FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 19
luglio/settembre 2010

Eros

 

L'UOMO DEGLI SPIRITI

di Domenico Vuoto



Vado a ripetizione di matematica in una casa nei dintorni di piazza De Nava.

A tredici anni vivo nella confusa percezione di un me stesso sbalzato in qualche luogo dove magari non vorrei o non dovrei trovarmi. La decisione è stata di mio padre. Mi ha detto che sarei andato in un posto dove avrei migliorato “lo studio basilare della matematica”, e io ci sono andato. Il ricordo della casa è legato a un puzzo di promiscuità umana e di cibo stantio che dà il benvenuto ai miei sensi. Li risveglia, quando solo un momento prima vacillavano nella luce dell’estate ardente.

La donna che viene ad aprirmi indossa una blusa di cotone grigio e un pantalone di satin dello stesso colore su un corpo alto, sformato dall’età e dalla grassezza – una delle rare donne che portasse i pantaloni a Reggio nei primi anni cinquanta.

Il fatto che rimanga bloccato sulla porta e forse ancora più la mia espressione intimidita o smarrita devono sembrarle talmente comici, che scoppia in una risata tutta di gola.

Mi decido a entrare seguendola per uno stretto corridoio in penombra.

Tuo padre mi fece la testa così dicendo che sei uno scecco in matematica e devi rinforzarti nella materia, lascia andare la donna senza voltarsi. Ti riporto le sue parole. Ora però che ti vedo non mi sembri uno scecco o per dirla nell’italianorum di tuo padre un asino patentato.

Si è girata ed è ancora scoppiata a ridere.

Il corridoio andava a finire davanti a una cucina. La donna mi ha invitato a entrare. C’era un lungo tavolo rettangolare che occupava buona parte dello spazio. Sopra, tra voli e passeggi indisturbati di mosche: rivoli di latte, molliche di pane, tazzine con scolature di caffè. Lo sguardo mi è andato al centro, su un piatto fondo con un’insalata di pomodori e cipolle visibilmente intatta.

La donna mi ha fatto accomodare su una sedia poco distante dal tavolo. Mi ha assicurato che al massimo dopo un’ora e mezza sarei tornato al mare. Mi ha chiesto in quale stabilimento andavo con la famiglia, ma non mi ha dato il tempo di rispondere.

Tuo padre non mi parlò di soldi per le ripetizioni e io non gliene chiesi per delicatezza, ha detto lanciandomi un’occhiata di sghembo. Io, e quando capita mia figlia, le ripetizioni te le facciamo gratis et amore dei, inter nos. Non so se mi capisci.

Sì che capivo, ho balbettato, e mi sentivo bruciare dall’umiliazione. Lei ha annuito col capo. Si è diretta verso l’insalata, ha pescato uno spicchio di pomodoro e una striscia di cipolla con le dita, li ha infilati in bocca succhiando forte. Poi mi ha ordinato di aprire il libro di matematica. Ha aggiunto che al momento aveva da sbrigare “una cosa”. Sarebbe tornata al più presto e avremmo cominciato la lezione. Così ho conosciuto la mia ripetitrice di matematica. Lo sguardo che filtrava dal fondo di un’astiosa rassegnazione, il pantalone di satin, le risate senza allegria, il puzzo, il disordine, il luridume della casa - se penso a tutto questo è a lei, a quella donna, simbolo di una regalità decaduta, che vado con la mente.

Ho aperto il libro a caso tenendolo sulle gambe. Ero pronto per la lezione. Con la mente ero altrove. Mi chiedevo dov’ero capitato, perché stavo lì quando avrei potuto spassarmela sulla spiaggia del Venezia. Dopotutto, benché di stretta misura, in matematica ero passato. E dunque: non avevo forse diritto alla pienezza delle mie vacanze? E ancora: perché la donna mi presentava con tanta brutalità il conto di un favore che faceva a mio padre? E quel piatto di pomodori e cipolle in tarda mattinata? Seguivo l’orda delle mosche che infuriava sulla tavola e nell’aria, contavo le macchie di sudicio sul pavimento, e mi sentivo afflitto.

Da un punto della casa sono salite delle urla. Ho sentito qualcuno che diceva: Da qui non mi muovo manco se m’ammazzano. Una voce maschile. Poi un silenzio.

Un giovane con indosso un pigiama a righe stretto e corto mi si è parato di fronte. Mi sono alzato come facevo a scuola all’entrata dell’insegnante. Comodo, ha brontolato lui stropicciandosi gli occhi, puoi continuare a ripassare. Doveva essersi appena levato dal letto. Ha sbadigliato, si è stirato su un fianco. Mi ha detto il suo nome. Nunzio. Ricordati: Nun-zio-o. Nunù, ma solo per gli amici stretti. Ha camminato caracollando e grattandosi la testa, è andato a sedersi a capotavola traendo a sé il piatto d’insalata. Subito dopo mandava giù avidamente. Si accompagnava con fette di pane che intingeva nel sugo. Ogni tanto buttava lì qualche domanda. Chi era mio padre, se avevo una fidanzata, se glielo mettevo nella fica, se mi facevo le pugnette. Rispondevo a monosillabi – e alle ultime due domande mi sono chiuso in un silenzio ostinato. Intanto il piatto veniva scrupolosamente ripulito del suo contenuto. Nunzio lo ha allontanato da sé, ha lasciato andare un paio di rutti che sono rimbombati come spari. Alle mie spalle si è levata roca, divertita una voce femminile. Mi sono girato. Parlava al fratello rinfacciandogli “le porcherosità”, e a lui somigliava per alcuni tratti del viso, e alla madre. Doveva essere la mia seconda ripetitrice, la supplente. Papà mi aveva assicurato che le volte che la madre non poteva, ci sarebbe stata la figlia - anche lei “massima competente” nella materia.

