FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 9
gennaio/marzo 2008

Luoghi narrati

FILOSOFIA E GIOCO:
LA POESIA DI JUAN MANUEL ROCA

a cura di Martha Canfield



  Può essere il vento.
La pagina in bianco. Può essere.
Può essere colui che viene
Cancellato dalla pioggia.

    Juan Manuel Roca

Juan Manuel Roca, nato a Medellín (Colombia) nel 1946, è autore di circa dodici libri di poesia, una raccolta di racconti e numerosi testi giornalistici e di critica letteraria. Suo padre e suo zio Luis Vidales furono molto importanti nella sua formazione: suo padre come giornalista, suo zio come primo, precoce e forse inimitabile surrealista colombiano; suo padre come presunto conservatore, in realtà anarchico; suo zio come uomo di sinistra, libertario, legato alle tradizioni popolari. Juan Manuel Roca, che ha dichiarato di dovere molto a entrambi, ha coltivato tuttavia una posizione personale, segnata dallo scetticismo nei confronti delle ideologie in genere e dei partiti politici in particolare. I viaggi e i molti spostamenti imposero alla sua infanzia un marchio di instabilità, di dubbi, di poche certezze, che poi si riflette nella sua poesia. Partendo da un linguaggio vicino all'ermetismo, Roca evolve verso una maggiore trasparenza e verso la riflessione filosofica.

Fa parte della cosiddetta generazione del desarraigo, ossia dello "sradicamento", chiamata anche "generazione disincantata", che comprende buona parte dei poeti nati dopo il '40. Il suo libro País secreto (Paese segreto) è un libro di riflessione sul crocevia sociale in cui vive da anni la Colombia, ma che respinge il linguaggio diretto e preferisce ricorrere allo "specchio deformante" dell'immagine poetica, più incisiva e alla fine più vera.
Ha detto Juan Manuel Roca: "Noi apparteniamo a un paese che è un po' come quello di Sisifo, ogni giorno dobbiamo ricominciare a sollevare la pietra per risalire fino alla cima e poi vedere la pietra che cade per ricominciare ancora; così, la staticità del nostro paese di fronte alla violenza fa sì che il mio libro Paese segreto abbia in qualche modo una certa permanente attualità, proprio per il fatto che non cambia nulla. Questo libro fu scritto sotto le misure di sicurezza del nefasto governo di Julio César Turbay Ayala, siamo alle porte di una ditattura neoliberale e nulla è cambiato".

Juan Manuel Roca è sicuramente uno dei poeti viventi più importanti della Colombia e ha influenzato moltissimo le generazioni nate dopo il 1960. Da circa 17 anni tiene un laboratorio di poesia nella Casa Silva di Bogotà. Dirige una pubblicazione periodica culturale, La sangrada escritura..
Nel 1976 fu insignito del Premio Nazionale di Poesia dell'Università di Antioquia (Medellín); nel 1997 la Universidad del Valle (Cali) gli ha conferito la laurea Honoris Causa in Letteratura; ha avuto inoltre il Premio Eduardo Cote Lamus di poesia, il premio di giornalismo Simón Bolívar e il premio di narrativa dell'Universidad di Antioquia. Nel 2004 ha avuto il Premio Nazionale di Poesia del Ministero di Cultura di Colombia, nel 2007 il Premio Casa de las Américas (Cuba) e il premio di poesia di Aguascalientes (Messico).

Ha pubblicato i seguenti libri: Memoria del agua (1973), Luna de ciegos (1975), Los ladrones nocturnos (1977), Cartas desde el sueño (1978), Señal de cuervos (1979), Fabulario real (1980), Antología poética (1983), País secreto (1987), Ciudadano de la noche (1989), Luna de ciegos (antologia, 1990), Pavana con el diablo (1990), Prosa reunida (1993), Monólogos (1994), La farmacia del ángel (1995), Antología de poesía amorosa (1997), Lugar de apariciones (2000), Los cinco entierros de Pessoa (2001), Arenga del que sueña (2002), Cartografía memoria (saggi attorno alla poesia, 2003), Esa maldita costumbre de morir (narrativa, 2003).




BREVE ANTOLOGIA POETICA
di JUAN MANUEL ROCA

da Cantar de lejanía - Antología personal


 

    GALOPAR

    Yo tuve un caballo. Era su crin espesa.
    Sus ojos diurnos en la noche.
    Yo tuve un caballo antes de nombrar espejo
    En casa de ciego. Secretos parajes recorrimos,
    Ciudades huidizas al despunte del verano,
    Flores de piel en el valle penumbroso,
    Noches con barcas cargadas de silencio.
    Yo tuve un caballo
    Antes de cantar entre los sordos. Antes de hablar
    De su país al desterrado,
    Cuando aún no cantaba la canción de medianoche.
    Con él recorrí los blancos patios de la aurora
    Escuchando el réquiem por el agua.
    Aún confundo su galopar y el de mi pecho.

    da Los Ladrones nocturnos, 1977


    GALOPPO

    Ho avuto un cavallo. La sua criniera era folta.
    I suoi occhi erano diurni nella notte.
    Ho avuto un cavallo prima di nominare specchio
    a casa di ciechi. Segreti paraggi abbiamo percorso,
    città fuggevoli all'inizio dell'estate,
    fiori di pelle nella valle in penombra,
    notti con barche cariche di silenzio.
    Ho avuto un cavallo
    prima di cantare tra i sordi. Prima di parlare
    del suo paese all'esiliato,
    quando ancora non cantava la canzone della mezzanotte.
    Con lui ho percorso i bianchi cortili dell'aurora
    ascoltando il requiem per l'acqua.
    Ancora confondo il suo galoppo con quello del mio petto.


