FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 11
luglio/settembre 2008

Generazioni

DACIA MARAINI, IL TRENO DELL’ULTIMA NOTTE

di Alessio Brandolini



  O Europa quanti confini
su ogni confine quanti omicidi
non farmi annegare la ragazza tra gli affanni
lei che partorirà tra due anni.

         Attila József


Amara Sironi è la protagonista dell’ultimo romanzo di Dacia Maraini, Il treno dell’ultima notte (Rizzoli, 2008), ambientato nel 1956 ma con una storia in cui si viaggia molto, sia nello spazio che nel tempo: si torna indietro, agli anni della guerra, a quelli delle persecuzioni razziali, religiose e politiche - ma parliamo di anni, al massimo di un paio di decenni - e in treno ci si sposta in una Europa divisa a metà dalla cortina di ferro. Si va dall’Italia, all’Austria, alla Germania, all’Ungheria in rivolta.

È un treno lento che arranca sulle rotaie. Si dirige verso nord. Amara se ne sta seduta composta, in preda a una sorta di eccitazione sonnolenta. Il primo lungo viaggio della sua vita. Un treno che si ferma a ogni stazione, ha i sedili decorati da centrini fatti a mano e puzza di capra bollita e di sapone al permanganato. Sono gli odori della guerra fredda che ha diviso i paesi dell’Ovest da quelli dell’Est, segregandoli con muri, fili spinati e soldati armati di fucile.

Così ha inizio questo romanzo fortemente civile e di respiro europeo, che affascina fin dalle prime pagine e cattura l’attenzione del lettore, con impeto, con forte partecipazione. Colomba, il precedente romanzo della Maraini pubblicato nel 2004, aveva la sua base nella storia italiana, nel paesaggio abruzzese e retrocedeva di più nel tempo. In questa nuova storia Amara, una giornalista che muove i primi passi nella sua professione, cerca di capire il presente allacciandolo al passato prossimo, non a quello remoto, ovvero di comprendere la generazione che l’ha preceduta, alla quale appartengono i propri genitori, e le tracce di questo passato sono tutt’ora presenti ovunque, anche nei suoi ricordi di bambina.
La donna deve scrivere articoli per un giornale che l’ha inviata all’estero ad esplorare la vita che lentamente riprende il suo corso naturale tra le macerie delle seconda guerra mondiale, del nazismo, dell’olocausto. Visita Auschwitz-Birkenau, poi si ritrova coinvolta nella rivolta di Budapest iniziata il 23 ottobre 1956 e che terminerà, un paio di settimane più tardi, con la resa del 10 novembre, dopo l’invasione dell’esercito russo con i suoi 2000 carri armati T 34/85 e l’appoggio dell’aviazione.

La giornalista vorrebbe anche scoprire che fino ha fatto un suo vecchio e carissimo amico d’infanzia, Emanuele, un bambino ebreo dolce e sensibile che dalla Toscana si era trasferito con la famiglia a Vienna, proprio durante il periodo delle leggi razziali, come a sfidarle, visto che erano ricchi e la mamma di Emanuele era austriaca e nazista e, inoltre, suo padre era stato un eroe della prima guerra mondiale, da dove era tornato con una medaglia al valore e senza un braccio.
I due adolescenti erano rimasti per un certo periodo di tempo in contatto epistolare, fino al 1943, fino a quando la famiglia di Emanuele era stata rinchiusa nel ghetto di Łódź. Poi Amara non aveva più avuto notizie del suo amico, del suo grande amore, anche se i due si erano ripromessi di non vivere mai l’uno distante dall’altro: ora sono passati tredici anni dall’ultimo contatto, lei si porta dietro le sue lettere, che ogni tanto rilegge fino a imparare interi brani a memoria. E quelle lettere trascritte in corsivo nel romanzo sono degli affondi nel passato, pagine via via più penose quando Emanuele prende a raccontare, nei minimi dettagli, la vita o, meglio, la durissima lotta per la sopravvivenza nel ghetto di Łódź.

