FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 9
gennaio/marzo 2008

Luoghi narrati

ROBERTO BOLAÑO, ANVERSA

di Alessio Brandolini



Pubblicato in Spagna nel 2002 presso l'editore Anagrama un anno prima della prematura morte del suo autore, Roberto Bolaño, avvenuta a soli cinquant'anni, Anversa (Sellerio, 2007) è un libro disperato e scontroso che, sebbene scritto in prosa, ha più a che fare con la poesia che con la narrativa. A confermarlo è lo stesso autore:

Quando l'ho scritto non vedevo una grande differenza fra poesia e prosa. Le frontiere, immagino, in quel momento si stavano cancellando.

Uno strano destino lega, tra l'altro, il curatore della versione italiana (e suo abituale traduttore) Angelo Morino (nella foto a sinistra), visto che il romanzo è uscito in Italia pochi mesi prima della scomparsa, sempre inattesa e improvvisa, di Morino, avvenuta a meno di sessant'anni il 10 agosto 2007.
Così l'ultimo romanzo pubblicato in vita da Bolaño è questo Amberes (Anversa), che in realtà è il primo da lui scritto, e per decenni tenuto in un cassetto, ed è anche l'ultimo tradotto dal compianto Angelo Morino.

La letteratura è fatta anche di questi strani accadimenti, di misteri inspiegabili e Bolaño era divenuto un esperto nello sguazzarci dentro, basti pensare a un romanzo come Monsieur Pain (uscito in Italia nel 2005), o ancor più al postumo 2666 (titolo già di per sé alquanto oscuro e, con quel satanico 666 piuttosto inquietante; pubblicato nel 2004 in Spagna, per intero, sempre dall'editore Anagrama) di cui ora Adelphi pubblica la prima parte, che in realtà contiene i due terzi di questo romanzo-fiume che è anche un testamento letterario (in tutto sono più di 1100 pagine, la seconda e ultima parte uscirà, sempre per Adelphi, a fine 2008). Qui si narrano le vicende del misterioso Benno von Arcimboldi (già apparso di sfuggita ne I detective selvaggi), sul quale indagano quattro critici letterari, di cui uno è un professore torinese (come lo era Angelo Morino) che si chiama - e non è un caso - Piero Morini.
Questo 2666, estesa vicenda che si proietta - seppure con la consueta ironia dell'autore - verso la dimensione del "romanzo totale", si contrappone al suo primo lavoro narrativo, ad Anversa, appunto. E non solo, ovviamente, per via del non trascurabile dato cronologico (il primo e l'ultimo), ma di stile e di sostanza. Tanto fluente, sterminato e narrativo è 2666 quanto asciutto, frammentario, poetico è Anversa, scritto a Barcellona nel 1980, prima tappa della breve ma intensissima vita di Bolaño narratore (non "carriera", termine che l'autore ha sempre detestato e respinto) che, dal punto di vista delle pubblicazioni, avrà inizio quattro anni più tardi, nel 1984, con Consigli di un discepolo di Jim Morrison a un fanatico di Joyce (scritto con A. G. Porta). Questo escludendo le due (e uniche) raccolte poetiche pubblicate in Messico nel 1976 e nel 1979.

Però lo scrittore cileno inizierà a pubblicare regolarmente, e con case editrici importanti, soltanto a partire del 1996, con i romanzi La letteratura nazista in America e Stella distante, pubblicati lo stesso anno, per poi proseguire fino alla morte al ritmo di almeno un romanzo all'anno, come a voler recuperare il tempo perduto. Il momento che segna l'arrivo della notorietà di Bolaño è anche quello dell'aggravarsi della sua malattia, iniziata già nel 1992, ovvero di quell'insufficienza epatica che lo condurrà alla morte: la scrittura e la pubblicazione delle sue storie diverrà allora anche un modo per esorcizzare il dolore e la paura, per intensificare la propria vita.