    LOS MUROS DE LA NOCHE

    Correteando los rincones de la noche
    Viene de ronda mi voz
    Por la oscura nación de los espejos.
    Amplio presidio, mi país.
    En su alta torre de mil pájaros
    Asomarse a la ventana sanea el corazón.
    Aún corre mi antigua voz
    De la edad de los aromas,
    Corre junto al sonoro mar de cafetales,
    En el olor de los manglares
    Sube hasta el cielo.
    Mi voz resuena en las praderas del pecho
    Cuando un trampero camufla
    La boca a la cisterna
    O pinta un túnel en los muros de una celda.
    Inmenso hospicio, mi país.
    Evadiendo trampa a trampa, muro a muro,
    Viene de ronda mi voz
    Por la oscura nación de los espejos.

    da País secreto, 1987


    LE MURA DELLA NOTTE

    Vado su e giù per i confini della notte
    e come una serenata arriva la mia voce
    attraverso l'oscura nazione degli specchi.
    Vasto presidio, il mio paese.
    Presso la sua alta torre di mille uccelli
    affacciarsi alla finestra lenisce il cuore.
    Gira ancora la mia voce
    dell'età dei profumi,
    scorre insieme al sonoro mare dei campi di caffè,
    nell'odore delle mangrovie
    sale fino in cielo.
    La mia voce risuona nelle praterie del petto
    quando un imbroglione camuffa
    la bocca del serbatoio
    o dipinge un tunnel sui muri di una cella.
    Sterminato ospizio, il mio paese.
    Evitando trappola dopo trappola, muro dopo muro,
    come una serenata arriva la mia voce
    attraverso l'oscura nazione degli specchi.


    ÉSTE ES EL SOL

    ¿Y no se cansa este sol de brillar sobre los muertos?
    ¿Y no se aburre de tostar lagartijas, de secar los jarros de pulque?
    ¡Terco, puto sol que alumbras los juegos de los niños de Sayula!
    Sol destemplado como una vieja pandereta, tibio sol
    Que caliente el alma en pena de los vientos.

    ¿Quién anda por ahí?
    ¿Quién ese jirón de aire?

    Fulgor Sedano, Damiana Cisneros, Pedro Páramo,
    O acaso el extranjero de piel, deshabitado de cuerpo
    Que mira la lluvia de estrellas en el cielo cobalto de Comala.

    Todos, de vista hacia el futuro pertenecemos al mapa de Comala,
    Somos briznas de luz, concilio de sombras en tertulia con la muerte.
    ¿Y no se cansa este sol de brillar sobre los grises tejados del ausente?

    da Tríptico de Comala, 1989


    QUESTO È IL SOLE

    Ma non si stanca questo sole di splendere sopra i morti?
    Non si annoia di abbronzare lucertole, di prosciugare le brocche di pulque1?
    Cocciuto, stronzo sole che illumini i giochi dei bimbi di Sayula!
    Sole stemperato come un vecchio tamburello, tiepido sole
    che possa scaldare l'anima in pena dei venti.

    Chi va là?
    Chi mai è in quel soffio d'aria?

    Fulgor Sedano, Damiana Cisneros, Pedro Páramo,
    o forse lo straniero per la pelle, sfrattato dal corpo
    che guarda la pioggia di stelle nel cielo color cobalto di Comala.

    Tutti, guardando verso il futuro facciamo parte della mappa di Comala,
    siamo steli di luce, concilio di ombre in convenevoli con la morte.
    Ma non si stanca questo sole di splendere sopra le tegole grigie dell'assente?

    1Voce messicana: idromele, bevanda fermentata dei germogli di agave.


    RUMORES DE COMALA

    Dicen las viejas comadronas que hay un lugar, un muro cuarteado
    Por donde se oye a través de sus fisuras el eco del allá.
    Uno podría escuchar una banda de muertos sonando un danzón,
    Acaso el mismo danzón de los ausentes que bailotea frente a la ventana de Guadalupe Posada.
    Uno no sabe tras de cuál puerta empieza el país de los ausentes
    Y acaso seamos fantasmas, legiones a lomo de un potrillo.
    La luna como una inmensa lápida fulge en el rincón de las milpas.
    Sí. Acaso todos seamos fantasmas convocados por algún provocador de sueños.

    da Tríptico de Comala, 1989


    RUMORI DI COMALA

    Dicono le vecchie comari che c'è un luogo, un muro incrinato
    dal quale si senti, attraverso le sue fessure, l'eco dell'aldilà.
    Uno potrebbe ascoltare una banda di morti che suonano una habanera,
    forse la stessa habanera degli assenti che aleggia davanti alla finestra di Guadalupe Posada.
    Non si può sapere dietro quale porta inizia il paese degli assenti
    e forse siamo dei fantasmi, legioni a cavallo di un puledro.
    La luna come un'immensa lapide rifulge in un angolo della piantagione di mais.
    Sì. Forse siamo tutti dei fantasmi convocati da qualche agitatore di sogni.


