FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 8
ottobre/dicembre 2007

Tracce d'Europa

IL CUORE DEL POETA
Sergio Corazzini (1886-1907)

di Magda Vigilante



Nell'introduzione al volume di Franco Donini Vita e poesia di Sergio Corazzini, edito nel 1949, Aldo Palazzeschi dichiarava:1 «Diciotto anni fa, in una rievocazione dei vent'anni, affermai senza esitare: "Corazzini non è morto". Era il grido salito dal cuore in quel giorno di giugno 1907 quando ricevei la notizia della sua morte. Tale certezza m'accompagnò fedelmente e si consolida sempre: non ho mai dubitato di ciò... Filippo Donini viene oggi da me e mi porta la sua opera per farmela conoscere. Ricevendo dalle mani del giovane studioso il manoscritto, un calore mi sale alla fronte e ho la sensazione di arrossire mentre il capo seguita a ripetere un segno affermativo: "Sergio è vivo, vivo...vivissimo"».

L'accorata affermazione di Palazzeschi che era stato amico del poeta romano, pur senza conoscerlo personalmente, ma attraverso un intenso scambio epistolare, può essere valida ancora oggi, ad un secolo dalla morte di Corazzini, avvenuta nel 1907.
Certamente, durante tutto il Novecento, sono state ristampate le opere di Corazzini e sono stati numerosi gli studi critici su di lui che terminò la sua esistenza a soli 21 anni tanto da poter essere considerato il più giovane poeta italiano, però il centenario della sua morte non risulta essere stato particolarmente ricordato.2
Tuttavia, qual è il fascino di un autore la cui «brevissima, tragica carriera3» si consumò nel giro di pochi anni?
Senza dubbio a creare un alone leggendario intorno al giovane poeta, morto di tisi, contribuirono i ricordi e le testimonianze degli amici che l'avevano frequentato a Roma tra i quali Pietro Paolo Trompeo, Gino Calza Bini, Alberto Tarchiani e il poeta Fausto Maria Martini, autore del romanzo Si sbarca a New York4 dove scrisse diffusamente del Corazzini, presentandolo però secondo lo stereotipo del poète maudit, segnato da un tragico destino. Fausto Maria Martini dichiarò di aver deciso di trasferirsi in America dopo la precoce morte dell'amico con la quale era finito non solo il cenacolo poetico che Corazzini era riuscito a creare con i suoi amici, ma anche un'epoca e una stagione irrepetibile della sua vita.

Al di là del mito divulgato da quanti appartenevano alla sua cerchia, che ricordavano dell'amico non solo i componimenti, ma anche il carattere mite e malinconico, alla cui formazione avevano contribuito le tragiche vicende della famiglia (una volta benestante poi ridotta in miseria) che lo avevano costretto, ancora adolescente, a impiegarsi presso la compagnia di assicurazioni "La Prussiana", Corazzini è, tra i poeti del Novecento, particolarmente amato dai lettori per i suoi versi struggenti cui l'imminenza della morte conferisce un carattere di autenticità, al di sopra di ogni artificio letterario. Corazzini però non è ricordato solo per l'assoluta coincidenza tra vita e poesia, ma soprattutto per essere stato l'antesignano di una nuova scuola poetica che fu denominata "crepuscolare" per le atmosfere brumose, i luoghi tristi e desolati, i sentimenti di malinconica dolcezza presenti nei componimenti dei poeti appartenenti a questa corrente.
La nuova poesia dei "crepuscolari" oppose al dannunzianesimo trionfante dell'epoca toni dimessi e "ingenui" in parte ripresi dai poeti francesi Guérin, Samain, Laforgue. Per l'interesse verso i poeti francesi dimostrato da Corazzini, Donini scrive nel suo volume: «Tutti gli amici di Sergio lo ricordano come un appassionato lettore di libri francesi, ch'egli vedeva in biblioteca o acquistava alla libreria Bocca, allora in Piazza Colonna, dove passava ogni giorno recandosi da casa all'ufficio.5»