Nunzio si è levato dal tavolo e si è precipitato verso la sorella stringendola a sé.

La sorellona, gridava baciandola sul collo, la sorellona del fratellone.

Lei tentava di divincolarsi, gli tempestava le spalle di pugni, ansava, rideva.

È riuscita a liberarsi, ha misurato uno schiaffo al fratello che lo ha schivato abbassando la testa. Poi Nunzio è corso nel corridoio col viso in fiamme, da lì ha mandato un terzo rutto. Lei mi si è messa davanti scuotendo il capo, e anche questa volta sono scattato in piedi.

Seduto. E non ci fare caso a mio fratello, che a lui gli piace scherzare e fare lo smorfioso.

Mi sono seduto restando vigile, in attesa. Mi ha detto il suo nome: Rosa. Io ho ripetuto meccanicamente dentro di me: rosa, rosae, rosam.

Mi fissava con una punta di canzonatura nello sguardo. Aveva un’aria di complicità che mi attraeva e un po’ angosciava come la promessa di una felicità proibita. Continuavo a rimanere immobile. Tenevo il capo abbassato, guardavo una mosca che filava sul pavimento tra me e il tavolo, avanti e indietro, sempre sulla stessa linea. Ho sollevato lo sguardo. Era stata lei che mi aveva chiesto per l’appunto di guardarla in faccia, ma l’occhio non trovava il coraggio di risalire fino al volto. Si fermava a metà corpo sulla veste leggera color perla a fiorellini blu, chiusa sul davanti da una breve fila di bottoni. Dagli spazi tra l’uno e l’altro mi ammiccavano lembi delle pelle abbronzata e all’altezza delle cosce, le mutandine. Bianco sul miele scuro della carne.

Rosa mi ha raccomandato di studiare perché senza lo studio avrei fatto una fine da pezzente. Aspettavo sua madre? Sarebbe venuta immediatamente, intanto lei doveva salutarmi perché aveva troppe cose da fare. Mi ha dato una ruvida scompigliata ai capelli, è uscita dalla cucina. Tic-tic, facevano gli alti tacchi dei suoi zoccoli nel corridoio, tic-tic. Ho aspettato. Della madre neppure l’ombra. Mi guardavo in giro ormai spazientito, esasperato. Niente che potesse distrarmi, e la casa avvampava nel silenzio.

A un certo punto la voce della donna è risuonata dietro di me. Mi chiedeva se avevo dato una scorsa al libro, se stavo imparando. Mi sono girato per rispondere, ma anche questa volta sono stato preceduto. La lezione era finita, ha detto lei asciugandosi col palmo della mano il sudore che le colava abbondante dalle tempie. Potevo andarmi a scialare al mare.

Sono corso al Venezia, un’urgenza che mi squassava il petto. Perché d’estate lo stabilimento Venezia era il luogo che amavo sopra ogni cosa. Delirio di vento, sole, salsedine, cabine dai legni sconnessi e instabili come il travaglio dei giorni e delle notti reggine. Il mare del Venezia diventava tra luglio e settembre il mio destino - il mare che appena dopo qualche metro dalla riva scivola nel profondo, mentre la costa dall’altra parte sfuma in una lontananza impossibile. Diventava il limite dell’ultima terra conosciuta. Ma il Venezia era anche mio padre, il carabiniere che misurava doveri e piaceri con una bilancia truccata. Con l’idea che i primi -“improrogabili”- avrebbero dovuto limitare l’estensione dei secondi, e mai viceversa.

Hai imparato?, mi ha chiesto vedendomi tornare.

Ho imparato, ho risposto col puntiglio dettato dall’enormità della menzogna.

Dopo di che mio padre mi ha informato del motivo delle mie ripetizioni gratuite. Ha detto che lui aveva fatto un grosso favore “al marito bonanima quand’era in vita”, il signor Malara, e la moglie gli era rimasta riconoscente. Era stata lei, la signora Malara, che si era offerta di darmi le lezioni. Lui, il defunto, era stato un ingegnere del Genio Civile, un pezzo grosso. La famiglia era ed era rimasta benestante - case e appezzamenti di terreno in città e fuori. La signora Malara era stata insegnante di matematica al Tommaso Campanella e la figlia insegnava pure lei, ma alle elementari, e si occupava a tempo perso di altro. Sempre cose di alto rilievo, ha voluto precisare.


*


Oggi è venuto Nunzio ad aprirmi. Era già vestito, pronto a uscire di casa.

Ancora qua stai, ha gridato facendo l’atto di allentarmi un pugno. Mi ha guidato nel corridoio in direzione della cucina. Camminava svelto, dal corpo si liberava un profumo di colonia. La stanza era sommariamente pulita - scie del lordume del giorno prima simili alle bave di una lumaca, rimanevano impresse sul pavimento. Nell’aria stagnava l’odore pungente del DDT.

