Con Tevere in fiamme (Azimut, 2008) Alessio Brandolini giunge alla sua sesta raccolta, dove si accentua la componente visionaria e fantastica, ma a partire da una base concretissima (e anzi addirittura ‘politica’), già presente in molti testi precedenti. Si potrebbe parlare di realismo magico o di real-meraviglioso, riprendendo la nota formula applicata alla letteratura sudamericana così cara all’autore. In effetti, lo slittamento di tipo fantastico-surreale è ben presente in quasi tutti i componimenti, caratterizzati da un’effusività e da una fluenza da discorso ininterrotto; tuttavia, quasi sempre il fluire poetico nasce da un innesco (come direbbero i neurobiologi e i linguisti) decisamente contingente, come quando l’io si accorge di aspetti della realtà più banale che però sembrano distruggere la sua coerenza di persona (si veda, a titolo di esempio, Grandinata di parole sparate dal silenzio).
La visionarietà nasce insomma da un intenso bisogno di cambiare limiti e confini, di esprimere potenzialità interiori che viceversa tendono a essere represse: sintomatica una delle poesie migliori dell’intera raccolta, Di più non posso / sottrarmi alle tenebre..., che appunto si conclude con la scena che offre lo spunto per il titolo generale:
Si possono quindi seguire vie non battute, si possono sognare eventi che cambino il corso di una vita e di un intero periodo storico.
Forse proprio questo Brandolini coglie nella poesia sudamericana, da lui anche tradotta con passione (basti pensare alla recente edizione di Sordomuta dell’argentino Jorge Boccanera, pubblicata da LietoColle nel 2008, e vincitrice del “Premio Camaiore”). La tendenza a superare i confini precostituiti è evidente, e fornisce anche spunti alla configurazione ritmica dei componimenti, in alcuni casi decisamente variegata (quasi jazzistica) come in Svelta cala la notte: scimitarra... o in La città eterna ci rovina addosso, non bastano le palafitte..., dedicata alla memoria del poeta venezuelano Eugenio Montejo, recentemente scomparso.
Si arriva all’intersezione con la prosa nella seconda e conclusiva sezione della raccolta, Zattere d’acqua, in cui echeggiano ancora ricordi di temi cari agli autori sudamericani (l’incipit del testo eponimo, per esempio, sembra riprendere spunti di un João Guimarães Rosa), con una ancor più accentuata tensione verso l’estremo, come in Notte illuminata a giorno. Ma interessanti risultati sono raggiunti anche quando gli squilibri tendono a smorzarsi, e la rievocazione si arricchisce di toni quasi colloquiali, come nella validissima Ci provo da sveglio.
CI PROVO DA SVEGLIO
1.
... hai gli occhi imbrattati di un rosso vaporoso. alchimia del pensiero e dello sguardo che scorre sulla pelle dei polpacci. distratto e profuso alla fine di settembre: eravamo in tanti per questo non hai salutato nessuno. taglio la lingua in quattro per vedere se fiorisce nuova-mente. mi ricordavo dell’azzurro di piazza Farnese, delle luci disseminate sui manifesti, e di un me seduto, afflitto, a scrivere dei versi dedicati a via del pellegrino. ho prenotato un posto all’inferno: ci andrò da solo e tornerò quando ne avrò voglia. tanto non sei più calda come una volta e poi hai perso del tutto il senso del miraggio. la dolcezza s’è come dissolta nell’acido delle tue asprezze. ho faticato a comprenderti a fondo, a metterti a fuoco, a raschiarmi di dosso i baci molli, le torve carezze. la prima volta accadde quando prendesti a sbattere mani e piedi come una pazza. e poi la testa a martello: sulle zone più delicate del corpo, della mia incredula faccia.
Mi avvicino e ti parlo come a un bambino sconosciuto di sei anni. Hai gli occhi imperlati di sudore e in bocca una manciata di spine.
2.
Ora sto faticando ad aggiustare un sogno onesto ci provo da sveglio, però mi sento come quando uno si solleva di scatto dal letto e non riconosce la stanza dove dorme. né le proprie mani e allo specchio il proprio volto. allora prende a balbettare a se stesso qualcosa d’incoerente. sogna grappoli d’uva e di neve, un tavolo con il pane appena sfornato, gli ulivi nell’orto-giardino sotto il paese. non ha più paura d’ascoltarsi, né di uscire a tormentare il Tevere, le cupole, i palazzi, i platani, la linea blu dei Castelli romani davanti al faro tricolore del Gianicolo. prova a sentirsi nel paesaggio urbano, negli strati di lava sotto il fiume. non sa nemmeno s’è morto o vivo. per questo le sue parole vagano di verso in verso: ordigni poetici che esplodono nell’acqua troppo cheta del pensiero.
d’accordo, ora la smetto. sì, proverò a dormire un paio d’ore da sveglio. ok. vediamo se funziona ...
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Alessio Brandolini, Tevere in fiamme, Azimut, Roma 2008, pp. 62, € 8,00
Questa recensione esce in contemporanea sul sito culturale il sottoscritto, con il titolo "Lo slittamento fantastico".
alberto.casadei@ital.unipi.it
Su Tevere in fiamme vedi anche il numero 5
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