Torniamo al nostro Anversa, primo scritto in prosa di un cileno ventisettenne in fuga da una feroce dittatura, uno dei tanti sudamericani perduti nel mondo, da tre anni in Spagna, a Barcellona senza permesso di soggiorno, e che si adatta, per sopravvivere, a qualsiasi tipo di lavoro. Di un lettore accanito e passionale, un poeta che sta iniziando a scrivere in prosa, ad abbozzare (e in qualche modo anche a ripudiare, poi vedremo perché) delle storie, delle avventure, a mettere su carta le allucinazioni della sua fervida e complessa fantasia. Romanzo di poche parole e messe insieme come per eliminazione. Costruito su immagini sfuggenti e liquide che frantumano ogni accenno d'azione. Rifinito con frasi corte, sperimentali, con accostamenti improvvisi ("Il breve suono gli sembra come un colore inghiottito da una fessura") e talvolta assurdi che ricordano le avanguardie del primo novecento (da Bolaño, in realtà, molto amate), il surrealismo e il dadaismo, soprattutto la poesia del Novecento, i dipinti stranianti e folli di un Dalì.
Un romanzo non-romanzo, quindi, all'inseguimento di una scrittura personale e autentica, sofferta e sentita in modo viscerale, tesa alla ricerca, quasi all'autodistruzione dei meccanismi di sviluppo narrativo, all'anarchia totale.

Pagine che ora, con la brusca fine del narratore cileno, assumono un valore particolare per chi desidera comprendere le origini, le profonde motivazioni che fin dall'inizio hanno sostenuto il lavoro, la passione per la scrittura di Bolaño, anche quando scriveva un libro come questo Anversa: romanzo non destinato alla pubblicazione, ma a se stesso, alla riflessione profonda, alla confessione e al tentativo d'una scrittura che fosse una specie di ponte - magari traballante, pericoloso - tra poesia e prosa. Una sorta di serio e doloroso esercizio che mette la lente d'ingrandimento sul vuoto presente tra una parola e la successiva, tra una frase e l'altra, tra due storie o più storie che viaggiano in parallelo. Sulla difficoltà e sul senso, in definitiva, della scrittura e della letteratura.
Forse per questo l'autore cileno tenderà sempre a mettere in relazione, a cucire assieme in un'unica vasta trama, tutti i suoi scritti. Con personaggi che tornano e si rincorrano, con le tematiche misteriose che si sviluppano in più libri, si diramano in vicende distanti che poi, all'improvviso, s'accostano, s'intrecciano - senza mai sciogliersi del tutto - da un romanzo all'altro. Bolaño ha sempre sostenuto che occorre guardare alla sua opera come a un insieme, come se lui avesse scritto un unico vasto libro.

Certo Anversa appare legato in modo indissolubile a quegli anni di duro e faticoso apprendistato, di forte disagio sociale ed esistenziale. Quando il giovane immigrato era costretto a compiere lavori precari, anche i più duri, pur di sbarcare il lunario. Poi si teneva sveglio a forza di caffè e sigarette, pur di riuscire a dar sfogo alla feroce passione della lettura e della scrittura.
Un intarsio di quadri (in tutto sono 56 e ciascuno ha il proprio titolo), di frammenti quasi indipendenti, con sottili ed evanescenti legami. Quadri che, messi uno accanto all'altro, generano un effetto a puzzle, sbozzano una trama brumosa, un disegno incomprensibile, con riferimenti al romanzo poliziesco, con al centro un campeggio dove si è compiuto, probabilmente, un omicidio con stupro, al quale seguirà un'indagine nei dintorni di una località turistica.

Ci sono delle ombre e notti insonni, fantasmi e passaggi improvvisi d'immagini forti, persino violente, tracce d'incendi recenti e fiumi inquinati, l'azzurro del cielo e quello del Mediterraneo. Pezzi di storie "di film diversi proiettati sullo stesso schermo". Personaggi che entrano in scena e poi scompaiono all'improvviso, così come sono venuti, lasciando impronte di mistero, degli echi che a volte rimbombano nell'aria. Inoltre ci sono le solite strane e stranianti figure che avranno assai più consistenza e sviluppo nei romanzi successivi. Per esempio un gobbo (anzi un "gobbetto") che vive in un bosco e appare spesso nei vari pezzi, incontrato una prima volta a Città del Messico. Una poetessa suicida (come non pensare al personaggio di César Vallejo agonizzante in Monsieur Pain?). Un ragazzo che in un campeggio si sforza di scrivere tutti i giorni (impossibile non pensare all'autore stesso), un altro - con gli anni dello scrittore in quel periodo - che è convinto di morire presto di cancro, forse lo stesso che si presenta e dice in modo asciutto e deciso: "Mi chiamo Roberto Bolaño", come a ribadire la propria esistenza, nonostante le quotidiani difficoltà per riuscire a sopravvivere.