Il giovane poeta romano esordì con la poesia romanesca 'Na bella idea6 edita il 17 maggio 1902 sul giornale satirico-umoristico "Pasquino de Roma" (che successivamente cambiò il titolo in "Marforio") dove come nelle altre poesie romanesche pubblicate sulla stessa rivista sono proposti motivi e termini d'ispirazione umoristica e popolare.
La collaborazione di Corazzini al "Marforio" durò dal 1902 al 1905 e non si limitò alle poesie romanesche in sintonia con il tono del giornale, ma si estese a numerose poesie non dialettali (privilegio concesso al giovane poeta) dove affiorano già elementi di gusto "crepuscolare" come nella poesia Tipografia abbandonata,7 in cui il poeta indugia amorosamente sugli "oggetti umili", "la polvere immensa", i "caratteri" ormai inutili, richiamati in vita per un attimo brevissimo, quando una "mano pietosa" apre uno "spiraglio" da cui entra trionfante la luce nel negozio abbandonato.

La poesia che segna però la nuova maniera di poetare è Il mio cuore8 scaturita quasi miracolosamente per la sua grazia e perfezione, a poca distanza di tempo dalle prove precedenti. In realtà come si è precedentemente ricordato, Corazzini conosceva bene diversi poeti francesi nelle cui poesie ricorrono attacchi simili a quello della poesia Il mio cuore: «Il mio cuore è una rossa / macchia di sangue...»; «Mon coeur est un beau lac solitarie»; « Mon coeur est un enfant qui désespére et crie» (Samain); «Mon âme est comme cette mare» (Guérin ), ma egli riesce a trovare un modo originale di riprendere l'immagine poetica del cuore, che nella sua poesia balza in primo piano come «una rossa / macchia di sangue» estremamente vivida. Questa rossa macchia diviene, in un audace paragone, l'inchiostro dove il poeta immerge «senza posa» la sua penna «a dolci prove / eternamente mossa».

Corazzini dichiara esplicitamente la sua poetica nutrita dalla vita in continuo divenire come il sangue sempre fluente del cuore che arrossa la carta "sempre a passioni nove". Come sembrano sbiadite al confronto le immagini poetiche del cuore create dai poeti francesi! Però, nei versi finali, Corazzini rivela la radice malata della sua vita la quale coincide totalmente con la sua poesia: «Giorno verrà : lo so / che questo sangue ardente / a un tratto mancherà, / che la mia penna avrà / uno schianto stridente... / ...e allora morirò». Al tono iniziale così veemente e fervido si contrappone allora dapprima lo "schianto stridente" della penna, e successivamente, ineluttabile effetto, la morte del poeta.

Il tema e l'immagine del cuore ricorrono frequentemente nelle poesie di Corazzini e ne svelano il significato più profondo. Il componimento Dolore9 rivela infatti il suo segreto, "la dolce follia" che lo rende "triste e quieto" nell'identità tra anima e cuore: «... vedi, la mia / anima è nel mio cuore, / il cuore è nella mia / anima, ...». L'anima sembra presupporre una coscienza più elevata nell'uomo, mentre il cuore appartiene all'infanzia, quando non si era capaci di compiere sottili distinzioni e, quando si soffriva, era il cuore che doleva. Il poeta afferma così di voler restare unito al cuore fanciullo e per questo le sue sofferenze non possono essere sublimate e superate in una concezione più ampia e adulta dell'esistenza: «... e se dolore / l'anima un poco sente, / soffre un poco anche il cuore, / bimbo, quietamente».
In una sorta di compiacimento il poeta si abbandona al dolore: «Io, vedi, soffro molto, / e più soffro e più sento / che soffrirei;...» anche se comprende che il suo è un «...vaneggiamento / continuo, senza tregua...» . Quando per un breve attimo la sofferenza sembra dileguarsi, l'anima, entità misteriosa non familiare come il cuore, si slancia «oltre il cielo, oltre il mare», in luoghi sconosciuti agli uomini. Il poeta però non sa assecondare questo impulso dell'anima e ritorna al suo piccolo mondo quotidiano dove egli porta «... tanto amore / a una crocetta d'oro / che s'apre ...»" sul suo cuore come un piccolo talismano. Egli ignora infatti come sia pervenuta a lui, ma l'ama perché è il simbolo del dolore divino percepito però come quello di "un mio dolce Signore", termine che evoca la divinità, ma la rende meno immensa e lontana attraverso gli aggettivi caratteristici di un linguaggio colloquiale.
Il motivo del cuore può diventare la chiave di lettura di tutta la poesia di Corazzini dal momento che il cuore fanciullo, in quanto sa di non raggiungere mai la maturità, ama luoghi e oggetti trascurati nell'età adulta, come le chiese poco frequentate o abbandonate,10 i giardini solitari, le cappelle di campagna, i fiori precocemente avvizziti. Questa tragica consapevolezza condurrà Corazzini a privilegiare nei suoi componimenti tutto quello che è in disfacimento, in rovina senza nessuna possibilità di riscatto, contaminato ormai dall'oscura presenza della morte.

