FILI D'AQUILONE rivista d'immagini, idee e Poesia |
Numero 11 luglio/settembre 2008 Generazioni |
IN RICORDO DI EUGENIO MONTEJO di Alessio Brandolini |
Il 6 giugno 2008 è morto a Caracas (dove era nato nel 1938), dopo una breve ma violenta malattia, Eugenio Montejo, il poeta più rappresentativo del Venezuela e una delle voci fondanti della poesia ispanoamericana nel secondo Novecento. Diplomatico, studioso e critico letterario, Montejo era stato insignito nel 2004 in Messico con il prestigioso Premio di Poesia e Saggistica “Octavio Paz”.
L’opera di Montejo merita d’essere conosciuta e amata, e si concentra soprattutto sulla poesia, come poeta in proprio, ma anche come studioso e critico. L’esordio risale al 1967 con la raccolta Élegos seguita, nel 1972, da Muerte y memoria. Già in questi due lavori sono presenti i temi principali (e ricorrenti) che poi qualificheranno i libri più maturi: la natura e gli animali. Quante poesie dedicate agli alberi! acacie, cedri, palme: “la vita è scritta sulle foglie dei banani”. Alberi periscopi, torri di vedetta, compagni di strada. Alberi sapienti che vivono e meditano muovendo i loro rami. Gli animali non sono quelli domestici, quelli ai quali siamo abituati, ma umili cicale, asini, galli, vari tipi di uccelli, rane, formiche e persino i rospi. Essi rappresentano un elemento di base (“Ho imparato molto dal passero / che al mattino mi sveglia”), indispensabile a questa poesia (v. Partitura della cicala), quel legame che perdura da millenni tra tutti gli esseri viventi (“Oggi, ad esempio, mentre ascoltavo il grido / di un tordo nero, di ritorno verso casa, / grido ultimo di chi non attende un’altra estate / ho capito che nella sua voce parlava un albero”) e il paesaggio illuminato dalla luce tropicale: fiumi, pianure, persino le pietre che è una parola simbolo di Montejo (“Ha sempre avuto ragione la pietra, / nostra maestra amara”), assieme a “luce” (che “ha in sé la vita e la morte”), “mappa”, “verde”, “lento”, “neve”.
Altro argomento che da sempre accompagna l’opera del poeta venezuelano è la conversione simbolica del paesaggio tropicale “dove la magia del tropico assoluto / cresce in un urlo nel profondo del mio sangue”.
nitidamente scritte e negli alberi, soprattutto d’autunno. (Talvolta mi pare d’essere un albero) Credo nella vita come territudine, Anche nella raccolta successiva, Trópico absoluto (1982) il titolo ha un valore decisivo perché pone subito in risalto l’ambiente, i luoghi, i “paesaggi tatuati negli occhi” che ritornano nella poesia di Montejo: le terre calde e fertili del Venezuela, Caracas, il tropico esuberante e vitale, ma che visto dall’interno perde gli aspetti idilliaci e diventa “un paesaggio che ti mette alla prova”.
Nel 1986 esce in Messico l’antologia Alfabeto del mondo, una vasta scelta del suo lavoro poetico con l’aggiunta di nuovi testi, che sono quelli che danno il titolo alla raccolta, e Montejo si fa conoscere in tutto l’ambito ispanico.
L’antologia La lenta luce del tropico mette a fuoco l’alta poesia di Montejo, molto fedele a se stessa nel corso dei decenni. Un mondo sobrio eppure mitico, per via dei paesaggi (e passaggi) ricorrenti, dello spazio aperto, dei cieli azzurri che lo sovrastano, delle cose buone (i canti del gallo o della cicala) che si ascoltano, degli odori forti della savana. Una nostalgia per un legame perduto, un dolore per le cicatrici storiche (dittature, guerre e orrori del XX secolo), le rovine intorno e dentro l’uomo, divenuto inconsapevole, per via dei troppi affanni, di quello che lo circonda (“Gli uomini corrono dietro le loro voci / ma le voci vanno alla deriva”), così come del dono (prezioso e irripetibile) della vita. Non così gli alberi e gli animali fedeli all’unione con la Terra.
