece quello che rimane il dono più importante che io abbia mai ricevuto: l’Enciclopedia “Conoscere”, la preziosa fonte di cultura che mi avrebbe accompagnato nello studio per tutto il corso delle Scuole Elementari e Medie. Un’opera che, al contrario di molte altre enciclopedie, invogliava irresistibilmente alla lettura, in virtù di due notevoli qualità: notizie chiare ed essenziali, presentate in un linguaggio semplice e stimolante; e illustrazioni realizzate in modo da colpire indelebilmente la fantasia e l’immaginazione di un bambino. Storia, geografia, scienze, letteratura, biografie dei grandi, e poi informazioni su costumi, viaggi, cibi, armi, tradizioni nelle varie epoche storiche.

In questa miniera d’oro, che non mi stancavo mai di leggere e consultare, la scena dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. era rappresentata con un’immagine quanto mai icastica: mostrava una famiglia pompeiana in fuga dalla propria casa, sotto una pioggia di ceneri e lapilli che, come si poteva intuire dal resto della raffigurazione, non avrebbe lasciato scampo ai fuggiaschi. Il commento, drammatico e avvincente, era questo:

Si era nell’agosto del 79 dopo Cristo. Una nuvola nerastra apparve un giorno sulla sommità del monte che dominava la plaga fertile, ricca e popolosa dove sorgeva Pompei. Il monte era chiamato Vesuvio; aveva le pendici coperte di boschi ove si cacciavano cinghiali. Nessuno sapeva altro di quel monte, nessuno sapeva che era un vulcano che da millecinquecento anni andava preparando, sotto il suo cratere chiuso, una terribile carica di magma incandescente e di gas. La piccola nube che ora avvolgeva la cima e che nessun vento riusciva a dissipare era costituita dalle prime, sottili esalazioni che filtravano dalle crepe del cratere. Ma nessuno sapeva questo, e nessuno pensò a fuggire.
Il giorno 24 agosto la tremenda carica esplose: sulla cima del monte si aprì uno squarcio enorme, dal quale uscì, proiettata verso l’alto, una gigantesca colonna di fuoco e fumo; a velocità vertiginosa la colonna salì nel cielo fino a incredibile altezza, poi, sulla cima, cominciò ad allargarsi. Prese la caratteristica forma “a fungo” che oggi conosciamo dalle immagini delle esplosioni atomiche. Un osservatore di allora la paragonò, giustamente, alla forma di un pino marittimo.
Nelle città e nelle campagne circostanti, decine di migliaia di persone osservavano sgomente e impotenti il terrificante spettacolo. Era mezzogiorno, ma s’era fatto buio come al tramonto. Improvvisamente, ognuno udì, attorno a sé, un picchiettare di colpi, come all’inizio di una grandinata. Il rumore divenne uno scroscio, fitto e ininterrotto; dal cielo, da quella nube spaventosa, cadeva una pioggia di pietre! Erano pietre piccole, spugnose, simili a pomice. Riparandosi il capo, tutti corsero a rifugiarsi nelle case. Ma per le strade e nei giardini lo strato dei lapilli caduti raggiunse in breve molti palmi d’altezza; presto cominciarono a crollare i primi tetti. Intanto, era sopravvenuta un’oscurità completa, innaturale; non il buio della notte, disse un testimone, ma la tenebra nera di un luogo chiuso senza aperture.
Allora dai fianchi del monte cominciarono a scendere pesanti folate di gas: erano ossido di carbonio e anidride carbonica, due gas micidiali. A tutto questo si aggiunsero alcune scosse di terremoto; ormai i crolli dei tetti si succedevano l’uno dopo l’altro. La popolazione di Pompei comprese finalmente la gravità del pericolo. Molti aprirono a fatica le porte della case e fuggirono per le strade, al lume delle torce: troppo tardi! Le basse nubi di gas li abbatterono asfissiati mentre correvano alla cieca. Altri preferirono resistere nel chiuso della loro casa, e furono uccisi da un crollo, o dai gas che si infiltravano ovunque, o, peggio, vi furono sepolti vivi, perché la caduta delle ceneri e dei lapilli continuò ininterrotta per tre giorni e tre notti.
Quando, all’alba del 27 agosto, il Vesuvio si placò e il sole estivo tornò a splendere sul bel golfo di Napoli, a sud del vulcano, dove prima esisteva una piana ridente e popolosa, si stendeva un deserto di cenere, grigio e inanimato. Sotto di esso giaceva Pompei.
Nessuna lettura mi aveva mai emozionato tanto. Avrei dato qualsiasi cosa per poter assistere a un tale fenomeno; da lontano, però!
Poi cominciarono i pensieri… Era questo, mi chiedevo, un vulcano?
La mia istintiva simpatia per i maestosi coni descritti nell’enciclopedia e raffigurati con profili bellissimi, perfetti, rassicuranti, lasciò il posto alla delusione, e al primo dubbio riguardante quella natura che, vivendo in un paesino immerso in un territorio incontaminato, avevo visto sino ad allora come un Eden alla portata di tutti. Fui pervaso da un senso di smarrimento, dalla percezione del mistero che si cela in un ambiente che oggi ti è amico, e domani muove le sue forze incontenibili per distruggere e uccidere in modo cieco e inesorabile. Di lì a poco, la tragedia del Vajont avrebbe confermato drammaticamente le innocenti perplessità del bambino che non aveva mai assistito se non alle morti individuali di familiari e vicini di casa.