    MONÓLOGO DE LA MUJER QUE LAVA EL AGUA

    Lavo el agua, que es
    Como lavar la liquidez del tiempo
    Bajo los puentes.
    Fontanera soy
    De la secreta grifería del río.
    Lavo el agua, que es
    Como tocar el arpa de la lluvia,
    Como volarle al tiempo sus esclusas.
    Lavo el agua
    Para que el árbol duplique sus frutos
    En el espejo que huye.
    Para que la muchacha desnuda
    O el niño que come duraznos carnosos
    Laven su piel con piel de nube.
    Lavo el agua
    Para que los ahogados del mundo
    Hagan su danza muda
    Entre un enjambre de peces.
    Para que la araña
    Camine come un pequeño profeta
    Sobre el lago,
    Toco las aguas como la cabellera
    De un violín.
    Soy la pequeña adoradora,
    Hidólatra con su bastón de nácar.
    Estoy hecha de tiempo,
    Como el agua en la hierba,
    Como el agua en el agua, como el agua.

    da Monólogos, 1994


    MONOLOGO DELLA DONNA CHE LAVA L'ACQUA

    Lavo l'acqua, che è
    come lavare la liquidità del tempo
    sotto i ponti.
    Fontaniera sono
    della segreta rubinetteria del fiume.
    Lavo l'acqua, che è
    come suonare l'arpa della pioggia,
    come far esplodere le chiuse del tempo.
    Lavo l'acqua
    perché l'albero raddoppi i suoi frutti
    nello specchio che si dilegua.
    Perché la ragazza nuda
    o il bimbo che mangia pesche polpose
    lavino la loro pelle con pelle di nuvola.
    Lavo l'acqua
    perché gli annegati del mondo
    realizzino la loro danza muta
    in mezzo a un banco di pesci.
    Perché il ragno
    cammini come un piccolo profeta
    sopra il lago,
    tocco le acque come la chioma
    di un violino.
    Sono la piccola adoratrice,
    idolatra dal bastone di madreperla.
    Sono fatta di tempo,
    come l'acqua nel prato,
    come l'acqua nell'acqua, come l'acqua.


    MONÓLOGO DEL RELOJERO

    Vivo en un pálpito del tiempo.
    De niño odié el monocorde sonido
    Del tiempo en casa de mi padre,
    La coral de sus relojes de pared
    Repitiendo la misma tonada.
    A todas éstas, ¿qué se hizo el tiempo de mi padre,
    Su feroz relojería implacable?
    Yo envidiaba de niño el aldeano
    Que da la hora en el dorar de la tarde,
    En el cambio de luces en el árbol.
    Ahora amo el repique del reloj,
    El campaneo de mis horas.
    En cada una de ellas
    Crece el ayer, del que estoy habitado.
    No todos viven la misma hora,
    El mismo devenir.
    La anciana que hoy dejó en mi gabinete
    Su reloj, el aviador que mide el tiempo
    En el prontuario de sus vuelos.
    El celador nocturno registra las horas
    Con lentitud de sueño
    Y con cubrir los relojes
    No deja de transcurrir el tiempo.
    ¿Hay algo que transcurra
    Más que el tiempo?

    da Monólogos, 1994


    MONOLOGO DELL'OROLOGIAIO

    Vivo in un battito del tempo.
    Da bambino odiavo il suono monocorde
    del tempo a casa di mio padre,
    il coro dei suoi orologi a muro
    che ripetevano la stessa musica.
    E dunque allora, cosa s'è fatto il tempo di mio padre,
    la sua feroce orologeria implacabile?
    Io invidiavo da bambino il paesano
    che dava l'ora quando s'indorava il giorno,
    quando sull'albero cambiavano le luci.
    Adesso amo il rintocco dell'orologio,
    lo scampanio delle mie ore.
    In ognuna di esse
    cresce il passato, di cui sono popolato.
    Non tutti vivono la stessa ora,
    lo stesso divenire.
    L'anziana che oggi si lasciò nel mio ufficio
    il suo orologio, il pilota d'aereo che misura il tempo
    nel manuale dei suoi voli.
    La guardia notturna registra le ore
    con lentezza da sogno
    e coprendo gli orologi
    non si riesce a fermare il tempo.
    Esiste qualcos'altro che scorra
    più del tempo?


UN BODEGÓN PARA VALLEJO

Una mesa. Un guante viudo y un sombrero. Una lámpara rota, una manzana mordida por el tiempo. Un plato con desechos de la cena. Un cencerro. Un yaraví.

La mesa coja de soportar un bosque escondido que intenta volver a sus formas primitivas.

El guante huérfano o viudo de su siamés perdido, al salir de La Ópera al cruzar Las Tullerías o al darle la mano a una sombra. El sombrero tiene una historia desde la percha del café hasta su frente preocupada. La lámpara rota sólo alumbra el paso de un fantasma.

¿Y la manzana? Un pequeño gusano da cuenta del rojo y luego de su carnosa redondez.

Una mosca frota sus patas frente al plato de residuos, festeja su gula ante la muerte.

Cencerro y yaraví quizá llamen en la noche a una dulce aldeana, o a la mujer de senos apacibles. Del cencerro salen sonidos lastimeros, del yaraví una sonata de nieblas.

da Teatro de sombras con César Vallejo, 2002


NATURA MORTA PER VALLEJO

Un tavolo. Un guanto vedovo e un cappello. Una lampada rotta, una mela morsa dal tempo. Un piatto con gli avanzi della cena. Un campanaccio. Un yaraví1.