Amara è un personaggio femminile dal carattere tenace, come già è capitato d’incontrarne nei romanzi di Dacia Maraini, che s’immerge nella storia del Novecento per comprenderla, per sforzarsi di capire anche quello che possono aver patito le vittime delle persecuzioni, della guerra, dei bombardamenti. Non vuole chiudere gli occhi, nemmeno sulle cose più brutte, raccapriccianti. La descrizione di come erano perfettamente organizzati i campi di concentramento - al fine di compiere in fretta lo sterminio di ebrei e nemici - è degna di un libro di storia, o di un documentario. Dacia Maraini oltre a verificare in modo preciso quei fatti, morti e sofferenze, oltre ad aver letto i documenti dei deportati, aver visto migliaia di foto, ha un’esperienza diretta di come si vive in un campo di concentramento, essendo stata internata da bambina due anni in Giappone.
La “soluzione finale” appare in tutta la sua tragicità, “la banalità del male”, per citare il famoso libro di Hanna Arendt del 1963 sul processo ad Adolf Eichmann, è narrata e svelata in una delle tante storie che intersecano quella principale: la moglie di un ufficiale nazista che si accorge di qualcosa di strano raccogliendo cicoria nel prato dove vive tranquillamente da anni (ovvero in un lager) e si domanda cosa potrebbe essere quella polvere densa e maleodorante che le si appiccica addosso.
Tutti sapevano e chi non sapeva era perché si ostinava a tenere gli occhi chiusi. In molti condividevano quell’agire “a fin di bene” per una Germania più grande, per un’Europa più (o del tutto) ariana e nazista. Frasi dette e ripetute con convinzione che generano consenso, partecipazione, cinismo. A lungo, fin dopo la guerra, come dimostrano i colloqui che Amara avrà con persone che avevano aderito all’ideologia nazionalsocialista traendone un profitto anche economico: quanti sono gli austriaci e i tedeschi che si sono arricchiti con i beni sottratti agli ebrei? o con terreni e case acquistate a prezzi irrisori da chi non aveva più diritto a un lavoro, da chi si vedeva costretto a fuggire all’estero? Oltre ai lager, ai milioni di morti, per oltre un decennio fu portata avanti una rapina sistematica e spietata e anche di questo occorre parlare e avere memoria.

Il treno che ad Amara “è così familiare e amico” la porta in Ungheria, proprio durante i giorni della sollevazione di Budapest: all’inizio di poche decine di studenti e poi di tutto un popolo. Assiste al desiderio di libertà che viene calpestato dai carri armati russi, da un regime comunista che alla sua nascita intendeva essere parte integrante delle classi lavoratrici, le stesse che ora si ribellano all’oppressore e vengono calpestate senza pietà, con l’approvazione dei vari partiti comunisti europei (così Togliatti, che non batterà ciglio). In quei pochi giorni morirono quasi tremila ungheresi e 250.000 furono costretti a una fuga precipitosa in Austria e in Svizzera.
Un’Europa calpestata e divisa, ancora, a dieci anni dalla fine del conflitto mondiale e poi ci sarà, nel 1968, la rivolta di Praga, finita sempre in tragedia. Alla sofferenza s’aggiunge altra sofferenza, l’odio s’accumula e s’infiltra alle radici. Sarà per questo, poi, che la nascita di un’Europa unita politicamente si sta trasformando in una cosa più complicata e osteggiata del previsto: le stesse paure e ferite che in un primo momento avevano avvicinato popoli e paesi europei ora sembrano riemergere per stimolare, al contrario, diffidenza e distacco che innalzano nuovi confini mentali.