Nunzio mi ha fatto accomodare sulla stessa sedia, nello stesso punto del giorno prima. Ha bestemmiato e imprecato contro la madre che lo costringeva a sloggiare da casa quando avrebbe dormito chissà quanto ancora. Però, ha soggiunto, ammiccandomi ripetutamente, si sarebbe rifatto. Sarebbe andato al Lido dove la famiglia aveva una cabina. Là lo aspettava una con la quale se la faceva, una delle tante. Lui l’avrebbe “accontentata”, ha detto facendo un gesto osceno con la mano.

Chi c’è in casa?, gli ho chiesto per impedirgli di continuare e levarmi dall’imbarazzo che mi aveva provocato il suo gesto.

Che sono queste domande, cazzone? Per tua norma è regola, ha continuato alzando la voce fino a urlare, questa è una casa di signori educati ed è frequentata da persone importanti. Qua non si fanno mai domande.

La voce della signora Malara è risuonata da un punto non lontano della cucina.

La vuoi finire o no di gridare e te ne vai a strafottere da qualche parte?

In questa casa funziona tutto all’incontrario, i vivi puzzano e i morti profumano, ha replicato Nunzio abbassando di colpo la voce. Un giorno o l’altro me ne vado.

Mi ha fissato con aria di commiserazione. Mi ha detto che in casa si aspettava una persona importante e che la madre avrebbe dovuto almeno avvertirmi di non venire a lezione. Il fatto è che a te non ci pensano neppure, perché sei un ricchione, ha concluso.

Via lui, la casa pareva deserta. I pochi rumori arrivavano da fuori. Dov’erano finite le donne? Prima, seguendo Nunzio nel corridoio avevo notato le porte delle stanze chiuse, quando di solito erano spalancate e lasciavano vedere gli interni con i letti ancora sfatti. Tutto pronto per accogliere la persona importante. Ma chi era? come avrei dovuto regolarmi quando sarebbe giunta?

Uno squillo mi ha fatto sobbalzare. Al secondo, la casa si è animata.

Dev’essere lui, ho sentito gridare la signora Malara, vieni a rispondere.

Ma’, ho un gancio che non mi si… Rispondi tu per me, ha replicato da un punto più lontano la voce esasperata della figlia.

Un attimo dopo la Malara parlava al telefono, la voce insolitamente giovanile.

Sei tuuu? Qua ti stiamo aspettando tutti.

Una risatina, una pausa, e ha ripreso: Te la faccio venire immediatamente.

Si è messa a chiamare la figlia. Vengo sull’istante, ha lanciato quest’ultima ancora trafelata.

Tic-tic-tic-tic nel corridoio, e poi la sua voce dallo stesso punto da cui si era levata poco prima quella della madre:

Tesorooo. Certo, come no? E ti preparo la napoletana che piace a te, la solita… Come dici? Il caffè più forte? Fiat voluntas tua.

Ho udito il rumore del ricevitore che veniva abbassato, subito dopo la signora Malara è comparsa in cucina. Era pesantemente truccata. Si è messa a guardare intorno per valutare l’ordine e la pulizia della stanza. Un sorriso soddisfatto, e poi lo sguardo le è caduto su di me e si è data uno schiaffo sulla fronte. È andata a sedersi a un lato del tavolo. Mi fissava.

Ieri mi scordai di avvertirti che oggi riceviamo. Se vuoi puoi andartene e riprendiamo domani nel punto dove siamo rimasti.

Meglio che resta, così conosce il Maestro, è intervenuta Rosa facendosi avanti nella cucina.

Anche lei era truccata, però con gusto, i neri capelli ondulati sulle spalle. Nel suo sguardo c’era la luce di una contentezza gelosa, a malapena trattenuta - calda, complice come la sua voce. Era così bella nel suo vestito chiaro scollato, braccia e spalle nude, che mi sentivo soffocare.

Glielo leggo in faccia che vuole rimanere, ha detto parlando alla madre. Poi si è girata verso di me strizzandomi l’occhio. La signora Malara ha scosso il capo ridacchiando. Dalla tasca della blusa ha tratto una scatola di Edelweiss, ha sfilato una sigaretta, ne ha battuto ripetutamente l’estremità sulla scatola stessa. Sempre scuotendo il capo, l’ha accesa serrando il filtro tra i denti. Tirava a pieni polmoni, gli occhi erano due fessure.

Che poi, detto inter nos, ha brontolato parlando con voce fiacca tra le volute di fumo, impareresti più da lui che da noi due messe insieme.

Un Maestro, ha esclamato Rosa indicando ispirata alcuni punti del soffitto. È là, là, dappertutto. Bisognerebbe fargli un monumento.

La madre ha fatto mulinare una mano nell’aria.

Un genio in matematica, senza esagerazione, e pure filosofo e poeta. Certe poesie che fanno venire i brividi. - La signora Malara ha scosso gravemente la testa -. E tutti quei soldi che gli escono dal naso per quanti ce n’ha? Meno male che ha trovato noi Malara che ai soldi non ci teniamo. Lo possono testimoniare tutti quelli che ci conoscono.

Ora sentivo che la mia presenza lì era superflua. Con lo sguardo passavo dall’una all’altra donna, ma poi era su Rosa che lo lasciavo posare. Non sapevo se ero indignato o deluso per la mia presenza ininfluente. Però mi andavo innamorando di lei e già ne soffrivo, di questo amore.