Nelle strofe iniziali di Cappella in campagna11 sono minuziosamente descritti gli oggetti in stato d'abbandono della cappella: «i fiori morti, sull'altare...», «due ceri gialli, senza fiamma, a i lati...», «[l]a ghirlandetta d'una verginella, / sfiorita a pena a pena, intorno a i biondi / capelli di una nitida madonna...», «nel mezzo, una colonna; una colonna / sfinita...».
Turbato da tanta desolazione, il poeta tenta di restituire la luce dei ceri e il profumo delle rose all'altare della cappella. Inutilmente però l'uomo vuole riportare in vita quanto è destinato a morire, a finire inesorabilmente.
La fiamma dei ceri guizza per un breve attimo e dopo si spegne, come le illusioni morte nel cuore del poeta, il quale non può che assistere impotente all'avanzare, anche nella natura, dell'ombra, «bruna, più bruna, / più nera...» che sommerge l'ultima "fascia di sole".
Corazzini ricorre a continue iterazioni per comunicare la sensazione visiva del buio che invade la terra, prefigurazione del finale annullamento che non risparmierà nulla, né i poveri oggetti dimenticati, né gli uomini, ma ecco sopravvivere un barlume di luce dai "voti d'argento de gli umili, dei buoni senza nome» che, con la loro fede, riescono a dare una speranza ad un destino altrimenti spietato.

Con un movimento opposto dalla speranza al disincanto si conclude, invece, il Sonetto della neve12 dove l'orto così triste, sotto il "cielo morto", viene coperto dalla neve e manifesta nell'improvviso, mutato colore, una parvenza di primavera. La sera racchiude come in un grembo materno il nitido candore della terra che al "muto cuore assorto" sembra ospitare un'insolita prima fioritura. Quando, però, l'alba riporta la luce è uno spettacolo lugubre e spettrale quello che si rivela: l'orto è scomparso sotto una coltre bianca che lo rinserra come in una bara.
Tutto il sonetto è costruito in un gioco di rimandi che capovolge le usuali percezioni: la neve, dapprima identificata con "l'anima bianchissima e leggera" del cielo, non rinvia al freddo inverno ma a una precoce primavera, similmente la sera non rappresenta il buio che avanza sempre di più nella cattiva stagione, ma diviene una preziosa alleata che custodisce la dolce illusione. L'alba, invece, «sorrisa... di sua luce chiara», mostra con il suo luminoso arrivo la squallida scena dell'orto sigillato dalla neve "tetra" pur nella sua dolcezza.