E poi frasi sconnesse e visionarie, come costruite con accostamenti casuali, magari usando la tecnica del cut up (non a caso si cita William Burroughs), e frasi - come viene scritto all'interno di un pezzo - "carenti di tranquillità sebbene l'immagine che rifrangono rimanga ferma, come una bara davanti a un obiettivo fisso". Lacerti di dialoghi ascoltati per caso, di notte in un campeggio, o visti in un film. In effetti qui il cinema è decisivo, se ne parla spesso e l'insieme appare costruito come appunti per una sceneggiatura, con frasi del tipo "la scena si disgrega geometricamente", "la scena si svolge...", "dissolvenza totale", "scena in bianco e nero". Così come sono presenti spettatori che fissano lo schermo e si parla di primi piani, di obiettivi che scrutano all'interno.

C'è una misteriosa scimmia nascosta tra i rami di un albero. Treni, vagabondi, spari nel buio, droga e ragazze. Sicuramente un amore sofferto, non contraccambiato: una guardia notturna pazza d'amore. "C'è una malattia segreta chiamata Lisa", viene detto a un certo punto e Angelo Morino nel bel saggio finale intitolato I porci di Anversa scrive che:

c'è l'impressione che la paura abbia a che fare con l'amore o, almeno, con la possibilità dell'amore, evitato, messo davanti all'inutilità di ogni parola, di ogni frase, di ogni conversazione telefonica. Dopo il pezzo numero 49, Anversa torna una sola volta ed è in quello numero 55. Qui, c'è una ragazza - la stessa o un'altra? - che, un mattino, non è più nella sua tenda da campeggio. Scomparsa non si sa dove. "Verso Lione, Ginevra, Bruges, Verso Anversa?"

E poi altri strani omicidi di sei giovani nudisti, sessualmente disinibiti, in un campeggio calabrese. Inoltre quattro disegni, a rappresentare il flusso della vita, quasi delle poesie visive, che poi faranno ritorno ne I detective selvaggi.

I luoghi del romanzo sono quelli dove viveva lo scrittore in quegli anni, Barcellona con i suoi edifici abbandonati che sono "quasi un invito a suicidarsi in pace". Si parla di Città del Messico, di Parigi, di Madrid, di Anversa. C'è la presenza di un maneggio e, in modo costante, quella del campeggio Estrella de Mar, dove il giovane Bolaño lavorava, che tornerà in tante altre storie (non un'ossessione ma un punto di partenza, luogo nevralgico e decisivo), che poi è lo stesso identico campeggio presente anche nel romanzo di Javier Cercas, Soldati di Salamina, dove lo scrittore appare come se stesso e ha un ruolo importante verso la fine di questa storia, ovvero "Bolaño, scrittore cileno, viveva da molto tempo a Blanes, un paesino sulla costa tra Barcellona e Gerona, aveva quarantasette anni, un buon numero di libri pubblicati e quell'inconfondibile aria da tardo hippy giramondo tipica di tanti latinoamericani della sua generazione esiliati in Europa". Il protagonista del romanzo di Cercas (che ha il suo stesso nome) s'incontra due volte con lo scrittore cileno, che gli narra del suo lavoro da giovane nel campeggio Estrella de Mar:

Lavorò nel campeggio per quattro estati, dal '78 all'81, e a volte nei fine settimana invernali; faceva le pulizie, il sorvegliante notturno, di tutto.
"È stato il mio corso di laurea" affermò Bolaño. "Ho conosciuto una fauna umana a dir poco variopinta. In realtà, in tutta la mia vita non ho mai imparato tante cose in un colpo solo come lì."

Però in Anversa ogni pezzo (che mai supera le tre pagine) è una microstoria così compatta da lasciare solo il sentore di quel che avrebbe potuto essere quella vicenda, da che parte avrebbe potuto condurre il lettore, in che modo avrebbe potuto coinvolgerlo. Sì, in un certo senso sembrerebbe un procedimento simile alla consueta narrazione baroccheggiante e insieme metafisica del Bolaño più maturo: i suoi libri, infatti, spalancano porte inattese, esplorano tunnel misteriosi, affrontano verità urticanti (oltre a quella apparente, o scontata), conducono vicino o al di là del baratro e con quella costante idea della scrittura come arte (e insieme azione) pericolosa. A distanza di qualche decennio da Anversa, in un discorso per un premio ricevuto, affermerà sulla qualità della scrittura che:

non significa nulla scrivere bene, perché questo può farlo chiunque, e neppure scrivere meravigliosamente bene, perché anche questo può farlo chiunque. Allora cos'è la qualità della scrittura? È quello che è sempre stato: saper cacciare la testa nel buio, saper saltare nel vuoto, sapere che la letteratura è fondamentalmente un mestiere pericoloso.