E gli spiriti? - La signora Malara ha inarcato un sopracciglio mentre schiacciava con forza la cicca della sigaretta nel portacenere. Se penso all’ultima volta che facemmo la seduta - Socrate, non uno scalzacani qualsiasi. Devo riconoscere che solo lui ha la facoltà. Te lo immagini il tavolino che balla senza Ninni?

Era commosso, ha detto Rosa. Vidi che gli spuntavano le lacrime. Gli volevo fare una fotografia nel mentre diceva: grazie, grazie che venisti, Socrate.

Ci parlava da pari a pari, seppure col dovuto rispetto.

Ancora un silenzio scandito dagli scuotimenti di testa della madre e della figlia, dai loro sorrisi, dagli sguardi perduti nel ricordo.

La signora Malara ha tratto dalla blusa la scatola delle Edelweiss, ha fatto per sfilare un’altra sigaretta, ci ha ripensato, ha richiuso la scatola. Aveva assunto un’espressione accigliata.

Mi voglio augurare che non spunta quel lazzarone e mangiapane a tradimento di tuo fratello mentre c’è il Maestro. Quello è capace di tutto, lo sai.

Ti fai troppo il sangue acido per Nunzio, ma’. Lui è fatto com’è fatto… O Gesù Maria devo preparare la napoletana. Il caffè questa volta lo gradisce forte.

Si è precipitata verso una dispensa addossata al muro tra le due finestre, l’ha aperta, ne ha tratto una macchinetta napoletana e un pacco di caffè. Si è spostata al grande piano in marmo del lavello, ha armeggiato con la caffettiera dosando attentamente il caffè e l’acqua. La madre si era girata a guardare.

Meno acqua, le ha fatto notare.

In quel momento il telefono ha squillato.

Chi può essere?, ha detto la signora Malara inarcando il sopracciglio.

Vai tu a rispondere, lo vedi che sto trafficando e non posso lasciare.

La signora si è levata dalla sedia con un grugnito, ha fatto qualche passo rasente al tavolo. Il telefono ha smesso di squillare. Madre e figlia si sono guardate interrogativamente rimanendo per qualche istante in attesa. Rosa ha dato un’occhiata all’orologio da polso.

Magari tarda, lo sai quanto ha da fare. Io devo andare un momento nella mia camera.

La madre ha annuito. Rosa è uscita dalla cucina fischiettando Vola colomba. A questo punto la signora Malara si è messa a fissarmi col viso poggiato sulla mano, il gomito contro il tavolo. Ogni tanto serrava gli occhi, li teneva così per qualche tempo, li riapriva di colpo, sgranati e sempre puntati su di me, la fronte aggrottata come se non riuscisse a capacitarsi della mia presenza. Intuivo che non era me che fissava. Mi teneva gli occhi addosso come li avrebbe tenuti su qualsiasi cosa avesse incontrato la traiettoria del suo sguardo. Forse non guardava nessuno, forse rifletteva o addirittura dormiva a occhi aperti, ma mi sentivo lo stesso sulle spine. La osservavo di sottecchi rimanendo inchiodato al mio posto, immobile. Se almeno Rosa fosse tornata in cucina a liberarmi dal disagio che mi dava quella fissità. Poi la donna ha avuto un soprassalto, ha battuto ripetutamente le palpebre. Con voce più roca del solito mi ha chiesto se avevo ripassato.

Ho accennato di sì.

Lei ha scosso il capo.

Troppe preoccupazioni, tutti che lo disturbano, chi la vuole cruda e chi la vuole cotta.

Mi parlava senza guardarmi. Poi mi ha chiesto cosa ci facevo ancora lì seduto. Era meglio se me ne andavo. Quando mi ha visto che mi alzavo e mi preparavo ad uscire, mi ha raccomandato di presentarmi all’indomani alla stessa ora, libro quaderno e tutto, e di non dimenticare di portare i saluti a mio padre. Si è alzata per accompagnarmi alla porta. Mentre attraversavamo il corridoio, mi ha raggiunto da una porta socchiusa la voce di Rosa. Un ciao allegro, indifferente che mi ha colpito come una frustata.


*


Mio padre continua a chiedermi come vado in matematica. Si aspetta che lo tranquillizzi sull’argomento. Cosa che ho imparato a fare con molta bravura. Certe volte è lui che si risponde al posto mio, allora si mette a fare lodi sperticate delle mie ripetitrici. Ma è un fatto che al sesto giorno le ripetizioni non sono iniziate. Eppure ogni mattina sono atteso in casa Malara, e la mia puntualità è fuori discussione. Il libro di matematica è ben sistemato nella cartella insieme al quaderno, al momento giusto viene tirato fuori in attesa che inizi la prima lezione. E però, devo confessare, questo inizio ancora rimandato non mi mette in ansia. Almeno non quanto dovrebbe. Sono convinto che un giorno o l’altro avverrà e la mia ripetitrice anziana onorerà gli impegni presi con mio padre. Del resto le parole che mi rivolge lasciandomi in cucina col libro aperto o congedandomi alla fine dell’ora – “domani cerca di arrivare con la lezione imparata bene come si deve” - mi fanno ritenere che i miei progressi nella matematica sono a portata di mano.