Amara arranca con i suoi amici per le strade ferrate europee, lentamente per via dei continui controlli alle frontiere, chiusi in vagoni dove è proibito tenere i vetri aperti, “non sono previsti varchi né fessure verso l’esterno su quel treno che tenta di sgusciare, più che da un paese all’altro, da una civiltà all’altra, da una mentalità all’altra. Un vecchio treno con pochi passeggeri, una catena di logori vagoni che vogliono forzare le maglie della divisione del mondo”.
Un viaggio che porta la giovane donna lontano da casa, dalla sua Firenze, da uno scontro amoroso con il suo uomo e la Maraini è molto abile a tessere - non accanto ma insieme - la storia privata della protagonista, con i suoi conflitti e dubbi sentimentali, con la sua infanzia e la sua famiglia, alla Storia. Sì, quella con la esse maiuscola, restando l’autrice sempre fedele ai fatti e filologicamente rigorosa. In effetti, poi, quante cose in più dei dati storici (mai trascurabili, ovviamente) vengono fuori dagli incontri tra le persone: quello tra Amara e l’amico conosciuto in treno, all’inizio del viaggio, che indossa sempre lo stesso maglione con una fila di gazzelle in corsa, con il colto bibliotecario e soprattutto quello che avrà con i reduci dai campi di sterminio: come si cambia dopo una simile esperienza? La mutazione è sempre profonda, irreversibile e può portare alla morte interiore o alla morte a distanza (come non ricordare Primo Levi). Però a questo punto del romanzo è meglio restare nel vago, sì, perché il libro è ricco di attese che creano tensione e suspense.

Il treno dell’ultima notte è un romanzo storico e, insieme, d’avventura, non a caso l’omaggio a Joseph Conrad, con l’epigrafe tratta da Cuore di tenebra, che poi è anche un modo per ribadire che la vita, pur nella tragedia della generazione che visse la seconda guerra mondiale, l’Olocausto e poi l’oppressione stalinista, deve essere vissuta fino in fondo, e con partecipazione. Una partecipazione civile e sociale: Amara è sempre attenta alle cose, ai fatti, ma, soprattutto, alle persone, le osserva come se dovesse fotografarle, portarsele dietro per sempre, farle vivere ogni giorno nel proprio cuore, nella memoria, come ha fatto con l’amico d’infanzia Emanuele. E come cambia la nostra vita, ci fa capire Amara, vivendo in un luogo anziché in un altro, un decennio prima o quello successivo!
A volte bastano pochi anni e si decide del nostro futuro, se sarà felice o drammatico, breve o lungo.
A volte bastano pochi chilometri.
Tra Budapest e Vienna, in effetti, ci sono poche decine di chilometri, eppure lì, nel ’56 si lottava e si moriva per strada. Le pagine del libro in cui si narra della rivolta ungherese sono superbe: quel fervore contagioso, le radio libere, la speranza di un paese autonomo e poi la rievocazione di Jánoz Mesz “gamba di legno”, uno dei capi della rivolta ungherese. Quel fervore, dicevo, vive in quelle pagine e fa palpitare il lettore.
Poi arriva il momento in cui il treno che “imprime un ritmo ai suoi pensieri” riconduce Amara a Vienna, verso la conclusione di questa storia e al probabile incontro con il suo amore d’infanzia, con Emanuele.
Ma se è vivo, se è scampato all’inferno, cosa sarà rimasto di quel bambino ribelle, ma sempre allegro e pieno di vita, che sognava di volare come gli uccelli nel cielo di Firenze? Cosa del suo sogno d’amore e di vita libera e leggera?

La polvere densa e maleodorante uscita dai camini dei campi di sterminio nazisti non plana più sulla nostra pelle ma resta dentro di noi, nella storia della civiltà umana, come un demone addormentato e Il treno dell’ultima notte ce lo ricorda e invita a stare all’erta, a mantenere vivo il ricordo.
Sono molte le cose che affascinano in questo romanzo: la limpidezza del linguaggio che varia e si piega quando a parlare e pensare è Amara o Emanuele, con le sue lettere; il raccontare i fatti come se fossero una progressione d’immagini e foto; l’intersecarsi di storie che vedono gli stessi accadimenti da un punto di vista diverso e rafforzano la struttura del romanzo (e in generali della scrittura della Maraini), ne potenziano la voce confermando l’importanza della memoria, della conoscenza, della partecipazione umana e sociale, l’orrore per ogni lager, per ogni tipo d’ingiustizia.
A fine lettura si resta con una solida storia nella mente, una fitta schiera di personaggi ben costruiti e un’idea di libertà di pensiero che viaggia come un treno nel tempo e nello spazio. Un’idea limpida e irrinunciabile d’indignazione contro il male, l’indifferenza e il cinismo.


