FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 20
ottobre/dicembre 2010

Nel cosmo

 

ALTRI NON VEDO

di Nadia Terranova



Questo il mondo
almeno il nostro altri non vedo

(Nelo Risi, L’attesa)

Il primo giorno di scuola avevo trentasei anni e trentasei occhi fissi su di me. Trentasei occhi spalancati, poco curiosi e molto arroganti. Ho scostato la sedia e detto «Buongiorno», ripetuto «Buongiorno», guardato dritto un viso e poi un altro. Mi hanno risposto una risatina tremula, una schiena che frugava nello zaino, due profili che da banchi dirimpettai si scambiavano la prima impressione: ah be’. Ancora non lo sapevo, ma era la situazione migliore che mi potesse capitare: in classe c’erano tutti e diciotto, dopo la campana non si erano asserragliati nei bagni, nessuno parlava a voce alta dentro il telefonino, nessuno nascondeva le cuffie dell’ipod nel cappuccio della felpa. Ancora non sapevo che quell’attenzione era un miracolo. L’indomani avrei rimpianto quel momento, allora però sono sbottato: «Dalle mie parti si saluta». «Dalle nostre no» e poi ancora «E quali sarebbero le sue parti, prof?». «Da oggi in poi saluterete» mi sono difeso, ma lo zero a uno non pendeva dalla mia parte. Zero a due con lo sfottò del giorno dopo: «Buongiooornooo prof!», tutti alzati a fare la ola a mani in su.

Vorrei raccontare che ero un uomo colto sbattuto in un istituto di periferia. Vorrei raccontare alunni difficili con alle spalle famiglie difficili che faticosamente, poesia dopo poesia, trasformano l’ostilità in curiosità e ribaltano il loro destino di carpentieri. La mia, però, è un’altra storia. Il primo contratto da insegnante me lo propone un liceo privato, i primi alunni sono sedicenni con lo scooterone e il bancomat di papà. Il carpentiere avrei dovuto essere io: padre muratore madre casalinga ultimo di quattro figli un’infanzia con le macchie di umido sul soffitto. Invece mi ero ostinato. I miei fratelli già lavoravano e grazie ai loro entusiasmi e agli spiccioli rosicchiati avevo potuto iscrivermi a Lettere, primo della mia stirpe a varcare il portone in legno color accademia. Lì i professori assomigliavano ai genitori dei miei alunni di oggi, con l’impermeabile inglese, l’abitudine ad aver diritto a tutto e quella ancor più inveterata a pontificare. Si riempivano la bocca con il diritto all’istruzione ma quando in corridoio chiedevo i permessi mi rispondevano che l’obbligo di frequenza era un obbligo eccome e capisco tutto ma allora scelga un’altra facoltà. Niente. Io a ostinarmi, con la fatica di avere alle spalle ragioneria e un presente da barista tutte le mattine, la sera prendevo in prestito i libri della biblioteca oppure mi infilavo nei teatri dove far valere i miei sconti da studente e cercare di capirci qualcosa. Alla fine arrancavo dietro troppe sessioni saltate, mi arresi: severo con me stesso, per scampare al fuoricorso mi tolsi di torno. Fu il momento del disamore. Come prima mi ero innamorato allora mi disamoravo – di libri scritti male e aule riempite da echi superflui. Sognavo mondi di parole sommerso da un mondo di parole, perlopiù inutili; tra la delusione e il ritorno a casa si presentò la terza via: la mediocrità. Qualcuno mi offrì un lavoro da rappresentante. In pochi mesi avrei guadagnato più di quanto avevo pagato in anni di tasse universitarie, la proporzione mi fece perdere la testa, non mi sembrò vero: potevo ridare ai miei genitori e ai miei fratelli tutti i loro soldi. Quell’investimento su di me ormai mi appariva un errore, un passo da cancellare, soffocai l’umiliazione di non essere stato all’altezza con la spavalderia dell’assegno a fine mese da sventolare varcando la soglia di casa. Però quasi subito la fierezza sparì e cominciarono dieci anni da dimenticare, ricordarli significa ricordarmi quanto può essere insipida la vita che si sceglie per sbaglio, non sa né di sale né di niente, odora solo di sciatteria. Dopo essermi nascosto dietro le giornate tutte uguali di un lavoro che serviva solo a giustificare a me stesso la mia codardia, di nuovo mollai tutto e con i soldi accumulati in quel decennio di nulla tornai all’università. I professoroni che una volta mi avevano intimorito adesso li guardavo con disprezzo, usavo la mia età e la mia scelta tardiva come scudo per meritare un rispetto obbligato. Avevo perso tempo, non potevo permetterlo più. Salii sul treno in corsa fino alla laurea e scelsi di essere un insegnante.