Il mio vero assillo, la mia pena è Rosa. Lei che si limita a comparire in cucina, a scompigliarmi i capelli, azzuffarsi con Nunzio davanti a me, darmi del “malandrino”. Ad aggiungere che la mia malandrineria l’ha capita da subito guardandomi, guardando i miei occhi. Rosa che mi sfiora con maliziosa noncuranza e non sa quale ondata di emozioni suscita in me, quali desideri, quale tempesta di profumi solleva e fa giungere ai miei sensi turbati, anche quando è lontana. Se mi si mettesse accanto per un bel po’, morirei. Ne sono sicuro.

Stava per succedere due giorni fa, quando appunto mi si è seduta vicino e ha proclamato: Voglio vedere dove sei arrivato con la matematica, occhio di malandrino. Apri il libro.

Volevo dirle che il libro era aperto. Forse le avrei fatto notare orgogliosamente e per amore di verità che lo era sempre stato da quando ero entrato in quella casa, ma la voce mi è mancata. Ero stordito. Tremavo – così forte intimo era l’odore che veniva da lei, dal suo corpo. Aveva la veste abbottonata sul davanti e dagli spazi occhieggiavano le sue cosce. Sarei svenuto se non avesse squillato il telefono. Ho pensato subito al Maestro, dallo stordimento sono passato alla delusione, alla gelosia. Non era lui, ma Rosa non è più ricomparsa in cucina. Arrivato a questo punto, chi mi salverà da un sentimento che non mi dà tregua e dall’immagine misteriosa del Maestro e dagli spiriti che evoca nelle sue sedute, a cominciare da Socrate? Oltre che dal mistero del rapporto che lega la signora Malara e sua figlia al Maestro stesso? E infine dalla gelosia? Forse l’amicizia con Nunzio? Nunzio ha sette anni più di me, ma è come se ne avesse solo uno di più - al massimo due. Il suo corpo è quasi il doppio del mio per altezza, e lui è sempre pronto a rifilarmi una sventola, a gridarmi insulti, fare gesti osceni, rutti e magari anche scoregge. Eppure sento che è come me, estraneo come me in questa grande casa. Sento che a modo suo mi vuole bene. Che ama la sorella di un amore che lei sembra condividere o forse tollerare. Ma la cosa non mi disturba, perché quando l’afferra e la stringe a sé e la bacia sul collo e quasi sul petto è come se nel suo corpo abitasse il mio, la parte viva, palpitante del mio; e che al piacere che ne ricava si aggiungesse anche il mio piacere.

Sono sicuro che Nunzio odia il Maestro. Se avevo ancora qualche dubbio in proposito, ieri tutto mi è diventato chiaro. Avantieri la madre mi aveva avvertito che all’indomani aspettavano la visita importante e che era meglio non mi presentassi alla lezione.

Il giorno della visita mi aggiravo nei dintorni della palazzina. Poi mi sono fermato in un punto dal dove potevo tenere d’occhio la casa dei Malara. Volevo vedere a tutti i costi il Maestro, il mio rivale, e facevo attenzione agli uomini che si trovavano a passare da quelle parti. I più erano bassi, secchi o inquartati. Nessuno di alta statura, magro, elegante, in versione coloniale - canna di bambù, casco, foulard di seta annodato al collo - come mi immaginavo il Maestro.

Da dietro, un braccio mi si è stretto come una tenaglia intorno al collo, una mano mi ha tappato la bocca. Una voce conosciuta mi ha sibilato all’orecchio: Se gridi t’ammazzo.

Mi sono divincolato con tutte le forze, la morsa intorno al collo si è allentata, la mano si è staccata dalla bocca.

Che stavi spiando, cornuto che non sei altro, ha seguitato a dirmi nell’orecchio Nunzio.

E tu invece?, ho lasciato andare con la voce strozzata.

Nunzio mi ha affibbiato una sventola sulla nuca.

Come ti permetti di prenderti questa confidenza con me? Portami rispetto sennò…

Adesso mi teneva per un braccio e mi trascinava verso piazza del Popolo. Poi mi ha liberato.

Hai visto quello là?

Chi?

Non ha risposto. Pareva immerso in chissà quali pensieri. Ha levato il capo verso l’alto.

Guarda là, ricchione.

Ho seguito il suo sguardo. Nel cielo vagava qualche nuvola bianca. Quella che Nunzio mi indicava aveva preso la forma di un piccolo elefante seduto sulle zampe posteriori, la proboscide puntata in alto come una trombetta. Ma avrebbe potuto far pensare anche a un nano, la bocca spalancata come una voragine dalla quale fuoriusciva un rigo di fumo.

Ho abbassato interrogativamente lo sguardo.

Non capisci?, ha gridato lui. È quello là, il signorone, il Maestro di stucazz.

Gli occhi gli erano diventati due fessure come quelle della madre, le labbra gli tremavano.


*


Poi è andata così: mattinata qualsiasi, solito disordine, letti disfatti, tavolo della cucina e pavimenti sudici. Litigio tra la signora Malara e il figlio, Rosa che fischietta uno dei suoi motivi arricciando graziosamente le labbra mentre si lacca di rosso le unghie delle mani seduta di fronte a me in cucina. Siamo al capotavola di destra: lei a un angolo, io a quello opposto, a una distanza di appena un metro l’uno dall’altra. Da giorni la parte del tavolo che occupiamo viene regolarmente pulita per permettere a me di tenerci poggiato il libro e il quaderno e all’eventuale ripetitrice di fare la sua lezione.