Il ribaltamento delle usuali sensazioni connesse a luoghi e situazioni - che in seguito diventerà una caratteristica della poesia novecentesca - svela l'affermarsi in Corazzini di nuove modalità poetiche che senza dubbio sono influenzate dai poeti francesi e fiamminghi, ma conservano tuttavia una loro innegabile originalità. Le insolite associazioni si riferiscono anche ad oggetti che abitualmente evocano determinati stati d'animo. Così la finestra aperta sul mare dell'omonima poesia13 di solito suscita sensazioni gioiose di apertura e luminosità, mentre in Corazzini, dopo l'immagine iniziale ancora gradevole: «...Io la vidi / aperta sul mare, come un occhio a guardare, / coronata di nidi.», manifesta in seguito tutta la sua agghiacciante negatività: «... Era / la finestra di una torre in mezzo al mare, desolata / terribile nel crepuscolo, / spaventosa nella notte, / triste cancellatura / nella chiarità dell'alba.»
Singolare anche la lunghezza del verso che definisce la finestra senza interporre alcuna pausa per meglio far risaltare l 'immagine.
Tutto l'ambiente circostante viene descritto a partire dalla finestra aperta, vero centro della composizione: la torre solitaria che l'ospita, le "sale antichissime" che conservano «... solamente l'eco delle gavotte / ballate in tempi lontani...» e il mare, sul quale s'affaccia, "l'azzurro amante" che invano circonda la torre "di tenerezze improvvise". Solo quando la finestra, ormai spoglia anche dei nidi delle ultime rondini, è diventata l'unica superstite del suo completo sfacelo, la torre «...quasi / in un inginocchiarsi lento / di rassegnazione» si concede all'abbraccio del mare.

Nella sua poesia più celebre Desolazione del povero poeta sentimentale14 Corazzini sostituisce, invece, alla rappresentazione del poeta come essere privilegiato quella di se stesso non più come poeta, ma solo come "... un piccolo fanciullo che piange". A tale proposito Donini osserva che Corazzini «...sa di essere un poeta, e quando finge di affermare di non esserlo, vuole la pronta smentita del "fratello" o della "sorella" a cui la poesia è rivolta...».15 Il critico si riferisce alla domanda iniziale della poesia «Perché tu mi dici: poeta?» rivolta ad uno sconosciuto interlocutore, e spiega la successiva affermazione «Io non sono un poeta.» in questo modo: «... Oltre alla desolazione del giovane che sa di dover morire, c'è quella del poeta che teme di non fare a tempo ad affermarsi, che piange perché nessuno lo ascolta, come il suo organo di Barberia...».16

Indubbiamente queste motivazioni hanno presieduto alla genesi della poesia, ma accanto a loro, c'è pure il tema caro al poeta di mantenersi fedele a quanto suggerisce il cuore che condivide con tutti gli altri uomini "povere tristezze comuni" e semplici gioie e che attenua la paura della morte in un paradossale vagheggiamento: «Io voglio morire, solamente, perché sono stanco; / solamente perché i grandi angioli / su le vetrate delle cattedrali / mi fanno tremare d'amore e di angoscia ...».
In realtà come testimoniarono i suoi amici , Corazzini amava la vita e avrebbe voluto vivere ancora,17 ma ormai si stava preparando a essere «rassegnato come uno specchio / come un povero specchio melanconico».

Nell'approssimarsi della fine il poeta si sente ormai un piccolo e indifeso fanciullo "... dimenticato da tutti gli umani..." che tuttavia assapora la sua esclusione come un povero bambino che, dopo esser stato venduto, battuto e costretto a digiunare, "... povera tenera preda del primo venuto..." si ritira «...a piangere tutto solo, / disperatamente triste, / in un angolo oscuro». Pure egli ha amato la vita essenziale delle cose, quello che rimane dopo la fine di tante passioni. Chi non è prossimo alla morte non può capire questo sentimento di distacco e lo attribuisce alla malattia.
La malattia del poeta è purtroppo reale, ma ogni cosa possiede un tarlo interno che la condurrà inevitabilmente alla morte. In questa disperata condizione a che serve esser poeta se tutto è destinato a scomparire? Che altro rimane se non assolvere con consapevolezza l'ultimo compito? L'«amen» conclusivo della poesia la rende simile all'estrema invocazione di chi s'accinge, appunto, a morire, dopo aver ascoltato per l'ultima volta il suo cuore.

D'altronde anche Manzoni, autore tanto diverso da Corazzini, aveva scritto nel cap. VIII dei Promessi sposi: « Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualcosa da dire su quello che sarà»18 per concludere, però, subito dopo, con la consapevolezza dell'età matura: «Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto».19 Corazzini, invece, ci commuove perché è stato sempre fedele al suo cuore e l'ha ascoltato fino alla fine.



1Torino, De Silva Editore, p. VII.