Il tavolo sghembo ormai per sopportare un bosco nascosto che cerca di tornare nelle sue forme originali.

Il guanto orfano o vedovo del suo siamese perduto, nell'uscire dall'Opéra e attraversare le Tuileries o nello stringere la mano ad un'ombra. Il cappello ha una storia dall'attaccapanni del caffè fino alla sua fronte impensierita. La lampada rotta illumina soltanto il passaggio di un fantasma.

E la mela? Un piccolo verme mette fine prima al rosso e poi alla carnosa rotondità.

Una mosca si sfrega le zampe di fronte al piatto degli avanzi, festeggia la sua golosità dinanzi alla morte.

Campanaccio e yaraví forse chiamano nella notte una dolce contadina, o la donna dal seno placido. Dal campanaccio escono suoni come lamenti, dal yaraví una sonata di nebbie.

1Voce quechua, indica un tipo di componimento poetico e musicale, dolce e malinconico, tipico delle popolazioni indigene delle Ande.


CINCO VECES VAN GOGH
CINQUE VOLTE VAN GOGH

I

El cartero de Van Gogh no visita el vecindario desde que recibió un telegrama de la muerte. Pero nos mira desde una sorda eternidad.

El cartero, portador de alguna esquela que le llevaba razones de la luz.


I

Il postino di Van Gogh non visita il quartiere da quando ha ricevuto un telegramma della morte. Ma ci guarda da una sorda eternità.

Il postino, portatore di qualche messaggio che gli dava ragioni della luce.


II

Como su sombrero, que siempre estuvo alumbrado por el rojo candil de su cabello, fueron sus noches solares.

Detuvo el sol en cada cuadro, mas no como el bíblico Josué que cuando detuvo el sol no pensó en el girasol: la pasión o la fiebre dieron a sus girasoles una rotación de astros familiares.


II

Come il suo cappello, che è stato sempre illuminato dal rosso folgorante dei suoi capelli, le sue notti erano solari.

Fermò il sole in ogni quadro, ma non come il biblico Josuè, che quando fermò il sole non pensava al girasole: la passione o la febbre diedero ai girasoli una rotazione da astri familiari.


III

Pintó trigales y la flor del pan empezó a oler en las desiertas alacenas.


III

Dipinse campi di grano e il fiore del pane iniziò a profumare nelle deserte cantine.


IV

Pintó una silla vacía, y sin embargo en ella está sentada una tertulia de ausentes. Antonin Artaud ha dicho que esa silla anuncia alguien por entrar.

La silla sigue vacía, pero siempre volvemos a ella para saber si alguien acaba de llegar. ¿Theo o Gauguin?


IV

Dipinse una sedia vuota, e tuttavia in essa era seduta una riunione di assenti. Antonin Artaud ha detto che quella sedia annuncia qualcuno che sta per entrare.

La sedia resta vuota, ma sempre torniamo da lei per sapere se qualcuno è appena arrivato. Theo o Gauguin?


V

Un último furor: trazó con su pincel una puerta en el aire y por ella salió dando un portazo. Otra versión dice que dibujó un revólver y con él se disparó en el vientre.

Pero antes, previendo las largas noches del hombre acorralado en el invierno, decidió llenar de soles nuestros muros para ayudarnos a habitar el laberinto.

Para Héctor Rojas Herazo


V

Un ultimo furore: disegnò col suo pennello una porta nell'aria e sbattendola passò dall'altra parte. Un'altra versione dice che disegnò una rivoltella e con essa si sparò nel ventre.

Ma prima, prevedendo le lunghe notti dell'uomo assediato dall'inverno, decise di riempire i nostri muri con molte immagini del sole, per aiutarci ad abitare il labirinto.

Para Héctor Rojas Herazo

da Un violín para Chagall, 2003


UN VIOLÍN PARA CHAGALL

En Vitebsk todo vuela: un viejo judío de negro sacón, una choza aerostática, un caballo fugado de las caballerizas de Giotto. Vuelan las vacas, los novios, los días y un violinista en el tejado.

¿Qué toca en la noche sobre la planicie de nieve?

¿Con qué tonada arrulla la aldea y apaga íconos y espantos?

No dejen caer el violín, testigo de bodas y de entierros. No lo dejen callar.

¿Es un violín gitano inventado por el diablo?

¿Es un violín para orientar viajeros en las grandes estepas?

¿Violín roto de la trágica Rusia?

Nadie sabe qué lleva en el costal, en su burdo saco, el viejo judío del gabán. ¿Acaso esconda un libro que narra el combate de Jacob con el ángel?

Si es un violín, que caiga en manos de Chagall. Entonces todo vuela, los rojos tejados, los candelabros, las manos de cera del rabino, la luz parpadeante de la sinagoga.

da Un violín para Chagall, 2003


UN VIOLINO PER CHAGALL

A Vitebsk tutto vola: un vecchio ebreo col giaccone nero, una capanna aerostatica, un cavallo fuggito dalle stalle di Giotto. Volano le vacche, gli sposi, i giorni e un violinista sul tetto.

Cosa suona nella notte in mezzo alla pianura di neve?

Con quale musica culla il villaggio e spegne icone e fantasmi?

Non permettete che cada il violino, testimone di nozze e di funerali. Non permettete che taccia.

È forse un violino zingaro inventato dal diavolo?