Dacia Maraini, Il treno dell’ultima notte, Milano, Rizzoli, pagg. 429, euro 21,00.




CINQUE DOMANDE A DACIA MARAINI


Il tuo precedente romanzo, Colomba (2004) ha una base storica italiana, nel tuo nuovo romanzo invece, Il treno dell’ultima notte, la storia è quella europea. Però all’allargamento geografico sembra corrispondere un restringimento temporale: dalla metà degli anni ’30 alla metà degli anni ’50, come a voler mettere a fuoco nel miglior modo possibile il periodo più tragico della storia d’Europa del secolo passato.

È vero quello che dici: Colomba è il racconto di diverse generazioni, con la storia dell’Italia che fa da sfondo. È un libro corale. Mentre Il treno dell’ultima notte racconta una vicenda più ristretta che viene profondamente segnata dalle tragedie del '900.

Amara ha un rapporto speciale con il treno (“in treno si sente a casa”) che la conduce nei territori del dolore: l’Austria e la Germania, paesi reduci dalla dittatura nazista, e poi nei paesi dell’Est che affrontano lo stalinismo. Il treno culla la giovane donna ma, allo stesso tempo, è come se la rendesse più sveglia e partecipe: il viaggio non è solo geografico, ma anche nella memoria collettiva degli ultimi decenni. La donna vuole vedere con i propri occhi, vuole sapere tutto dei lager, vuole entrare nelle ferite lasciate aperte, così come vuole scoprire cosa è accaduto all’amatissimo amico d’infanzia Emanuele che da Firenze si era trasferito a Vienna.

Il treno è un luogo propizio alle letture e alle riflessioni. Io amo molto il treno. Se non fosse per i cellulari che squillano ad ogni momento e per le voci che gridano senza ragione, il treno è il luogo dove mi sento più a mio agio dopo casa mia. In treno ho letto centinaia di libri, in treno ho pensato e anche scritto. Raccontando di Amara, ho cercato di far rivivere l’atmosfera, gli odori dei treni del dopoguerra che erano scomodi, puzzavano, (sto parlando delle terze classi naturalmente, quelle che poteva frequentare Amara che non disponeva di molti soldi), si fermavano in mezzo alla campagna senza una ragione, a volte per paura di mine rimaste inesplose, a volte per carenza di carburante. Diventavano delle vere e proprie case in cui la gente si faceva visita, chiacchierava, mangiava, dormiva.

Questo numero di “Fili d’aquilone” ha per titolo “Generazioni” e il tuo nuovo romanzo mette a confronto due epoche molto vicine, attaccate direi, eppure diversissime, almeno per i paesi occidentali: una generazione che ha vissuto discriminazioni razziali, dittature, guerre e l’inferno dell’Olocausto e quella successiva, dei figli che ora vivono e si godono (siamo nel 1956) la democrazia, la pace, la ripresa economica e magari vorrebbero dimenticare, non vivere con il peso schiacciante di quei tragici avvenimenti.

Sì, la generazione di Amara viveva per la prima volta la pace e lo sviluppo economico, ma c’erano ancora le tracce visibilissime dei danni subiti durante la guerra.
In quanto all’oggi, penso che la civiltà del mercato in cui viviamo tenda a suggerire l’oblio. Per consumare meglio non bisogna ricordare. Voltarsi indietro vuol dire fermarsi a riflettere, mentre per comprare bisogna guardare avanti e non cincischiare. La ruota deve girare con velocità crescente ed è quello che facciamo tutti. Anche, purtroppo, nel mondo della letteratura, dove un romanzo o un libro di poesie, non durano più di qualche settimana e poi si mandano al macero. Sempre alla ricerca del nuovo, di qualcosa che abbagli e colpisca. Il tempo della riflessione e della memoria è un grande tabù per il buon consumatore. Per questo penso che sia un fatto eversivo che gli scrittori resistano a questa tendenza perversa e si mettano a ricordare e riflettere sul passato.