Adesso Rosa si è messa a parlarmi del figlio di suo fratello grande che possiede doti “fenomenali” di disegnatore, e io non riesco a distogliere lo sguardo dalla sua bocca. Il suono delle parole che accompagnano con meditata lentezza i colpi del pennellino sulle unghie, si fa largo dentro di me. Si stiracchia nelle mie vene, scuote e fa martellare il sangue.

Ogni tanto fa la sua comparsa in cucina la signora Malara. I suoi movimenti sono bruschi. Viene, vede che la figlia mi parla e approva. Forse pensa che Rosa mi sta facendo la lezione, forse non pensa niente, le basta vedere che le cose si muovono, che “le rotelle del cervello girano”, come lei dice. Se non avesse litigato col figlio direbbe la sua, magari senza sapere bene di cosa si sta parlando. Mi chiederebbe se voglio qualcosa da mangiare anche se, precisa, al momento non può offrirmi nulla.

Eravamo a questo punto, quando il campanello della porta ha suonato. Rosa ha smesso di laccarsi le unghie tenendo sospeso a mezz’aria il pennellino. Questa è la vicina, ha sbuffato. Ha urlato alla madre di andare ad aprire. Da poco distante è arrivata una risposta incomprensibile.

Il campanello ha suonato ancora, insistentemente.

Con una smorfia di stizza Rosa si è precipitata nel corridoio, mentre io maledicevo mentalmente la vicina che per la terza volta in quei giorni la allontanava da me. Poi ho sentito il cigolio della porta che si apriva e l’esclamazione della mia seconda ripetitrice: Oddio, oddio, non ci posso credere - tu? E chi t’aspettava?

Dopo una pausa: Mi dovevi avvertire che venivi, c’è tanta di quella confusione.

Per caso è la prima volta che venni ignotus e me ne andai insalutato hospite?, ha replicato staccando le parole una voce maschile bassa, rauca.

Ma’, c’è Ninniii.

Si è sentita la porta cigolare, poi chiudersi. Quasi contemporaneamente è risuonato lo scroscio di uno sciacquone. Adesso nel corridoio c’era un’esplosione di voci femminili alle quali faceva da contrappunto quella maschile, calma, annoiata.

Ninni, vieni e manco ci avverti. Ci prendi a tradimento.

Gliel’ho detto pure io, ma’.

Ti vedo al superlativo, tu mi conosci che non dico esagerazioni.

Solo quattro giorni fa ci vedemmo e io fesso ero e fesso sono rimasto – dov’è tutto questo superlativo?

La risata gorgogliante della signora Malara, quella calda di Rosa.

Le voci si sono fatte più lontane. Arrivava un parlottio ininterrotto. Dovevano essere entrati in quello che qualche giorno dopo la mia frequentazione della casa, avevo individuato come il soggiorno, una camera a breve distanza dall’ingresso e meglio tenuta delle altre. Cercavo di capire cosa si dicevano, ma riuscivo ad afferrare solo qualche parola in latino che l’uomo declamava con voce annoiata, cantilenante. Ecco, ho pensato, da dove veniva a Rosa e alla madre la mania delle espressioni in latino che loro storpiavano allegramente, l’avevano presa dall’uomo col quale si intrattenevano in salotto. Dal Maestro - perché non poteva trattarsi che di lui. Pensavo questo, mi invelenivo per la gelosia, per la rabbia di essere stato lasciato solo nel mio angolo di cucina, il libro di matematica aperto come una bocca inutilmente spalancata. Pensavo a Nunzio, al suo silenzio impotente. Me lo immaginavo a smaniare nella sua stanza, a invelenirsi anche lui. E intanto l’aria si faceva soffocante, il tempo pareva essersi fermato. Possibile che si fossero dimenticati di me?

La voce di Rosa alle mie spalle. Mi chiamava bisbigliando il mio nome. Mi sono girato. Mi faceva cenno dal corridoio di andare verso di lei. Vieni, che il Maestro ti vuole vedere, vieni, malandrino, mi ha sussurrato all’orecchio appena l’ho raggiunta. E ancora la vertigine per la vicinanza, per l’odore del suo corpo. Mi ha afferrato la mano stringendola nella sua e guidandomi verso il salotto, una calma luce di orgoglio nello sguardo. A metà corridoio si è fermata. Mi si è messa davanti, e mi osservava muovendo il capo da una parte e dall’altra per controllare se ero in ordine. Alla fine ha annuito soddisfatta. Come per premiarmi, mi ha stretto a sé, poi si è staccata prendendomi la faccia tra le mani e mi ha sfiorato la bocca con un bacio. Di colpo la rabbia e la gelosia che avevo dentro sono sfumati. Avrei voluto urlare dalla contentezza.

Sulla porta del salotto la mia ripetitrice si è ancora arrestata trattenendo pure me con una stretta più forte della mano. Era come se mi preparasse all’entrata su un palcoscenico.