È forse un violino per guidare i viaggiatori delle grandi steppe?

Violino rotto della tragica Russia?

Nessuno sa cosa porta dentro il suo sacco, il suo rozzo sacco, il vecchio ebreo dal giaccone. Forse nasconde un libro che racconta la lotta di Giacobbe con l'angelo?

Se è un violino, meglio che cada nelle mani di Chagall.

Allora tutto vola, i tetti rossi, i candelieri, le mani cerate del rabbino, la luce intermittente della sinagoga.


    LAS HIPÓTESIS DE NADIE

    Puede ser el viento.
    La página en blanco. Puede ser.
    Puede ser el que viene
    Borrado por la lluvia.
    Ahora recuerdo a un hombre ciego
    Una dulce tarde de Friburgo.
    Iba solo por la nieve
    Con una sonrisa de beatitud
    Y un bastón tan blanco como los copos.
    Cruzó a mi lado sin verme:
    Yo era su Nadie,
    Un fantasma en ese reino luminoso.
    Puede ocurrir que seamos
    Los ciegos de Nadie.
    Nadie acaso sea el viento
    Que abre las ventanas con golpes sin acordes
    Para hacernos hablar en la lengua del sueño.
    Puede ser quien dejó
    Para siempre un abrigo abandonado
    En la percha del café,
    Un abrigo como bandera del vacío
    Que desaparece un día, como su dueño.
    Puede ser el que nunca fue,
    El que nunca será,
    El que se cansó de haber sido.
    Quizá sea en el país de los desaparecidos
    El único aparecido que llamamos fantasma,
    El que pone a traquear
    Las escaleras en la noche
    O tumba una sartén en la cocina,
    El que cambia de sitio a los cubiertos
    Que no logramos encontrar,
    El ladrón de lejanías.
    Puede ser el viajero de sí,
    El nómada de sí mismo.
    Ha ejercido oficios a destiempo:
    Arrastra papeles en la calle solitaria,
    Lleva diarios atrasados
    De un extremo a otro de la ciudad,
    Trae un olor de extramuros a su centro,
    Rasga los carteles del cine de ayer,
    Hace partir los trenes
    Con sólo sonar una campana.
    Puede ser el viento.
    La página en blanco. Puede ser.

    da Las hipótesis de nadie, 2005


    LE IPOTESI DI NESSUNO

    Può essere il vento.
    La pagina in bianco. Può essere.
    Può essere colui che viene
    cancellato dalla pioggia.
    Ora ricordo un uomo cieco
    un dolce pomeriggio a Friburgo.
    Vagava solo nella neve
    con un sorriso di beatitudine
    e un bastone tanto bianco quanto i fiocchi.
    Passò accanto a me senza vedermi.
    Io ero il suo Nessuno.
    un fantasma in quel regno luminoso.
    Può succedere che siamo
    i ciechi di Nessuno.
    Nessuno forse è il vento
    che apre le finestre con colpi senza armonia
    per farci parlare nella lingua del sogno.
    Può essere uno che lasciò
    per sempre il suo cappotto scordato
    sulla gruccia del caffè,
    un cappotto come una bandiera del vuoto
    che scompare un giorno, come il suo padrone.
    Può essere colui che non è mai stato.
    colui che non sarà mai,
    colui che si stancò di essere stato.
    Forse sarà nel paese degli scomparsi
    l'unico apparso che chiamiamo fantasma,
    quello che fa scricchiolare
    le scale nella notte
    o fa cadere un tegame in cucina,
    quello che sposta le posate
    che poi non troviamo più,
    il ladro delle lontananze.
    Può essere il viaggiatore di se stesso,
    il nomade di se stesso.
    Ha fatto diversi mestieri fuori tempo:
    trascina carte nella via solitaria,
    porta giornali arretrati
    da una parte all'altra della città,
    porta un odore da fuori le mura nel suo centro,
    strappa le locandine del cinema di ieri,
    fa partire i treni
    soltanto con il suono di una campana.
    Può essere il vento.
    La pagina in bianco. Può essere.


    PARÍS, MIL NOVECIENTOS Y TANTOS

    Tan atareado va Vallejo
    Contando horas en un ábaco de sombras,
    Que no advierte
    El paso de Nadie
    Por la acera de enfrente.

    Tan ensimismados van los dos
    Que se enfrían el café, el silencio,
    La cuchara de plata,
    Las pipas de los charladores
    Del Café de la Ópera
    Sin pronunciar sus nuncas,
    Sus jamases.

    Vallejo escucha
    En la rota noche de París
    Un huayno que baja de la sierra
    Envuelto en nieblas, en tinieblas,
    En alpacas y en llantos.
    A veces, palmoteando su espalda,
    Lo visita un dios enfermo, no tan grave,
    Y el silbato de un tren
    No deja escuchar lo que le dice.

    da Las hipótesis de nadie, 2005


    PARIGI, MILLE NOVECENTO E ROTTI

    Così indaffarato è Vallejo
    mentre conta le ore in un pallottoliere d'ombre,
    che non si rende conto
    del passaggio di Nessuno
    sul marciapiedi di fronte.

    Così concentrati sono tutti e due
    che diventano freddi il caffè, il silenzio,
    il cucchiaio di argento,
    le pipe dei conversatori
    del Caffè dell'Opéra
    senza pronunciare i loro mai,
    i loro giammai.

