Non soffrivo di depressione, di particolari nostalgie; cercavo di non affliggermi troppo per i tormenti giornalieri che la vita offre a chiunque anche se non avrei potuto giurare che tutto ciò mi fosse estraneo. Di tanto in tanto, il mio proverbiale equilibrio veniva a mancare e dovevo fare i conti con quelli che chiamavo i pensieri bianchi: una difficoltà di concentrazione, l’insofferenza al chiasso della città, piccoli sdoppiamenti… Nel correre inutile nel caos delle strade – una sorta di ostacolo non ben identificato – m’impediva, a tratti, di andare verso la gioia piena. Così, grazie a una chiave regalatami da mia madre, m’inventai brevi viaggi verso l’Isola.
Avevo scelto un luogo fatto di cose secolari, di un silenzio franto solo dal vuoto dei miei passi, dalla musica dello scirocco vagabondo che sollevava gli steli. Ma c’era un’altra ragione più pragmatica a quella mia scelta: lontana dalle luci della città, fuori dal tempo, con l’impossibilità di poter essere raggiunta da chicchessia, speravo di poter dar vita al mio terzo romanzo. Amavo guardarmi attorno supina nell’erba, per lunghe ore, con un quaderno rosso in mano, ancora vergine d’inchiostro, un dono di Laurent, l’amico-fidanzato di sempre, l’uomo che mi faceva cadere in un mare di sensi di colpa.
Certe mattine lasciavo che il quaderno toccasse la terra e che le formiche o altri insetti prendessero possesso delle pagine e magari le vergassero di un qualche segno di vita.
Di tanto in tanto mi veniva in mente che avevo rinunciato ad approfondire quel “andiamo a vivere insieme”, frase pronunciata da Laurent una sera d’inverno quando meno me l’aspettavo e mi ero ritrovata a prendere tempo, a cercare una risposta con una grande – ma insieme chiarissima! – baraonda in testa, a usare goffamente la strategia della reticenza.
L’improvviso silenzio venutosi a creare in pochi minuti ci aveva lasciato stupefatti.
Mentre si allontanava il ricordo di Laurent, aprii le pagine del quaderno rosso. Sulla prima scrissi: 12 maggio. Ma poi arrivò il ventisette maggio, e poi il trenta luglio e non avevo scritto più niente. Continuavo a camminare a lungo nei sentieri scoscesi, tentando di afferrare il senso del camminare, di ricordarmi i nomi di ogni albero, di ogni insetto. Seguivo l’acqua della sorgente; leggevo libri seduta sui muretti a secco. A parte mia madre, nessuno sapeva che mi trovavo qui, lontana dal mondo.
La grande casa rosa nella quale mi rifugiavo, appartenuta a molte generazioni della mia famiglia materna dimostrava l’accavallarsi di diversi periodi. Gli alti soffitti e i corridoi creavano giochi di luci e ombre inaspettati. Ma a riempire ogni vuoto erano i quadri. Li trovavo sistemati dappertutto, persino per terra in un accumulo ordinato. Tutti di buona fattura, siglati nell’angolo basso a destra con una “A” maiuscola, rappresentavano per lo più fiori, scene di caccia o angoli di campagna.
Una notte mi svegliò un rumore nella camera attigua a quella dove dormivo. Stava piovendo e dalla finestra sbirciava un piccolo ramarro che, sorpreso, andò a infilarsi sotto un letto matrimoniale ricoperto da lenzuola di lino grezzo che toccavano il pavimento. In ginocchio sotto il letto cercai il ramarro per stanarlo e spingerlo fuori col retino delle farfalle ma allungando la mano fui leggermente ferita dal chiodo che proveniva da un quadro abbandonato da chissà quanto. Feci scivolare il quadro fuori dal nascondiglio aspettandomi di trovarvi l’ennesima rappresentazione di una scena bucolica, o un bouquet di rose sistemate in un vaso d’argento. Invece, nulla di tutto questo… mi trovai dinanzi al ritratto di una ragazza quasi identica a me, con in testa un cappello di paglia, dal sorriso indefinibile e dagli occhi scuri che mi fissava come per volermi svelare chissà quale segreto. Guanti di camoscio o di daino, comunque di pelle, ricoprivano le mani della giovane che peraltro portava un vestito estivo d’organza. Altri guanti erano impilati sul suo grembo. Perché? Perché la ragazza del ritratto portava guanti invernali che contrastavano col vestito estivo?
Dietro al quadro, una scritta: Aurélie (autoritratto) 1890. Ora sapevo chi era la ragazza. La mia bisnonna Odile, quand’ero adolescente, mi aveva confidato, almeno in parte, la storia di sua madre una ragazza di campagna soprannominata “la principessa”, tanto i suoi modi erano aristocratici, inconsueti per l’ambiente di gente semplice che la circondava. La principessa, a un certo punto della sua vita, secondo le voci della gente, aveva perso il lume della ragione.