I riferimenti poetici di Montejo sono estesi. Dalla poesia greca, con i temi del viaggio e dell’esilio, Itaca e l’omaggio al grande Kostantinos Kavafis al suo svagato – ma quanto incisivo – passaggio tra le rovine d’Alessandria d’Egitto, a quella orientale, dove gli artisti trovano la propria fonte non nell’ispirazione, ma nella fusione con la natura. Dai poeti spagnoli del “Secolo d’oro” a Pessoa e, ovviamente, alla poesia latinoamericana: per esempio il venezuelano Vicente Gerbasi, il peruviano César Vallejo, il colombiano Álvaro Mutis (al quale dedica diversi testi), i messicani Ramón López Velarde, Octavio Paz, Jaime Sabines per la poesia amorosa dell’ultimo periodo, e i grandi poeti brasiliani della generazione del 1922 come Carlos Drummond de Andrade. Ma si pensa anche all’Ungaretti di “Girovago” o “I fiumi”, a Eugenio Montale, non solo per l’assonanza dei nomi tra i due poeti, ma per le prime raccolte: Movimenti e Ossi di seppia, con quell’osservare meticolosamente “le forme della vita che si sgretola”. Viene in mente Saba, sia per l’esplicito omaggio nella citata Trieste, che per il tono della voce: pacato e chiaro, colloquiale e dimesso, avvolto da una luce lenta ma che inflessibile destruttura paesaggi, ricordi, città, canti degli alberi o dei galli, persino il tempo che “intorno a noi esiste e non esiste”, in una prospettiva circolare tesa a erigere un nuovo universo con i residui del vecchio, o così avvertito dall’uomo contemporaneo frastornato dalla frenesia e dalla velocità delle immagini. Come se il poeta-panettiere nel “laboratorio bianco” impastasse materiali considerati di scarto nell’era della globalizzazione forzata, del razionalismo tecnologico: prati, nuvole, uccelli, sangue, rane, fiumi, paesaggi, pietre... Un po’ come faceva Alberto Burri nei suoi lavori artistici. Montejo recupera materiali poetici e “impasta” poesia non solo con le mani o, meglio, le sue mani (occhi, orecchie, cuore) sono anche quelle degli alberi, delle pietre, degli animali (la “partitura” non è “per” cicala ma “della” cicala), degli antenati che percorrono il suo sangue, persino degli uomini che un giorno abiteranno la Terra. Che poi, a ben pensarci, non è solo una riuscita scelta linguistica, ma anche poetica, una sorta di “classicismo rivoluzionario” che accettando il ruolo della poesia, sempre più ghettizzata e inutile (“La poesia attraversa la terra in solitudine, / appoggia la sua voce sul dolore del mondo e niente chiede / – nemmeno parole”, e un suo saggio degli anni ottanta s’intitola Poesia in un tempo senza poesia), la rende ancora più necessaria, più “assoluta”. Per questo la tavola dev’essere imbandita “con limpide parole / per vivere, forse per morire”. Ecco, lì Eugenio Montejo dice tutto e con occhi prensili e “verdi” osserva (e fa osservare al lettore) l’assoluto, l’enigma-dono di stare qui, sulla Terra, e d’essere vivi. E lo fa in punta di piedi, con discrezione e dolcezza, ma tenendosi ben saldo alle radici dell’uomo.
apoya su voz en el dolor del mundo. Per questo poi la sua poesia (avidamente letta e riletta) si è trasformata in me in una grande lezione di vita e di poesia. Per mesi e mesi ho intessuto un fitto (e anche sofferto) dialogo con la sua poesia che si è intrecciata alla mia. I versi di Eugenio Montejo mi sono venuti in soccorso (con la loro forza etica e la loro suadente dolcezza) in un buio periodo di solitudine poetica, nonostante la distanza tra Caracas e Roma e il fatto che non ci siamo mai conosciuti. È così che sono nati i miei testi poetici di “Tevere in fiamme (20 asterischi per Eugenio Montejo)”, usciti sul numero 5 di Fili d’aquilone (gennaio-marzo 2007), che l’amica Marina Gasparini Lagrange da Venezia aveva poi rigirato allo stesso Montejo. Qui sotto una mia poesia tratta da Tevere in fiamme (in uscita a novembre), un omaggio e un ricordo da Roma al grande poeta di Caracas.
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Vedi anche, sul n. 5
Eugenio Montejo, La lenta luce del tropico
di Antonella Ciabatti