C’è molto dolore in questo romanzo, soprattutto nella parte finale. Il dolore che uccide o trasforma le persone: nel corpo, nello spirito. Qui c’è un enorme contrasto tra chi ha vissuto sulla propria pelle quei crimini e ne porterà per sempre il peso e chi, al contrario, li ha ordinati o eseguiti quasi inconsapevolmente (penso ad Adolf Eichmann che durante il processo ebbe il coraggio di definirsi “salvatore del popolo ebraico”) e chi sapeva ma non voleva capire: per interesse, ottusità o cinismo.

Io sono cresciuta accompagnata dalle immagini di questo dolore. In parte l’ho vissuto anche in prima persona con l’esperienza del campo di concentramento giapponese. Inoltre mentre scrivevo il romanzo, proprio negli ultimi due anni, ho assistito alla malattia e alla morte del mio compagno. La frequentazione quotidiana dell’ospedale per le malattie del sangue, la vista delle sofferenze continue e dei morti, certamente ha influito, non sulla vicenda ma sul clima del libro.

Amara s’indigna per quello che viene a sapere, ne soffre, resta sconvolta da tanta crudeltà. Il treno dell’ultima notte è un’avventura nel passato, però qui tutto è reale, rigorosamente vero: la vita nei ghetti, la morte nei lager, la rivolta di Budapest. Un’analisi (narrativa) che non fa sconti a nessuno, senza indulgenze né compromessi. Come a voler dire che solo conoscendo nei dettagli quelle tragedie o altri fatti importanti, come per esempio la rivolta e la repressione di Budapest, le generazioni future potranno evitare il ripetersi di altre spaventose tragedie.

In effetti è così: bisogna conoscere per capire. Ovviamente non sempre è possibile conoscere direttamente e di persona, e allora bisogna mettere in moto l’immaginazione: lo scrittore deve sviluppare una immaginazione multiforme e sensibilissima, capace di cogliere e ricostruire nei dettagli ciò che vuole raccontare.

 


da IL TRENO DELL’ULTIMA ORA


Ed ecco che la folla si apre, si divide. Davanti a loro, nel grigiore della piazza disseminata di carte e sassi, illuminata malamente da fiochi lampioni, appare un carro armato sovietico. Hans spinge Amara per il braccio verso una strada laterale. Ma la cosa più sorprendente è che sul carro armato, che ha perso l’aria minacciosa di sempre, ci sono in piedi una trentina di ragazzi che saltellano, gridano, tengono issata una bandiera ungherese.

«Hanno sequestrato il carro armato, ha visto? l’anno sequestrato. Non so come faccia a procedere con tutta quella gente sopra.» Hans ride contento. Anche lui è sorpreso da quell’impresa. Un carro armato sovietico ridotto a portatore di gente in festa che inneggia felice a una libertà troppo facilmente conquistata.

«Non sarebbe l’ora di tornare a casa?»

«A fare che?»

«Non sappiamo niente degli altri. E se Horvath si fosse fatto male?»

«Sarà felice come una pasqua. È un gran giorno, Amara. Dobbiamo viverlo fino in fondo. Dopo anni di sottomissione, di ubbidienza, di paura, di terrore, di odio represso, ecco che stiamo vivendo il giorno dei no, della rottura del silenzio, della gioia di essere se stessi, senza finzioni, di amare il proprio paese, di sentirsi indipendenti, non più spiati, controllati, impediti... è un grande giorno, Amara, e sono felice di averlo potuto vivere per le strade, assieme agli ungheresi.»

«E quello chi è?»