Aurélie, di carattere indipendente, non faceva la vita delle altre ragazze della sua età. Amava dipingere e aveva chiesto di poter studiare alla scuola d’arte di Bordeaux, ma fu allora che in famiglia cominciò l’inferno: una brava giovane di campagna non poteva andare su e giù per i treni e recarsi, lontana da ogni controllo in una grande città, luogo di chissà quale perdizione.
Per togliere i grilli dalla testa di Aurélie, i suoi genitori pensarono di mandarla nel laboratorio di guanti impiantato nella zona da poco tempo. Lì, avrebbe lavorato in compagnia di altre tre cugine e alcune ragazze della zona. Imparare un mestiere, per una donna ribelle con tendenze “artistoidi”, poteva rivelarsi un potente calmante per lo spirito.
Fatto sta che la mia trisavola imparò il mestiere di guantaia. Lo imparò così bene che ricevette il riconoscimento di “Operaia di Francia”, un grande onore per l’epoca. Non le sfuggiva nessun punto; infilava gli aghi con grande velocità; le sue mani tagliavano e cucivano pelli sottilissime tanto che le furono affidati i compiti più difficili e delicati del laboratorio.
Ma vi sono destini amari in cui le persone hanno un bersaglio al posto del cuore.
Non aveva più molto tempo per sognare, Aurélie, quando sulla sua strada arrivò Jules, un parigino, ricco venditore di pelli che aveva messo il “grappin”1 su di lei. Ormai Aurélie era incaricata persino di scegliere le pelli per la guanteria perché il suo gusto era sicuro. Non aveva neppure bisogno di toccarle per capire quali fossero le più adatte e le più raffinate per la ricca clientela francese.
Jules invece, oltre che accarezzare le pelli, non disdegnava la compagnia delle belle donne. E Aurélie, secondo il racconto della mia bisnonna (che a sua volta aveva ascoltato i pettegolezzi della gente del villaggio), non seppe resistere a lungo di fronte a quell’attraente ragazzo baffuto che sapeva “embobiner”2 le ragazze, con fiori, parole, regali d’ogni sorta. Aveva viaggiato per il mondo e forse vantava qualche viaggio in più per far breccia nei cuori. Sapeva anche promettere, Jules. Le promise per esempio, che se l’avesse sposato, si sarebbero trasferiti a Parigi, così Aurélie avrebbe studiato alla scuola d’arte più quotata della capitale francese e non le sarebbe stato difficile frequentare i grandi artisti che esponevano a Parigi. Inoltre le assicurò che se si fosse stancata della vita d’artista avrebbero potuto mettere su una fabbrica di guanti “la più grande fabbrica di Francia!”, pare le avesse detto.
E chissà a quante altre commediole diede vita, Jules, con i suoi bei modi! La voce della mia bisnonna s’incrinò a quel punto del racconto:
“Presto, non lo si vide più, il bel Jules”.
“E Aurélie, come la prese?”, chiesi.
“Ti sembrerà strano, ma all’inizio, a quanto si raccontava, fece come se nulla fosse accaduto”.
Per quanto ne sapesse la mia bisnonna, passarono mesi e un mattino, Aurélie non si presentò nella guanteria. La sua assenza meravigliò tutte le colleghe, perché in tanti anni non si era mai permessa un minuto di ritardo. Certo, negli ultimi tempi si comportava in modo inconsueto: dimenticava le cose, parlava da sola con la fronte appoggiata al vetro della finestra come se fosse abitata da un’assenza. Se le si chiedeva a che cosa stesse pensando, rispondeva frasi sconnesse come “sto facendo il giro del mondo”. Oppure, mentre cuciva mormorava “Paris… Paris”.
Fu trovata impiccata in cantina e vicino a lei, due gemelli appena partoriti. Il bimbo ormai cadavere, la bambina – la mia bisnonna –, cianotica ma viva per miracolo.
Le compagne della ragazza raccontarono ai gendarmi che non aveva mai dimenticato la sua vera vocazione d’artista. “A lei” dissero le operaie “non interessavano quei pochi franchi che guadagnava alla fine del mese. Voleva perfezionare la sua arte”.
Ma certe voci andavano in altra direzione: pareva che ad Aurélie non importasse più la carriera di pittrice e che ci avesse messo una pietra sopra. Anzi, forse amava di più fare la guantaia perché i pochi franchi guadagnati le davano una certa indipendenza. Non erano molte le ragazze di quell’epoca che potevano vantarsi di portare uno stipendio a casa. Le donne che lavoravano fuori casa erano malviste e avrebbero finito coll’indossare il cappello di Sainte Catherine, attribuito alle sfortunate che superavano il venticinquesimo anno di età senza il barlume di un pretendente. Le poverette si sarebbero guadagnate l’appellativo a vita di “vieille fille”.3
“Sappi che essere tacciate di ‘vieille fille’ era grave quanto festeggiare la Pasqua prima delle palme”, disse la mia bisnonna.
“Come sarebbe a dire festeggiare la Pasqua prima delle palme?” le chiesi.