2Tranne alcune eccezioni, vedi gli articoli: Marco Testi, Quel groviglio inestricabile di vita e di arte; Sabino Caronia, "Vorrei, raccontando fiabe piene d'oro e d'ombra andare di paese in paese..." pubblicati su "L'Osservatore Romano", 18/19 giugno 2007 per il centenario della morte di Corazzini.

3E. Cecchi, I crepuscolari: Corazzini e Gozzano, in AA.VV., Storia della Letteratura Italiana, vol. IX, Il Novecento, Milano, Garzanti, 1969, pp. 87-100.

4Milano, Mondadori, 1930

5Op. cit., p. 53.

6Secondo Donini non è del tutto sicuro che la poesia romanesca fosse la prima pubblicazione di Corazzini.

7Edita il 19 marzo 1903.

8Edita il 17 giugno 1903 sul "Marforio" e successivamente inserita nella raccolta Dolcezze, Roma, Tipografia cooperativa operaia, 1904

9D'ora in poi si citeranno le poesie dalle raccolte edite nel volume: Sergio Corazzini, Poesie edite e inedite, a cura di Stefano Jacomuzzi, Torino, Einaudi, 1968, da Dolcezze, p.49-50.

10A tale proposito Donini in Vita e poesia di Sergio Corazzini, op. cit., pp. 66-7, scrive: «...Sergio aveva una predilezione per le chiese poco frequentate, le chiese povere, fuori di mano e abbandonate... che amava visitare e far conoscere...». Spesso gli amici... lo accompagnavano nelle passeggiate predilette a San Saba e alle altre chiese dell'Aventino, o a Sant'Urbano sulla via Salaria, o di notte a San Luca per vederne il lume da una finestrina, o lungo la via della Ferratella, da San Giovanni ai santi Nereo e Achilleo.

11Da L'amaro calice in op. cit., pp.71-73.

12Da Le Aureole, in S. Corazzini, Poesie edite e inedite, a cura di Stefano Jacomuzzi, cit., p. 92.

13Ivi, pp. 93-95.

14Dal Piccolo libro inutile, in op. cit., pp. 117-9.

15F. Donini, Vita e poesia di Sergio Corazzini, op. cit., p. 153.

16Ivi, p. 154.

17Nella nota 2 a p. 154 del suo volume, Donini riporta la confidenza affidata da Sergio in una lettera a Palazzeschi, inviata il 16 novembre 1906, quando egli era ormai nel sanatorio di Nettuno: «...non vorrei morire ancora...».

18A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di Cesare Angelini, Torino, Utet, 2ª edizione 1968, p.184.

19Ibidem.




POESIE DI SERGIO CORAZZINI
(da Poesie sparse in Poesie edite e inedite, 1968)



LA TIPOGRAFIA ABBANDONATA

Quale mano pietosa,
quale mano operosa,
lo spiraglio breve oprì?
Non lo so. Entrò il sole:
una festa di pulviscoli
d'oro, e i caratteri morti,
che composero parole
e che fecero piangere
i deboli e i forti,
e che fecero ridere
tante bocche di rosa,
i caratteri tutti illuminò
de la sua luce meravigliosa.

Le lettere fremettero
alla improvvisa gioia,
e nel silenzio della lunga camera,
ove i placidi ragni,
artefici sottili di sottili
trame, ogni dì morivano di noia;
ove era nata,
su tanti oggetti umili,
polvere immensa, come se il suggello
suo ci volesse all'opra abbandonata
da umani che fatica rese vili;
nel silenzio le lettere si unirono,
composero parole, versi, canti
interi, per quel sole tanto bello
e tanto buono, per quel sol che i pianti
d'una lunga tristezza, avea asciugato
col suo raggio divino
col suo raggio infuocato.

[...]

E le trame di seta infransero
E si sperse nell'aria la polvere...


O sole!

dicevano le parole,
i versi e i canti: O pio sole,
anche noi siamo amate da te.
Tu ci vieni a trovare
vieni ad illuminare
con la tua dolce luce
noi povere sorelle...
Oh quante volte, nelle
mani degli uomini vivi
abbiamo composta la morte!
E i pianti, e le angosce, e il dolore
che infrange il cuore,
e le lagrime a rivi,
e il riso folle dei felici...
Noi, così fredde, abbiamo
composto più di un bacio appassionato;
così piccine abbiamo
più d'un immenso amore rovinato
quando ci dividevamo
poi che l'ultimo bacio era stampato...