Hans si volta a guardare l’uomo che sta ritto di fronte a loro. Non è alto ma ha un portamento maestoso. Tiene una bandoliera di proiettili appesa sulla spalla, un cappello calcato sulla fronte, in mano un fucile carico. Ma la cosa più sorprendente è che in fondo ai pantaloni, appare, anziché una caviglia di carne, un pezzo di legno che finisce come un ramo spezzato sulla pietra del marciapiede.

«È Jánoz Mesz, l’uomo dalla gamba di legno. Tutti lo conoscono. È famoso per il suo coraggio.»

Ma l’uomo che sta fermo come per farsi fotografare nell’ardore della fierezza, ora si incammina rapido, zoppicando, verso il vicolo Corvin.




DACIA MARAINI

Nasce a Firenze nel 1936. Nel 1938 si trasferisce con la famiglia in Giappone, poi in Sicilia. Dall’età di diciotto anni vive e lavora a Roma. Scrittrice italiana tra le più note, eclettiche, prolifiche e tradotte nel mondo. Collabora con riviste letterarie e scrive per il Corriere della Sera.
A ventun’anni fonda, assieme ad altri giovani, la rivista letteraria “Tempo di letteratura” e comincia a collaborare con varie riviste. Nel ’62 pubblica il primo romanzo, La vacanza (Lerici). Nel ’63 esce il romanzo, L’età del malessere (Premio Formentor). A memoria esce nel ’67 per Bompiani. La raccolta di poesie Crudeltà dell’aria aperta è del ’66 (Feltrinelli). In questi anni Dacia Maraini comincia a occuparsi di teatro e fonda, assieme con altri scrittori, il “Teatro del Porcospino”, in cui si rappresentano solo novità italiane. In quel periodo vive con Alberto Moravia, una convivenza che durerà fino agli anni settanta. Nel ’68 esce il libro di racconti Mio marito (Bompiani) e due anni dopo il libro di teatro Ricatto a teatro e altre commedie (Einaudi). Nel ’73 è tra i fondatori del teatro “Maddalena”, gestito e diretto da donne. Nel ’72 pubblica il romanzo Memorie di una ladra. Monica Vitti ne ricava il film Teresa la ladra. Nel ’75 esce Donna in guerra (Einaudi). È di quegli anni il testo teatrale Maria Stuarda, che viene tradotto e rappresentato in quindici paesi. Nel 1980 esce Storia di Piera (in collaborazione con Piera Degli Esposti). Ferreri ne ricaverà un film. Dell’84 il romanzo Il treno per Helsinki, (Einaudi). Nell’85 Isolina (Mondadori - Premio Fregene), nel 1990 Lunga vita di Marianna Ucrìa (Rizzoli - Premio Supercampiello), da cui è stato tratto il film di Roberto Faenza. Nel 1991 esce la raccolta di poesie Viaggiando con passo di volpe (Rizzoli), lo stesso anno viene pubblicato il libro di teatro Veronica, meritrice e scrittora (Bompiani). Nel 1993 escono Bagheria e Cercando Emma (Rizzoli). Nel 1994, Voci (Rizzoli) e nel 1996 Un clandestino a bordo (Rizzoli), un breve saggio sulla maternità e sull’aborto. Nel 1997, il romanzo Dolce per sé. Nel 1998 E tu chi eri? (Rizzoli), un libro intervista sull’infanzia, e Se amando troppo, raccolta di poesie scritte tra 1966 e il 1998 e, sempre per la Rizzoli, nel 1999 viene pubblicato Buio, una raccolta di storie tragiche, tratte da fatti realmente accaduti, (Premio Strega). Nel 2000-2001 vengono pubblicati da Rizzoli: Amata scrittura, Fare teatro 1966-2000, La nave per Kobe. Nel 2003 Piera e gli assassini (in collaborazione con Piera degli Esposti) e, nel 2004, il romanzo Colomba (Rizzoli).

www.daciamaraini.it


alexbrando@libero.it