“Da queste parti, era il peccato dei peccati: significava restare incinta prima dal matrimonio”.
“E tu bisnonna Odile hai mai festeggiato la Pasqua prima delle Palme?”.
“Neanche per sogno! Troppo rischio, figlia mia. Ogni volta che il tuo bisnonno tentava di baciarmi… avevo dentro di me un tribunale interiore che mi ordinava di tirarmi indietro. Io ho festeggiato Pasqua… il giorno di Pasqua, sia lodato Iddio!”.
“Fu un vero scandalo in paese la morte di Aurélie?”
“Ci vollero anni prima che si spegnesse l’eco dello scandalo per il doppio peccato di mia madre: l’infanticidio seguito dal suicidio”.
Questo dialogo tra me e la mia bisnonna Odile si perdeva nella notte dei tempi.
Nella stessa cantina in cui morì la ragazza, frugando in una cassapanca trovai una lettera mai spedita e destinata al Signor Curato Hector Grandet: Sono stata messa incinta ad opera del signor Jules Jouvenel, unico uomo col quale ho sottostato a conoscenza carnale. La lettera portava la firma di Aurélie Desbarges.
Nei libri di storia ricordavo d’aver letto che il re Enrico IV aveva rilasciato un editto che obbligava le ragazze a dichiarare davanti al prete o al pubblico ufficiale il loro stato. Chi non sottostava rischiava addirittura la pena di morte. Un tempo, molte ragazze rimanevano gravide e spesso i fidanzati le abbandonavano. Non resistendo alla vergogna di dover rivelare la loro condizione, le più deboli, le cosiddette “senza religione” uccidevano il neonato o lo abbandonavano vicino a una chiesa. È probabile che l’editto del “buon re Enrico” avesse avuto lo scopo di arginare la moria dei neonati. Era in uso che il prete, una volta al mese durante la funzione rivelasse ai fedeli il contenuto di tale dichiarazione e ciò costituiva l’ultimo oltraggio per le povere ragazze spesso rigettate dalla famiglia. Ma questo editto fu abbandonato alla Rivoluzione. La mia antenata, secondo i miei calcoli, aveva scritto quella dichiarazione, un secolo circa dopo la Rivoluzione francese. Perché lo aveva fatto? Per dimostrare che i tempi non erano cambiati neppure con la Rivoluzione e che le donne dovevano sempre sottostare? Era così folle, Aurélie, da credere di essere in un’altra epoca? Aveva perso la testa per amore fino al punto di ubbidire a una legge non più in vigore?
La storia della mia trisavola in fondo mi apparteneva. E forse nell’Isola, nel silenzio di quella grande casa piena di misteri, avrei trovato altri indizi per capire le motivazioni che l’avevano portata a compiere quel gesto. Frugando nei cassetti, nascosto sotto pile di vestiti trovai il suo diario. Quel quaderno sbiadito mi aspettava da molto tempo. Che cosa avrebbe rivelato?
Le parole di Aurélie, uguali al vento fresco che circolava a sera negli ulivi, suonavano come quelle di una ragazza sana di mente, benché melanconica. Lessi in una pagina aperta a caso: “Ho sempre sognato di vivere per qualche tempo in un’isola, ma so che un giorno ci andrò quando sarò assente dalla terra”. Richiusi il diario. Volevo entrare con lentezza e rispetto nella vita di Aurélie.
Sul muro, intanto, ballavano i pensieri bianchi, ma quel giorno ebbero una durata ragionevole.
Quella che chiamavo l’Isola – la casa dove un tempo era vissuta la mia antenata – non aveva mare attorno. Si trattava solo di un luogo di campagna dimenticato da tutti. Ma per me era la Terra Promessa dove lasciare una porta semiaperta a quel respiro in cui le cose rimaste in sospeso trovano un loro perché. L’Isola diventava il luogo dove stendere sulla pagina qualcosa che stava accendendosi come una lampada di notte. Avrei intitolato il mio ultimo romanzo L’isola dei pensieri bianchi e appuntai il titolo sul quaderno. Volevo dare un senso a storie come quella di Aurélie.
Il libro si scrisse da solo, come guidato da una mano estranea.
I giorni, intanto, divenivano trasparenti e freddi. Presto, sarei rientrata nella città imbavagliata dal traffico, dagli odori di benzina e spazzatura. Pensai che avrei potuto telefonare a Laurent per dargli una spiegazione plausibile della mia lunga assenza.
Ci misi una vita a comporre il suo numero. Chissà se sarebbe stato ancora possibile ritrovare la mitologia domestica, la sintassi delle convenzioni. Di rinvio in rinvio, forse volevo solo appoggiare di nuovo la testa contro la sua giacca autunnale. Giuro, mi venne solo quel pensiero idiota.
Ma così, mi facevo donna innominabile.
1Accalappiare qualcuno.
2Abbindolare.
3Zitella.
Foto di Lino Cannizzaro
viviane.c@alice.it
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