L’uomo in abito bianco e panama che sedeva in una poltrona con accanto la signora Malara, sprofondata pure lei in poltrona, ha sollevato piano sulla fronte le lenti da sole scoprendo due occhietti neri, puntuti. Li ha fissati su di me. Ha detto con un cenno svogliato della mano: Sinite parvulos venire ad me - i pargoli, i picciriddi.

Rosa mi ha spinto dentro, mi ha lasciato davanti all’uomo, alla mercé del suo sguardo. Lei è andata a metterglisi accanto, in piedi, la mano poggiata sulla spalliera della poltrona.

Mi riferiscono queste due amiche che tu hai fatto progressi mondiali in matematica.

Si è interrotto annuendo ripetutamente col capo.

Dimmi un po’, non è che poi mi diventi troppo esperto? Vedi, con le donne bisogna andarci piano, siamo sempre noi che ci rimettiamo... in copula.

La signora Malara è scoppiata a ridere.

Me lo guasti, Ninni. Io faccio gli sforzi per insegnargli qualcosa e tu me lo guasti, il mio discipulos.

Il Maestro ha calato le lenti sugli occhi stirando la bocca in un sorriso.

Casomai di-sci-pu-lus…us. E tu che hai da dire per l’occasione? - Si era rivolto a me.

Sono rimasto in silenzio, paralizzato dalle lenti scure. Con un misto di stupore e sgomento facevo andare lo sguardo sulla figura minuta, da nano, che mi trovavo davanti: sulla testa troppo grossa rispetto al resto del corpo, la bocca incavata, le labbra sottili come lame.

Il Maestro ha levato una mano a mezz’aria accennando con le dita all’indietro. Rosa si è immediatamente piegata su di lui accostando l’orecchio alla sua bocca. Mentre l’uomo le parlava, la mano poggiata famigliarmente sulla schiena, lei teneva lo sguardo rivolto verso di me. Poi si è scostata, non prima che lui le passasse la mano lungo il braccio nudo in una carezza che mi ha fatto rimescolare il sangue.

Rosa sorrideva guardandomi, gli occhi le brillavano.

Ci-cì, ci-cì. Sempre qualcosa da confidarsi questi due, ha lasciato andare con aspro tono di celia la signora Malara.

Il Maestro si è girato verso di lei stirando ancora una volta la bocca in un sorriso. La signora Malara si era fatta seria. Si è sentito il cigolio, poi il tonfo della porta d’ingresso che veniva sbattuta con forza. La signora Malara ha inarcato il sopracciglio.

Tu mi scuserai, Ninni, ma mi sento troppo mortificata, ha affermato la donna cavando dalla tasca della blusa il pacchetto di Edelweis e accendendo una sigaretta con la mano che le tremava. Ogni famiglia ha la sua disgrazia.

L’uomo ha puntato le lenti su di lei.

E che è? Giorno verrà che il sottoscritto e il giovanotto ribelle si diranno: qua la mano. E la questione è bell’e chiusa. E d’altronde…

Non ha proseguito; ha riportato le lenti in avanti ed è tornato all’immobilità di prima. Avevo l’impressione che neppure respirasse. La signora Malara ha sollevato una mano. Poi l’ha lasciata cadere lentamente. La figlia ha abbassato il capo, mettendo un’aria di compunzione. Nella camera era sceso il silenzio. Rosa è venuta verso di me e prendendomi nuovamente per la mano, mi ha guidato nel corridoio. Andava con passo felpato, attenta a non fare il minimo rumore, io la imitavo. Era come se camminassimo nella navata di una chiesa, io e lei.

In cucina, mi ha sorriso e scompigliato i capelli. Il Maestro dice che sei bello. Hai una faccia bella e l’espressione delicata, peccato però che sei timido. Io gli volevo dire: timido con te, perché con me invece si comporta da malandrino e non me la conta mai giusta. Un giorno quando sarà più grande, gli volevo dire, non so che pazzie mi farà fare questo malandrino.

Mi ha spinto, che ero tutto scombussolato, nel mio angolo di tavolo, mentre lei andava ad armeggiare con la napoletana sul marmo del lavabo. Mi girava le spalle, e io mi andavo riprendendo. E già tornava la delusione, il sospetto che mi prendesse in giro. Che poco prima mi avesse esposto come un oggetto, un soprammobile allo sguardo del Maestro e alle sue lenti scure. Con un fremito di rabbia e disgusto mi tornavano in mente la mano poggiata sul suo fianco, la carezza al braccio, e poi l’espressione, gli occhi brillanti di Rosa mentre stava piegata su di lui. Non sapeva il male che mi faceva lasciandosi carezzare in quel modo e accostando l’orecchio alla sua bocca? Ero lì che mi rodevo, ed ecco che irrompe in cucina la signora Malara. Con passo deciso si dirige verso la figlia.

Ci tiene a vederlo che gli vuole dire quattro parole. Non so che ci trova in questo qua.

Si è rivolta a me di malagrazia: Che stai aspettando? Vai, che ti desidera.

Io non ci tenevo a vederlo. Non ero nemmeno sicuro di volere rimanere un minuto di più in quella casa, ma neppure di volermene andare. Desideravo tanto che Rosa mi lanciasse almeno un’occhiata, dicesse una parola. Aveva preso a litigare con la madre. Litigavano a voce bassa, furiosamente – per una questione di soldi, mi pareva. Rosa sfogava la sua rabbia su uno straccio da cucina che torceva con forza.