Questa la storia che diciotto paia d’occhi non potevano sapere. Non dovevano conoscerla perché non li riguardava, mi dissi stizzito il primo giorno, pensavo ancora che tra me e loro potesse esistere un muro, anzi: ero convinto che quel muro l’avessi tirato su io e che mi toccasse sorvegliarlo. Concentrato sulle mie frustrazioni i miei sogni i bisogni l’ansia di arrivare e quella di essere arrivato, irrigidito, maniacalmente asservito a un ego che dettava legge e tracciava percorsi, non avrei permesso a nessun adolescente viziato di avvicinarsi brandendo una qualsiasi delle sue armi – indifferenza, sfrontatezza, ignoranza – a ciò che con tanta fatica mi ero costruito da solo. Se la scuola era la mia ancora di salvezza nessuno doveva azzardarsi a portarmela via.

Trovai, o almeno così mi sembrava, il mio modo. Andavo avanti per tutta l’ora. Seguivo il programma alla lettera, non pretendevo di interessare nessuno, annotavo sul registro il minimo indispensabile con la massima dovizia. Non vedevo, o fingevo di non farlo, ciò che mi avrebbe causato noie: finché riesco a non rivolgermi al preside, a non piagnucolare cercando aiuto, mi dicevo, la situazione è sotto controllo. Finché riesco a non sentirmi minacciato, esisto. Resistere no – non mi interessava, rifiutavo di sentirmi in trincea, bisognava che tutto fosse normale. Sporadicamente il termometro esplodeva. Sguardi traversi, far finta di niente, aprire il registro, non bastava più: d’improvviso la classe era come invasa da un’energia non contenibile, un minaccioso potenziale di violenza si diffondeva nell’aria. All’università nessuno mi aveva preparato. Avevo esperienza di strada, sì, ma le scazzottate di quartiere fra ragazzini come me non erano paragonabili al nichilismo percepito fra gente abituata a essere ricca. Non avevo strumenti per affrontare, o peggio per risolvere, quei momenti di inferno appena intuito che io chiamavo rogne e i giornali bullismo. I ragazzi disprezzavano me, erano indifferenti alla scuola, ciascuno di loro era un universo di solitudine che portava in classe il suo sistema solare: casa vuota alle spalle, una libertà estrema quanto sprecata, una carriera già tracciata. Li vedevo identici eppure tra loro si odiavano, c’era uno che odiava più forte degli altri e che però da questi altri, tutti, era rispettato: Grossi. Magro, allampanato, brufoli. Brutto, lo bollavo, appiccicando all’aggettivo una rabbia eccedente. Era lui che più degli altri sobillava e sibilava, il più sfrontato, il più menefreghista. «Grossi», lo chiamavo malvolentieri anche in appello e lui non rispondeva, faceva finta di dormire, si appoggiava su tutt’e due le mani e crollava d’improvviso dietro gli occhiali da sole, cascava sul banco, la classe rideva. Oppure: tutto compunto mi portava il quaderno un attimo prima che suonasse la campana, «Ha visto prof, ho fatto i compiti», poi via e già lo sentivo ridere in corridoio con quella sua voce tuonante, aprivo il quaderno ed era vuoto, oppure era quello di matematica. «Grossi, stai zitto!» avevo provato a dirgli più e più volte e lui ogni volta una risposta diversa, un giorno mi disse a gesti che era diventato muto e non poteva essere interrogato, un altro aveva sparsa polvere bianca sopra al labbro superiore e faceva finta di tirar su con il naso, sempre ne aveva una – e la classe giù a ridere. Io e Grossi – che ha già conquistato, lo so, la simpatia del lettore e che allora, nel microcosmo del mio ego impaurito, individuavo come il mio nemico – ci fronteggiammo in primavera, all’inizio del secondo quadrimestre. L’antefatto fu una supplenza in un’altra classe. Non andavo volentieri in classi che non conoscevo (mi bastavano le mie!) eppure sul foglio con le ore di straordinario, firmato dal preside senza possibilità di replica e appeso in sala professori ogni mattina, il mio nome compariva di frequente. Quel giorno di inizio aprile mi toccò la quarta ginnasio e nella quarta ginnasio c’era la sorella di Grossi. Silenziosa, minuta, docile e attenta: il suo contrario. Fra i colleghi si mormorava che facesse la lecchina per bilanciare i disastri del fratello. L’avevo vista qualche volta in corridoio, capelli lunghi su una schiena piccola, non mi aveva mai guardato, l’avevo ignorata anch’io. Di Grossi me ne bastava uno. Quando entrai nella quarta ginnasio era sua la testa girata di spalle che nell’euforia della classe anarchica e sovreccitata dalla notizia del supplente, stava dicendo a voce alta:

«Questo qua è un coglione, è il professore di mio fratello».