Solo che qui, in Anversa, è la disperazione a dettare i tempi, a dare il ritmo alla pagina, c'è come un cupo pessimismo di fondo (non a caso si citano Pavese e Leopardi) che sbozza e disintegra il progetto narrativo, per questo poi le parole "si allontanano le une dalle altre", sembrano frasi libere che non vale la pena conservare, mostrare agli altri. A un certo punto, in un ospedale, una ragazza anoressica ripete al giovane amico che scrive tutti i giorni: "distruggi le tue frasi libere".
Come se si dovessero dire soltanto le cose più urgenti, indispensabili e, inoltre, in un linguaggio nuovo che non sia la copia di altri romanzi e che, per immagini, esprima contemporaneamente il dolore e la solitudine dell'artista. Tagliando corto e in modo brusco, senza considerare la logica e la fluidità di quello che si sta scrivendo né, tantomeno, pensando alla sua eventuale pubblicazione.

Non a caso l'autore, dopo aver scritto Anversa, lo metterà da parte per un paio di decenni. Non lo tirerà fuori nemmeno quando, a metà degli anni '90 diventerà un autore affermato e premiato, uno dei più importanti e originali in lingua spagnola. Lo farà soltanto alla fine dei suoi giorni, come a voler dare un senso circolare alla propria breve esistenza di narratore: congiungere i due estremi, l'inizio e la fine, l'ispido e secco Anversa al fluviale 2666, ancora in lavorazione e che sarebbe uscito dopo la sua morte.
A spiegare le ragioni della mancata pubblicazione del primo romanzo è lo stesso autore, nel solito modo: scanzonato, intelligente, sovversivo al quale ci ha abituati, nell'introduzione al romanzo scritta a Blanes nel 2002, poco prima della morte, e che s'intitola "Anarchia totale: ventidue anni dopo":

Ho scritto questo libro per me stesso, e neppure di questo sono troppo sicuro. Per molto tempo sono state solo pagine sparse che rileggevo e forse correggevo convinto di non avere tempo. Ma tempo per che cosa? Ero incapace di spiegarlo con precisione. Ho scritto questo libro per i fantasmi, che sono gli unici ad avere tempo perché sono fuori del tempo. (...) In quegli anni vivevo esposto alle intemperie e senza permesso di soggiorno così come altri vivevano in un castello. Naturalmente, non ho mai portato questo romanzo a una casa editrice. Mi avrebbero chiuso la porta in faccia e avrei perso una copia. (...) La mia malattia, allora, era l'orgoglio, la rabbia e la violenza. Queste cose (rabbia, violenza) sfiancano e io passavo le giornate inutilmente stanco. Di notte lavoravo. Di giorno scrivevo e leggevo. Non dormivo mai. Mi tenevo sveglio bevendo caffè e fumando. (...) Il disprezzo che provavo per la cosiddetta letteratura ufficiale era enorme, sebbene solo un po' più grande di quello che provavo per la letteratura marginale. Ma credevo nella letteratura: ossia non credevo né nell'arrivismo né nell'opportunismo né nei mormorii cortigiani. Non avevo ancora figli. Leggevo più poesia che prosa. (...) Al mio capezzale avevo attaccato con una puntina un foglio che diceva, in polacco, Anarchia Totale, che un'amica di questa nazionalità aveva scritto per me. Non credevo che sarei vissuto oltre i trentacinque anni. Ero felice. Poi arrivò il 1981 e, senza che io me ne rendessi conto, tutto cambiò.

La città di Anversa che dà il titolo al romanzo appare nel brano 49, (riportato per intero qui sotto) e ha lo steso titolo del libro. Pezzo importante, quindi, con un incipit particolare: "A Anversa un uomo è morto perché la sua automobile è stata schiacciata da un camion carico di porci. Anche molti porci sono morti quando si è ribaltato il camion". Poi, c'è un dialogo e a un certo punto viene detto "Ogni parola è inutile, ogni frase, ogni conversazione telefonica".