Mi sono deciso, ho lasciato la stanza. Prima però ho salutato. Lei si è girata a guardarmi, ma come si guarda uno estraneo o un incomodo. La madre non si è neppure voltata.

Ho camminato col cuore pesante nel corridoio. Non mi sarei presentato davanti al Maestro. Sarei uscito da quella casa per non tornarci più. Però quando sono passato lungo il salotto mi sono fermato a guardare. L’uomo era come lo avevo lasciato, le lenti scure sugli occhi. Le finestre erano state accostate, la sua figura spiccava nella penombra - una macchia bianca incastonata nel marrone scuro della poltrona. Rimanevo lì a fissarlo. Mi veniva a mente il calamaro morto che il mare aveva depositato un giorno sulla striscia di spiaggia del Venezia. Bianco sul grigio sporco della sabbia. Del bianco già livido della decomposizione.

Ho fatto per proseguire e guadagnare la porta, ma il panama si è mosso, la voce dell’uomo mi ha inchiodato.

Che fai? Vieni.

Sono entrato nella stanza, il Maestro ha increspato le labbra in un sorriso.

Pensai e dissi a me stesso: sfruculiamolo, questo giovanotto. Appuriamo se c’è sostanza.

Si è interrotto. Con voce più stanca, più remota, cantilenante: Dissi a me stesso: vedi se sa, se magari se l’è già fatta la domanda, se no ficcagliela tu in quella testa: Perché campiamo? E digli: più in là vienimi a trovare con una risposta, la qualunque, e ne parliamo. Apri le orecchie – le hai aperte? Gli uomini, sottoscritto compreso, non ci dicono più niente sul problema…nihil, e che dovrebbero dirci? Teste vacanti, cervello cervelletto e anima. Nessuna speranza, tutti morti. Se va bene, sepolcri imbiancati, come diceva quel sant’uomo.

È rimasto in silenzio. Dopo un sospiro ha ripreso: Ti informo - o ti informarono già le mie amiche che stanno sempre con la testa ai miei soldi e sperano di fottermeli? Alle dieci di sera di ogni giovedì loro vengono. Io li chiamo e vengono, i cari morti illustri, le anime dei morti. Mussolini pure lui venne, pure lui…

La voce gli si era incrinata. Si è ancora interrotto, ha lasciato andare due colpi di tosse, un sibilo, come di un palloncino o di una camera d’aria che si sgonfia. Poi silenzio.

Stavo davanti a lui, e non trovavo il coraggio di muovermi. Ora mi pareva che la faccia del Maestro brillasse nella penombra - sudore o forse lacrime. Un respiro calmo, regolare gli sollevava il petto. Poi ecco che il respiro si fa più pesante, dalla bocca gli viene fuori un gorgoglio, un rantolo. Sforzandomi di non fare rumore, ho azzardato un mezzo passo in avanti, mi sono proteso con tutto il busto a guardare e sentire. Russava dietro le lenti scure. Di lì a poco, pensavo, sarebbe morto come il calamaro sulla spiaggia del Venezia. Sono rimasto a fissarlo. Fissavo la sua bocca, le labbra che frullavano, ascoltavo il respiro pesante. E anche a me veniva sonno guardandolo, mi sentivo stanco, sfibrato. Ho pensato con terrore: chissà che non muoio pure io o non sono già morto. E che diventerò come quel calamaro.

Un istante dopo ero nel corridoio. Dove mi sono fermato ad ascoltare, l’orecchio teso verso la cucina. Non si sentiva una voce, un rumore. Pensavo a Rosa. Dov’era adesso? cosa faceva? Possibile che anche lei fosse morta? Pensavo alla sua indifferenza, quando avevo lasciato la cucina. Mi dicevo che non l’avrei più rivista. Sono sbucato sul pianerottolo, e da lì a scapicollarmi per le scale. Fuori, il sole incendiava le case. Doveva essere la mezza. Andavo svelto, il pensiero al Venezia come a un rifugio. Poi mi sono fermato di botto. Nunzio. Ho levato lo sguardo in alto. Non c’era uno straccio di nuvola, lo specchio blu accecante del cielo rifletteva il suo deserto sulla terra. Come avrei voluto Nunzio accanto a me. Come avrei voluto camminare con lui nel sole. Anche via Marina era deserta, le palme immobili sospese nell’aria come fantasmi. Pareva che tutto si fosse fermato nella città e il sole infiammasse una terra di morti.

Allora mi sono messo a correre, e non mi fermavo più.



L’uomo degli spiriti è parte di una breve serie di racconti dal titolo Collina degli angeli. Si tratta di narrazioni inanellate, secondo un ordine cronologico, da temi ricorrenti (la scoperta in età infantile del male, dell’amore, il senso della morte), temi ed eventi tesi a costituire nell’insieme un romanzo di formazione. Lo spazio di dispiegamento e verifica delle storie è Reggio Calabria, città impervia, chiusa, segnata da sempre dalla violenza, ma non priva di quella fascinazione che le deriva dal suo rappresentarsi come luogo di confine marino e, dunque, di miti e di incantamenti.
Uno dei racconti della raccolta, dal titolo kubiniano L’altra parte, è uscito per Avagliano nel 2004 nell’antologia monotematica Bugie, curata da Idolina Landolfi.


domenico.vuoto@alice.it