    Vallejo ascolta
    nella spezzata notte parigina
    un huayno1 che scende dalla montagna
    avvolto nella nebbia, nella tenebra,
    tra lama e pianti.
    A volte, dandogli una pacca sulla spalla,
    viene a trovarlo un dio malato, non troppo grave,
    ma il fischio di un treno
    non lascia ascoltare ciò che gli dice.

    1Voce quechua, indica un tipo di componimento poetico e musicale, tipico delle Ande peruviane.


    POEMA INVADIDO POR ROMANOS

    Los romanos eran maliciosos.

    Llenaron Europa de ruinas
    Confabulados con el tiempo.

    Les interesaba el futuro,
    Las huellas más que las pisadas.

    Los romanos, Casandra, eran mañosos.

    No fraguaron el Acueducto de Segovia
    Como un ducto de agua y de luz.
    Lo pensaron como vestigio,
    Como un absorto pasado.

    Sembraron de edificios roñosos Europa,
    De estatuas ácefalas
    Engullidas por la gloria de Roma.

    No hicieron el Coliseo
    Para que los tigres devoraran
    A su antojo a los cristianos,
                             tan poco apetecibles,
    Ni para ver ensartadas
    Como entremeses del infierno
    A las huestes de Espartaco.

    Pensaron su ruina, una ruina proporcional
    A la sombra mordida del sol que agoniza.

    Mi amigo Dino Campana
    Pudo haber saltado a la yugular
    De uno de sus dioses de mármol.

    Los romanos dan mucho en qué pensar.

    Por ejemplo,
    En un caballo de bronce
    De la Piazza Bianca.
    Al momento de restaurarlo,
    Al asomarse a su boca abierta,
    Encontraron en el vientre
    Esqueletos de palomas.

    Como tu amor,
    Que se vuelve ruina
    Mientras más lo construyo.

    El tiempo es romano.

    da Las hipótesis de nadie, 2005


    POESIA INVASA DAI ROMANI

    I romani erano maligni.

    Riempirono l'Europa di rovine
    in confabulazione con il tempo.

    Erano interessati al futuro,
    le orme più dei segni dei piedi.

    I romani, Cassandra, erano smaliziati.

    Non immaginarono l'Acquedotto di Segovia
    come un canale di acqua e luce.
    Lo pensarono come un vestigio,
    come un passato assorto.

    Seminarono costruzioni fatiscenti in tutta Europa,
    statue senza testa
    divorate dalla gloria di Roma.

    Non fecero il Colosseo
    perché le tigri divorassero
    a piacere i cristiani,
                             così poco invitanti,
    né per vedere infilzate
    come diabolici spiedini
    le truppe di Spartaco.

    Pensarono al proprio rudere, un rudere proporzionale
    all'ombra morsa dal sole che tramonta.

    Il mio amico Dino Campana
    avrebbe potuto aggredire alla iugulare
    uno dei loro dei di marmo.

    I romani fanno pensare a molte cose.

    Per esempio,
    a un cavallo di bronzo
    della Piazza Bianca.
    Al momento del restauro,
    guardando attraverso la sua bocca aperta,
    hanno trovato che nel suo ventre
    c'erano scheletri di colombe.

    Come il tuo amore,
    più lo costruisco
    e più diventa rudere.

    Il tempo è romano.


    PARÁBOLA DEL SUEÑO Y DEL POETA

    Dulcinea del Toboso
    Le entrega una rosa a Don Quijote,
    Pero recibe un puñado de nada.
    El Caballero de los Espejos
    Es vencido por el de la Triste Figura
    Pero quien triunfa es el sueño.
    El Caballero de la Blanca Luna
    Sojuzga al de la Mancha
    Pero el derrotado es el tiempo.
    La cabeza se puebla de hazañas
    Que la realidad acorrala.
    Los libros del enfebrecido Caballero
    Pasan sus hojas con yelmos de oro
    Y caballos y hechicero y pendones
    Y toscos gigantes que muelen
    El viento. Pero el cura y el barbero
    Los vuelven flor de fuego.
    Algo así como un sueño proceloso
    Y Dulcinea a lo lejos
    Cultivando jardines de nada.

            Para Américo Ferrari

    da Las hipótesis de nadie, 2005


    PARABOLA DEL SOGNO E DEL POETA

    Dulcinea del Toboso
    consegna una rosa a Don Chisciotte,
    ma riceve in cambio una manciata di nulla.
    Il Cavaliere degli Specchi
    viene vinto dal Cavaliere della Triste Figura
    ma chi trionfa è il sogno.
    Il Cavaliere della Bianca Luna
    sottomette quello della Mancia
    ma chi viene sconfitto è il tempo.
    La testa si popola di prodezze
    che la realtà accerchia.
    I libri del febbricitante Cavaliere
    passano dalle pagine elmi d'oro
    e cavalli, stregoni, stendardi
    e rudi giganti che macinano
    il vento. Ma il prete e il barbiere
    li riducono a fior di fuoco.
    Qualcosa come un sogno burrascoso
    e Dulcinea in lontananza
    continua a curare giardini di nulla.

            Per Américo Ferrari

Traduzione dallo spagnolo di Martha Canfield




INTERVISTA A JUAN MANUEL ROCA
di Martha Canfield


La tua prima raccolta poetica, Luna de ciegos, è del 1975, ma sicuramente tu hai cominciato a scrivere molto prima.
Quando è stato e perché?