A giugno Grossi fu proposto per la bocciatura. Non raggiungeva metà della sufficienza in nessuna materia. Inoltre, dopo l’episodio – che avevo denunciato in una lettera al preside – mi ero ritrovato con le ruote della macchina tagliate, come nella migliore delle tradizioni. Chi fosse il colpevole, era sotto gli occhi di tutti. Nei due mesi che ci separavano dalla fine dell’anno scolastico non ci guardammo più in faccia, quando chiamavo il suo nome all’appello mi rispondeva normalmente, per il resto scena muta, niente più buffonerie. Anche i compagni sembravano essersi dati una calmata, o forse ai loro occhi definitivamente non valevo più nulla, nemmeno il disprezzo. Sapevo che il padre di Grossi aveva parlato con il preside, che aveva provato con le minacce, le promesse di favori e addirittura con i soldi. Niente da fare. Cambiarono scuola tutti e due, fratello e sorella e furono mandati – così si mormorava – alla scuola pubblica. Immaginai che sarebbe stata un’onta incancellabile nel curriculum di entrambi.

L’anno era finito nel torpore, in uno strano e pesante silenzio. L’ultimo giorno assegnai le letture estive, i ragazzi non fecero nemmeno finta di scrivere e si alzarono rumorosamente al suono della campana. Qualche giorno dopo, al termine degli scrutini, dopo che l’ultimo collega ebbe abbandonato l’aula, rimasi a guardare fuori dalla finestra aperta. Non avevo concluso niente, non avevo modificato di una virgola l’universo in cui ero stato catapultato anzi: per paura di smarrirmi ero rimasto immobile e uguale a me stesso, un me stesso che non mi piaceva più e forse non mi era mai piaciuto. Presi carta e penna. Le dimissioni mi vennero fuori facili e spontanee, rileggendo ciò che avevo scritto mi sentii per la prima volta leggero. Giocai con il foglio fra le mani. Dovevo metterlo sulla scrivania del preside. E se la porta era chiusa? Potevo infilarlo sotto, lasciarlo per terra. No, c’era il rischio che non l’avrebbe visto, qualcuno l’avrebbe calpestato, sarebbe stato spazzato via. E poi, ricordavo da qualche racconto spizzicato qua e là, che perché le dimissioni avessero valore legale bisognava inviarle per raccomandata. Sì, meglio una raccomandata, così mi sarei gingillato ancora un po’ con quel frusciante pezzo di carta.

Uscii che era quasi buio. Il caldo avvolgeva la città con la sua promessa di vacanza, ero eccitato. Mi sembrava di scegliere di nuovo, questa volta nel buio, sì, questa volta ero veramente io, non sceglievo per risarcire né per fuggire. Stavo facendo qualcosa per me, anche se non sapevo esattamente cosa. Mi incamminai verso la macchina. Sul vetro, fra i due tergicristalli, c’era un pezzo di carta accartocciata. Una multa? Mi guardai intorno, se il vigile era ancora nei paraggi forse potevo fermarlo, supplicarlo, convincerlo… ma di cosa? Non ero in sosta vietata. E quella non era una multa ma un foglio di carta a righe.

«Prof,

ha fatto bene.

Lì dov’ero non mi ci trovavo, come non ci si trovava lei. Io però me ne sono andato, con la grazia di essere stato sbattuto fuori.

Lo so che non ci ha mai potuto soffrire anche se nove mesi dopo nessuno di noi ha capito perché. Comunque, le auguro buone vacanze. Io me le faccio lo stesso, anche se mi avrete bocciato, e poi ricomincio con una nuova testa. Mi ha fatto un favore, sennò mio padre da questa scuola di merda non mi ci toglieva più. Lo sa che vado alla pubblica? Le gomme, comunque, gliele aveva tagliate mia sorella».

Fermo, solo con la mia stupidità, scoppiai a ridere. Li appallottolai tutti e due, il foglio di Grossi e le dimissioni, senza riconoscere neppure con le dita dove cominciava uno e finiva l’altro. Non avevo capito niente, nemmeno chi ringraziare. Ma una cosa era certa: due mesi di ferie e poi avrei fatto l’insegnante, questa volta per davvero.


(Il racconto è inedito)

nadiaterra@alice.it