[...]

Oh, ma tu fuggi, o sole!
Ritornerai domani?
O ci abbandoni come già gli umani
ci abbandonarono?...

Dicon le cose: è sera!
Dicon le stelle: è notte!
E solitaria e nera
torna la stanza, a frotte
tornano i ragni nelle tele loro,
torna a regnar la polvere
là dove un giorno vi regnò il lavoro.

(da Dolcezze, 1904)


IL MIO CUORE

Il mio cuore è una rossa
macchia di sangue dove
io bagno senza possa
la penna, a dolci prove

eternamente mossa.
E la penna si muove
e la carta s'arrossa
sempre a passioni nove.

Giorno verrà: lo so
che questo sangue ardente
a un tratto mancherà,

che la mia penna avrà
uno schianto stridente...
...e allora morirò.


DOLORE

I

Voglio dirti in segreto
de la dolce follia
che mi fa triste e quieto

tanto; vedi, la mia
anima è nel mio cuore,
il cuore è nella mia

anima, e se dolore
l'anima un poco sente,
soffre un poco anche il cuore,

bimbo quietamente.

II

Io, vedi, soffro molto,
e più soffro e più sento
che soffrirei; se ascolto

il mio vaneggiamento
continuo, senza tregua,
senza un breve momento

di pace, e se dilegua
poi non so come, pare
che l'anima lo segua

oltre il cielo, oltre il mare.

III

Io porto tanto amore
a una crocetta d'oro
che s'apre, sul mio cuore.

È un tenue lavoro,
non è un ricordo, no,
come l'ebbi, l'ignoro.

Io l'amo perché so
che croce fu dolore,
e assai ne spasimò

un mio dolce Signore!

(da L'amaro calice, 1905)


CAPPELLA IN CAMPAGNA

I

Giù dall'antica grata, estenuati
i fiori morti, su l'altare, il Santo,
dolcissimo nel suo nitido manto,
con gli occhi un po' velati, un po' velati

forse, chi sa, da qualche umano pianto;
due ceri gialli, senza fiamma, a i lati,
due ceri senza fiamma, inanimati,
come i cuori che mai sepper lo schianto.

La ghirlandetta d'una verginella,
sfiorita a pena a pena, intorno a i biondi
capelli di una nitida madonna;

nel mezzo, una colonna; una colonna
sfinita, in essa un pio nido di rondini,
solo, coperto d'erba tenerella.

II

Venni non so per quale sogno assai
dolce al mio cuore umile; fu ieri
mattina; volli portare due ceri
nuovi, due ceri bianchi come mai

e due rose - ho i miei piccoli rosai
anch'io - due rose bianche come i ceri;
sembravano fiorite in monasteri
chiuse, le rose, in languidi rosai.

Oh la fiamma purissima, oh il profumo
novo ch'io seppi nella breve stanza
che la mano soave ricompose!

La Madonna, un po' triste fra le rose,
disse: Che vale tua dolce esultanza
s'io per dolore sempre mi consumo?

III

Su i candelabri, i ceri arsero in pura
fiamma, come due cuori amanti; tutti
arsero, e per un poco su i distrutti
avanzi andò la fiamma malsicura.

Nell'aria fu un odor di sepoltura
e il cuore ripensò tutti i suoi lutti,
come il pesco ripensa i dolci frutti
nella feconda estate moritura.

Le rose giovinette, ne la pia
solennità, esalarono la breve
anima; oh gli atti e le preghiere vane!

Quanta tristezza scese nella mia
anima, quando da non so qual pieve
giunse pei cieli un suono di campane!

IV

Una fascia di sole, ancora; una
striscia, un filo sottile, una chiarezza
indefinita, un'ultima allegrezza
di luce, poi l'ombra, bruna, più bruna,

più nera. Ho nel cuore una tristezza
intensa immensa come mai nessuna
tristezza; oh non potrebbe ora la luna
scendere un poco da la dolce altezza?