In realtà il mio primo libro di poesia s'intitolava Memoria del Agua, che è del 1973; ma già dalla fine degli anni '60, a Medellín, la mia città, mi ero imposto una certa disciplina di scrittura. Ho cominciato a scrivere, come quasi tutti, sotto l'influsso di alcune letture e soprattutto quando ho capito, negli anni della scuola superiore, la mia crescente insoddisfazione della realtà. Adesso la penso così: la prova che l'uomo non è mai stato un essere soddisfatto la si può vedere in due stadi che non sempre sono dicotomici: la scienza e l'arte. Basterebbe quest'ultima, che mi ha attratto molto presto, per parlare della mia insoddisfazione della realtà e del mio tentativo - diciamo pure fallito - di modificarla. Dico sempre che cercare di cambiare la realtà con la poesia è come cercare di far deragliare un treno mettendo una rosa sui binari. E lo affermo senza il dramma dello sconfitto, perché la poesia è, in certo modo, una scommessa sulla sconfitta. A quanto detto ha contribuito anche il fatto di avere avuto in famiglia, almeno per una buona parte della mia adolescenza, un fratello di mia madre che aveva scritto l'unico libro di poesie elogiato da Borges, Huidobro e Hidalgo, e che negli anni venti venne definito "avanguardista": Suenan Timbres. Si chiamava Luis Vidales e, oltre che poesie, scriveva acuti saggi e libri sull'arte, come un Tratado de Estética radicato in Benedetto Croce. Lo considero un'influenza notevole.

Luis Vidales è uno dei grandi innovatori della poesia colombiana, si capisce che sia stato importante per te. Ma andiamo avanti.
Alla fine degli anni '70, mentre studiavo la poesia colombiana, mi è sembrato che si potessero stabilire due linee fondamentali e contrapposte: quella della poesia simbolista, post-piedracielista, rappresentata da Giovanni Quessep, e quella della poesia post-avanguardista, colloquiale e engagée, rappresentata da Mario Rivero. Allora la tua poesia era ancora in formazione.
Oggi è evidente che tu rappresenti una terza linea, che si muove con disinvoltura sia nel verso libero che nella poesia in prosa, nel collage, nella parodia, nell'intertestualità, con una preferenza ludica per il gioco di parole e per le citazioni giuste e ingiuste, con una vocazione internazionale e interdisciplinare che va dalla pittura alla letteratura dell'Europa e di tutto il continente americano in tutte le epoche. Se io dovessi definire questa terza linea, la chiamerei con un termine un po' abusato ma sempre efficace: postmoderna.
Tu che ne pensi, sia della mia vecchia teoria, sia della mia visione attuale di una terza linea della poesia colombiana incarnata in primo luogo da te stesso?

Proprio così, Martha. Alla fine degli anni settanta c'erano queste due correnti molto definite della poesia colombiana. Da una parte, coloro che provenivano da una tradizione lirica che contava tra i suoi "uomini di Cromagnon" José Asunción Silva, Aurelio Arturo, Fernando Charry Lara, vera pietra angolare. Quessep, come sottolinei tu, poeta di impronta simbolista, era il poeta che meglio incarnava questa linea. Dall'altra parte c'era la poesia colloquiale di Rivero, d'influenza nordamericana, quotidiana e prosaica, vincolata in certo qual modo alla poesia del gruppo nadaista.
Noi, alcuni dei poeti che cominciammo a pubblicare tra queste due correnti contrarie, non siamo stati né iconoclasti né mimetici di fronte alla nostra tradizione. Abbiamo piuttosto optato per operare una fusione fra il lirismo e la quotidianità, con atmosfere che avevano a che vedere con il nostro paese ma anche con lo sguardo attento alla poesia contemporanea del mondo.
Siccome io credo che la cultura sia un incrocio di percorsi, un meticciato, ho letto con attenzione e senza soggezione la poesia europea e quella nordamericana, i poeti orientali, senza dimenticarmi della poesia preispanica come quella náhuatl, così solare e magnifica (Jorge Zalamea diceva che in poesia non ci sono paesi sottosviluppati), e naturalmente la poesia attuale del continente americano, un continente dove le cose andavano meglio quando il mondo era piatto. Mi hanno interessato di più i poeti latinoamericani di quelli spagnoli, sono più americanista che ispanista.
Questa terza linea, "questa terza riva del fiume" per dirla con il brasiliano Guimaraes Rosa, ha diversificato la poesia scritta in Colombia, l'ha resa più universale e se si vuole postmoderna.
Dato che la Colombia non ha avuto un César Vallejo, che con la sua poderosa voce ha quasi eclissato il resto della formidabile poesia peruviana, né un Rubén Darío, il cui tronco ha fatto ombra ai poeti delle successive generazioni, dato che non ha avuto un Huidobro né un Neruda, e non c'è qui un poeta di tali dimensioni, la nostra sommessa tradizione non è stata schiacciata. Piuttosto è mal divulgata, anche nella nostra area linguistica. Un paese che ha dato i natali al precursore della cosiddetta antipoesia, Luis Carlos López, che attuava un modernismo alla rovescia, per non parlare del nostro primo poeta moderno che è Silva, o di poeti come Vidales, Arturo, Obregón, Rojas Herazo o Charry Lara, non può giudicarsi povero in poesia. Sono molto grato a tutti loro.