Anversa

Anche in questo brano, come negli altri raccolti nel libro, serpeggia la paura: di sbagliare, di confondersi, di scivolare nella banalità, nella menzogna, di ritrovarsi a far parte della porcilaia, o di morire schiacciato da "un camion carico di porci". Che poi sottintende anche il dubbio (e il terrore) dell'inutilità della scrittura, dell'amata letteratura (ecco perché, parlavo di Anversa come di un romanzo non-romanzo) e il pezzo fa venire in mente la strana epigrafe, tratta da Antonin Artaud, a Un romanzetto canaglia:

Ogni scrittura è una porcata.
Chi esce dal nulla cercando di precisare qualsiasi cosa gli passi per la testa, è un porco. Chiunque si occupi di letteratura è un porco, soprattutto adesso.

Ma a quale letteratura si riferisce? o occorre sempre diffidare della letteratura in generale? Quindi, in definitiva, anche della propria scrittura.
Forse quello che Bolaño ripudia, dal punto di vista teorico, è l'artificiosità della letteratura e, allo stesso tempo, intende sottolineare la difficoltà (che qui in Anversa è impossibilità) a comprendere gli altri e a farsi comprendere, a svelare l'enigma della vita e dell'amore, e quindi quello della scrittura. Così inizia il brano 47:

Tutta la scrittura al limite nasconde una maschera bianca. Questo è tutto. C'è sempre una fottuta maschera. Il resto: povero Bolaño che scrive durante una sosta lungo il cammino. (...) Non ci sono regole. ("Dicano a quello stupido di Arnold Bennett che tutte le regole di costruzione continuano a essere valide solo per i romanzi che sono copie di altri").

Nel 2002, dopo l'uscita del suo primo romanzo, Bolaño dichiara che "Anversa è uno dei pochi libri che, dopo averlo pubblicato, non mi imbarazza, o non mi imbarazza del tutto, rileggere. Forse, sebbene sia possibile che questa spiegazione sottragga meriti che il libro può avere, è perché vedo nelle sue pagine che il giovane che sono stato rimane e perdura. E questa è sempre una consolazione, una consolazione di solo trenta secondi, ma pur sempre una consolazione".

In un pezzo iniziale di Anversa c'è un tassello importante per comprendere meglio questo pessimismo di fondo (non solo letterario) che durerà fino alla fine, ma comunque non paralizzante visto che poi, di storie Bolaño ne scriverà (e pubblicherà) parecchie, e sembra riguardare l'esistenza umana, ovvero proprio l'impossibilità d'intendersi, la paura di non riuscire mai a capirsi, nonostante gli sforzi: "il linguaggio degli altri è inintelligibile per me".
Allora le paure del giovane Bolaño sono molte.
La paura della solitudine e della mancanza d'amore, dell'inutilità della scrittura e dell'impossibilità d'intendersi. La paura di se stesso (il "gobbetto" è uno sdoppiamento dell'autore?) e lo sconcerto (per contrasto) quando l'autore si pone davanti (spiando se stesso) alla propria faticosa vita quotidiana e, allo stesso tempo, agli ambiziosi tentativi letterari: "Lo scrittore è un tipo sporco, con le maniche della camicia rimboccate e i capelli corti, bagnati di sudore che trasporta bidoni d'immondizia".
Poi c'è semplicemente la paura di non farcela ad andare avanti e si vorrebbe mollare tutto, sì, riattraversare l'oceano e tornarsene a casa, indietro. Però il brano 51 (uno degli ultimi) s'intitola proprio "Non puoi tornare", e inizia così:

Non puoi tornare. Questo mondo di guardie e ladri e stranieri senza documenti in regola è troppo forte per te. La parola forte significa che è comodo, un mondo leggero, senza entropia, un mondo che conosci e da cui non puoi staccarti. Come un tatuaggio.

Bolaño è morto nel 2003, in un ospedale di Barcellona, in attesa di un trapianto di fegato. Nato a Santiago del Cile nel 1953, poi nel 1968 si trasferisce, con la famiglia a Città del Messico. Torna in Cile nel 1973, giusto in tempo per vivere nel settembre di quell'anno l'abbattimento di Allende, del suo governo democratico e socialista, e la presa del potere di Pinochet, dopo il colpo di stato fascista. Finisce in carcere per otto giorni, fatto liberare da un parente militare fugge in Messico. Infine, nel 1977, si trasferisce definitivamente in Spagna, prima a Barcellona, poi a Blanes, sulla Costa Brava, con la moglie e il figlio.