Il sinistro biglietto da visita presentatomi dal Vesuvio mi avrebbe introdotto alla conoscenza di altri suoi fratelli, non meno imprevedibili e perniciosi. Impossibile non appassionarsi alle catastrofiche eruzioni del vulcano di Santorini, del Krakatoa, del Pinatubo, distruttori di luoghi, di civiltà, di intere popolazioni. Vicende tragiche, certamente, ma verso le quali conservavo quel residuo di distacco che circonda le cose che avvengono lontano da noi, e in cui non siamo coinvolti personalmente.

Poi, molti anni dopo, il caso ha fatto in modo che sperimentassi direttamente la potenza sterminatrice dell’agente endogeno che chiamiamo “vulcano”. Il paradosso è che l’incontro è avvenuto in uno dei paradisi della Terra, i Caraibi.

Tutto inizia il 31 dicembre 2001. Avendo deciso, d’accordo con mia moglie, di non festeggiare il Capodanno, alle 6 del pomeriggio mi sdraio sul letto per godermi la lettura del “Guerin Sportivo”, che in quel numero riporta uno speciale sulle Nazionali di calcio che nell’estate del 2002 si contenderanno l’Europeo per Nazioni. Verso la fine della rivista, ciò che non ti aspetti; un articolo eccezionale, che si apre con uno strano titolo “Beati gli ultimi”, e una foto spettacolare, quella di un campo di calcio enorme e verdissimo, con vista a 180 gradi che spazia su 100 km. di Oceano! Il pezzo, a firma di un giornalista svizzero, Giorgio Keller, descrive le vicende della Nazionale di calcio dell’isola di Montserrat, nei Caraibi, rappresentativa collocata al 204° (e ultimo) posto nella graduatoria FIFA. A margine dell’articolo, l’intervista al Presidente della Federazione Calcistica di Montserrat, Vincent Cassel, il quale, dopo aver risposto alle domande del giornalista, invita esplicitamente le compagini calcistiche interessate (e che possono permetterselo) a visitare l’isola e giocare una o più partite amichevoli con le squadre locali.

In pochi minuti, mi assale una smania incontenibile: perché non approfittare dell’invito ed effettuare uno scambio sportivo e culturale con i caraibici? In preda a una vera e propria possessione, telefono prima al Presidente della squadra di calcio del mio paese, poi, per ottenere l’appoggio dell’Amministrazione comunale, al Sindaco. Contagiati dal mio entusiasmo, mi raggiungono a casa, leggono l’articolo e mi autorizzano a tentare l’avventura.
Il 6 gennaio 2002 la lettera per la Federazione Calcistica di Montserrat è pronta, il giorno seguente la inviamo per posta aerea e per e-mail.
Per un mese intero, stranamente, nessuna risposta. Poi, il 7 febbraio, il Presidente dell’A.S. Gerano, Sandro Di Pietro, mi telefona pieno di emozione: «Armando, vieni a casa, hanno risposto con una mail». Arrivo trafelato, getto lo sguardo sullo schermo: Incredibile! Non solo si dichiarano favorevoli allo scambio, ma dicono di volerci ospitare per primi. Il mio amico Alessandro Gaucci, a quel tempo Direttore Sportivo del Perugia Calcio, ci regala una muta da gioco e le magliette di rappresentanza.

Sembriamo calciatori professionisti quando, il 22 giugno 2002, dopo un viaggio notturno in pullman, ci imbarchiamo dall’aeroporto di Milano-Malpensa, con destinazione Antigua. Sì, il primo approdo è in una delle isole più belle del mondo, quella con 365 spiagge favolose (“una per ogni giorno dell’anno”) e un porto georgiano intatto!
Ubriachi di bellezza, il mattino seguente saliamo sul ferry che in un’oretta di navigazione ci porterà a Montserrat. Notiamo subito che sul traghetto ci siamo noi e pochissimi altri passeggeri. Come mai, se la nostra isola, come tutti testimoniano, è così bella e selvaggia? In effetti, notiamo avvicinandoci, è ridente, verdissima, lussureggiante… per metà. Sì, per metà.