Quando citi un classico contemporaneo come il romanzo Pedro Páramo di Juan Rulfo, e ricrei una città inventata dalla letteratura come Comala, cosa ti attira di più in quest'opera, cosa ti ispira di più, l'aspetto universale della sua simbologia, o ciò che in essa c'è di specifico? Vorresti soprattutto ripudiare il suo "sole di morte" - la sua viva contraddizione, contro cui ti pronunci -, o piuttosto invocare una risposta che il testo non offre al lettore?

Per affinità estetiche mi sento più vicino a Comala che a Macondo. Un certo carattere espressionista, il profondo ascetismo del linguaggio, il suo lirismo appreso alle sorgenti della parlata popolare messicana, il carattere poetico ed elusivo del suo fraseggio mi commuovono. Rulfo è un poeta anche se non scriveva versi, non c'è dubbio Ho scritto, come giustamente notavi, allusioni continue a Rulfo nelle mie poesie, ma, innanzi tutto, ho voluto plasmare atmosfere suscitate dalle sue. È come un dialogo tra fantasmi.

Cosa ti ha commosso in particolare della storia o della poesia di Vallejo per arrivare a dedicargli un "teatro di ombre", una serie di poesie in cui il verso è modulato in associazione con la musica e con la pittura (il bodegón, in spagnolo, la natura morta)?

César Vallejo è per me il più grande poeta dell'America Latina e, probabilmente, della lingua spagnola. Nella sua parola non ci sono bibelot, esteticismi, nessun fronzolo. Va all'osso del linguaggio e non alla sua carnosità. Leggerlo è fare una spedizione nell'anima umana. Il mio Teatro de sombras con César Vallejo, con la prefazione del grande pittore peruviano Fernando de Szyszlo, ha intenzioni plastiche: collages, nature morte, pentimenti verbali assaltano le mie parole.

Il personaggio di Aloysius Bertrand, Gaspard de la Nuit, ricreato anche da te con il nome in spagnolo, Gaspar de la Noche, ha avuto una grande ripercussione nella letteratura colombiana, da considerare quasi rara o quanto meno insolita. Per te cosa è stato più determinante, la sua origine francese o la sua ricreazione colombiana?

Ho l'impressione che Alloysisus Bertrand sia stato il creatore della poesia in prosa, prima di Baudelaire. Il Gaspar de la Noche, la sua prosa poetica di atmosfere gotiche che rendono omaggio a Rembrandt e a Callot, mi hanno liberato da certe forme rigide. Quel tipo di scrittura è una sorta di genere anfibio tra il racconto breve e la poesia, una specie di centauro lirico. I suoi chiaroscuri. Le sue allusioni pittoriche messe al servizio della ri-creazione di un'epoca di fasto e di miseria insieme, può darsi che abbiano relazioni lontane con l'essere colombiano dove in uno stesso spazio, in una stessa strada, abitano bacio e pugnale.

Quali sono le fonti che ritieni più formative nella tua scrittura, quali autori? Appartengono soprattutto al mondo ispanoamericano o ad altri ambiti? Chi conta più per te, Vallejo, Silva o Pessoa (per dare tre esempi)?

Alcune delle fonti per me più formative non appartengono al mondo ispanico. Per esempio Rimbaud, Char, Trakl, Michaux... Del mondo americano Huidobro, Rulfo, Arturo, tra molti altri. Ma del triangolo cui ti riferisci quello che ha contato di più nella mia formazione e nel mio gusto è César Vallejo.

Il tema dell'amore non è fra i tuoi preferiti. Tuttavia ci sono dei momenti in cui l'affronti e allora i tuoi versi acquistano un tono più drammatico che lirico. Cosa pensi della poesia amorosa?

Il tema amoroso, come quello politico, è, forse, quello con più complicazioni. Come salvare, nel primo caso, la sfera del puramente sentimentale e, nel secondo, l'ideologismo. Le sue attrattive sono proporzionali alla sua difficoltà. "Solo il difficile è stimolante", diceva José Lezama Lima. Comunque hai ragione, Martha, l'amore non è fra i miei temi preferiti. A volte lo è di più il disamore, che è proporzionale all'amore che se ne va e pertanto più drammatico e forte. Non mi sono mai piaciute le Venti poesie d'amore di Neruda, ma il suo Tango del vedovo, poesia del disincanto amoroso, sì.

Da molti anni collabori intensamente con il Festival Internazionale di Poesia di Medellín, al quale hai partecipato molte volte. Come consideri il ruolo dei festival in genere e quello di Medellín in particolare, sia come promotore di cultura sia come mediatore tra il poeta e il pubblico?

Vista la sparizione, in America Latina, di buone riviste e supplementi culturali che rendevano conto della nostra poesia, visto il reciproco non conoscersi e la balcanizzazione del continente, i festival di poesia aiutano a creare nuovi vasi comunicanti. È la parte migliore di festival come quello di Medellín. Almeno ha fatto sì che noi poeti ci conoscessimo meglio, che potessimo stabilire corrispondenze, confronti.

Cosa pensi della poesia dei più giovani oggigiorno? Credi che avranno lettori domani? Che quei lettori saranno diversi da noi?

I lettori che la poesia reclama saranno sempre pochi proprio per la ragione che la poesia chiede una maggiore sottigliezza rispetto al romanzo, o meglio, rispetto a quella che hanno i lettori gregari che si stanno formando a partire dall'industria del romanzo.

 

mcanfield@alice.it