Roberto Bolaño, Anversa (Sellerio editore, La memoria 709, Palermo 2007, a cura di Angelo Morino, pp. 135, euro 9,00)


NOTA DEL CURATORE
La versione italiana di questo libro di Roberto Bolaño è frutto delle esercitazioni che, da me guidate, hanno avuto luogo all'interno del Master di Traduzione Editoriale Lingua Spagnola organizzato dall'Agenzia Formativa tuttoEuropa e dalla Scuola per Mediatori Linguistici Vittoria, a Torino, nel mese di febbraio del 2003. Vi hanno partecipato le studentesse e gli studenti qui sotto indicati: Mario Altare, Alejandro Berlangieri, Daniela Bolignano, Francesca Ferrando, Lucia Latorre, Teodoro Lovallo, Yolanda Madarnás Aceña, Manuela Masserano, Elisabetta Moggi, Doris Mecochea Pérez, Cristina Nobili, Benedetta Pasquali, Dévora Santos Nogueira, Elena Simonelli e Cristina Trasobares Almagro.

A. M.




Romanzi e libri di racconti di Roberto Bolaño pubblicati in Italia (la seconda data è quella dell'uscita in Spagna):

  • 2007, 2666 (2004; è la prima parte del suo ultimo romanzo, la seconda e ultima uscirà a fine 2008, Adelphi)
  • 2007, Anversa (2002, Sellerio)
  • 2007, Consigli di un discepolo di Jim Morrison a un fanatico di Joyce (con A. G. Porta - pubblicato nel 1984, è l'esordio narrativo di Bolaño; Sellerio)
  • 2006, Il gaucho insostenibile (2003, Sellerio)
  • 2005, Monsieur Pain (1999, Sellerio; prima pubblicazione come La pista degli elefanti, 1994; è il romanzo scritto dopo Anversa)
  • 2005, Un romanzetto canaglia (2002, Sellerio)
  • 2004, La pista di ghiaccio (1993, Sellerio)
  • 2004, Puttane assassine (2001, Sellerio)
  • 2003, Notturno cileno (2000, Sellerio)
  • 2003, I detective selvaggi (1998, Sellerio)
  • 2001, Amuleto (1999, Mondadori)
  • 2000, Chiamate telefoniche (1997, Sellerio)
  • 1999, Stella distante (1996, Sellerio)
  • 1998, La letteratura nazista in America (1996, Sellerio)


ROBERTO BOLAÑO

49
ANVERSA

da Anversa (Sellerio, 2007)



A Anversa un uomo è morto perché la sua automobile è stata schiacciata da un camion carico di porci. Anche molti porci sono morti quando si è ribaltato il camion, altri hanno dovuto essere sacrificati sul ciglio della strada e altri ancora sono scappati di gran corsa... "Hai sentito bene, cara, il tipo è schiattato mentre i porci passavano sopra la sua automobile"... "Di notte, per le strade buie del Belgio o della Catalogna"... "Abbiamo chiacchierato per ore in un bar delle Ramblas, era estate e lei parlava come se non lo facesse da molto tempo"... "Dopo aver detto proprio tutto mi ha accarezzato il viso come una cieca"... "I porci hanno strillato"... "Lei ha detto mi piacerebbe stare da sola e io sebbene fossi ubriaco ho capito"... "Non so, è qualcosa che assomiglia alla luna piena, ragazze che in realtà sono come mosche, anche se non è questo che voglio dire"... "Porci che gridano in mezzo alla strada, feriti o mentre si allontanano di gran fretta dal camion sfasciato"... "Ogni parola è inutile, ogni frase, ogni conversazione telefonica"... "Ha detto che voleva stare da sola"... "Anch'io ho voluto stare da solo. A Anversa o a Barcellona. La luna. Animali che scappano. Incidente sulla strada. La paura.


Su Roberto Bolaño vedi anche il mio scritto su Monsieur pain e Un romanzetto canaglia sul numero 5 di Fili d'aquilone.


 

alexbrando@libero.it