Un paio di giorni dopo il nostro arrivo, i gentilissimi ospiti ci portano a visitare l’altra metà dell’isola, ovvero il deserto in cui è stata ridotta dalla disastrosa eruzione del 1995 del vulcano Soufrière Hills, uno dei più attivi della terra. Ci guida Slim, dinoccolato e simpaticissimo isolano, pronto a passare in pochi attimi dall’angoscia al sorriso, come chi ha visto e sperimentato tutto, e non ha più niente da perdere. Camminiamo – letteralmente - sui tetti di quella che era la capitale, Plymouth, che ora giace per intero sotto la lava del Soufrière Hills. Le case, le scuole, gli edifici pubblici, la pista e gli hangar dell’aeroporto, lo stadio, l’ospedale, gli alberghi: ogni cosa è sepolta sotto il sudario che in poche ore ha ricoperto e soffocato il corpo vivo e pulsante dell’ex capitale di Montserrat. Un senso di forte commozione pervade tutti noi, compresi i più giovani, quando, in una sala semisepolta del Four Seasons – a suo tempo uno dei più lussuosi hotel di Plymouth – vediamo un orologio di metallo appeso al muro, con la lancetta che indica le nove, e una scritta: “Come back soon”, “Ritornerò presto”. Un messaggio di speranza per un luogo che un vulcano ha dimezzato, in tutti i sensi.

Diviso in due il territorio: la “terra grigia” e la “terra verde”. Dimezzata la popolazione: da dodicimila abitanti a circa seimila, perché, dopo l’eruzione, una buona metà dei residenti ha dovuto lasciare l’isola. Dimezzate le attività economiche, sociali e culturali che la gente di Montserrat aveva faticosamente costruito dagli anni ’50 in poi.
Ecco dove eravamo approdati: in un Eden cancellato in poche ore dalla furia della Natura, un Eden ferito, come mostravano, nelle facce e nei gesti, i montserratiani che avevano deciso di restare. Sui loro volti, l’allegria caraibica velata dalla consapevolezza di un futuro incerto, e dalla pena per chi aveva dovuto abbandonare tutto. Rassegnazione, accenni di tristezza e di preoccupazione, ma anche, fortunatamente, un’incipiente voglia di non arrendersi, di tornare a lottare.

Dagli Studios Musicali di Stevie Wonder, dove hanno registrato i loro dischi alcuni dei più famosi cantanti rock, alla desolazione di una lingua infinita di lava, che ancor oggi solleva fumi e vapori nelle acque cristalline di Montserrat. Dal Paradiso all’Inferno in un attimo, e poi - come a dover scontare la bellezza della natura, il clima mite e salubre, la dovizia degli squisiti frutti tropicali - il purgatorio quotidiano di chi tenta di rinascere dalle… ceneri, in senso letterale.
Mi venne in mente che Pompei, Ercolano, Stabia, e altri luoghi meravigliosi non avevano avuto neppure questa possibilità… Lo dissi a Slim, che annuì pensieroso, e replicò amaro: «Non si può fare niente se il vulcano non te lo concede. E’ lui a comandare».
Già. Mentre il generoso sole caraibico scaldava i nostri corpi, e l’aria salmastra dell’Oceano inebriava i nostri sensi, io pensavo che le rocce, la lava, la sabbia e il mare che ci circondavano sarebbero sopravvissuti alle creature intelligenti che stentavano a reperire un senso in ciò che stavano vivendo.

Ma forse esiste, quel senso. Ci sono fenomeni, al mondo, che continueranno a rammentarci la dimensione che ci appartiene in quanto esseri umani. Un vulcano è una cosa tremendamente reale e altrettanto fortemente metaforica e metafisica. Il vulcano che è in noi - il magma che agita l’essere che vuole prendere il posto del suo Creatore - ci fa sentire potenti, invincibili, immortali. Ma un vulcano reale può abbatterci in pochi minuti, può distruggere le nostre fatiche di anni, di secoli, di millenni. Lo sterminator Vesevo, il vulcano di Montserrat e gli altri coni giganteschi che si innalzano sulla Terra, sono lì ad ammonirci: «Non sei il centro dell’universo, e ogni tanto noi te lo ricorderemo».


Karl Briullov, L'ultimo giorno di Pompei


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