Distinguo appena la Madonna, ha immoti
gli occhi lucidi come lame, come
le sette spade che le stanno in cuore;

intorno, un po' d'argento luce: i voti
de gli umili, de i buoni senza nome
ch'ebbero ancora fede nel dolore.

(da Le aureole, 1905)


SONETTO DELLA NEVE

Nulla più triste di quell'orto era,
nulla più tetro di quel cielo morto
che disfaceva per il nudo orto
l'anima sua bianchissima e leggera.

Maternamente coronò la sera
l'offerta pura e il muto cuore assorto
in ricevere il tenero conforto
quasi nova fiorisse primavera.

Ma poi che l'alba insidiò co' l lieve
gesto la notte e, per l'usata via,
sorrisa venne di sua luce chiara,

parve celato come in una bara
l'orto sopito di melanconia
nella tetra dolcezza della neve.


LA FINESTRA APERTA SUL MARE

Non rammento. Io la vidi
aperta sul mare,
come un occhio a guardare,
coronata di nidi.
Ma non so né dove, né quando,
mi apparve; tenebrosa
come il cuore di un usuraio,
canora come l'anima
di un fanciullo. Era
la finestra di una torre in mezzo al mare, desolata
terribile nel crepuscolo,
spaventosa nella notte,
triste cancellatura
nella chiarità dell'alba.

Le antichissime sale morivano
di noia: solamente l'eco delle gavotte,
ballate in tempi lontani
da piccole folli signore incipriate,
le confortava un poco.
Qualche gufo co' i tristi
occhi, dall'alto nido
scricchiolante incantava
l'ombra vergine di stelle.
E non c'era più nessuno
da tanti anni, nella torre,
come nel mio cuore.

Sotto la polvere ancora
un odore appassito, indefinito,
esalavano le cose,
come se le ultime rose
dell'ultima lontana primavera
fossero tutte morte
in quella torre triste, in una sera triste.

E lacrimava per i soffitti
pallidi, il cielo, talvolta
sopra lo sfacelo delle cose.
Lacrimava dolcemente
quietamente per ore
e ore, come un piccolo fanciullo malato.
Dopo, per la finestra
veniva il sole, e il mare,
sotto, cantava.

Cantava l'azzurro amante,
cingendo la torre tristissima
di tenerezze improvvise,
e il canto del titano
aveva dolcezze, sconforti,
malinconie, tristezze
profonde, nostalgie
terribili... Ed egli le offriva i suoi morti,
tutte le navi infrante,
naufragate lontano.

Una sera per la malinconia
di un cielo che invano
chiamava da ore e ore
le stelle, volarono via
con il cuore
pieno di tremore
le ultime rondini e a poco
a poco nel mare
caddero i nidi: un giorno
non vi fu più nulla intorno
alla finestra. Allora
qualche cosa tremò
si spezzò
nella torre e, quasi
in un inginocchiarsi lento
di rassegnazione
davanti al grigio altare
dell'aurora,
la torre
si donò al mare.

(da Il piccolo libro inutile, 1906)


DESOLAZIONE DEL POVERO POETA SENTIMENTALE

I

Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta,
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?

II

Le mie tristezze sono povere tristezze comuni:
Le mie gioie furono semplici,
semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.
Oggi io penso a morire.

III

Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;
solamente perché i grandi angioli
su le vetrate delle cattedrali
mi fanno tremare d'amore e di angoscia;
solamente perché, io sono, oramai,
rassegnato come uno specchio,
come un povero specchio melanconico.

Vedi che io non sono un poeta:
sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.

IV

Oh, non meravigliarti della mia tristezza!
E non domandarmi;
io non saprei dirti che parole così vane,
Dio mio, così vane,
che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.
Le mie lagrime avrebbero l'aria
di sgranare un rosario di tristezza
davanti alla mia anima sette volte dolente
ma io non sarei un poeta;
sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo
cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.

V

Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.
E i sacerdoti del silenzio sono i romori,
poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.

VI

Questa notte ho dormito con le mani in croce.
Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
dimenticato da tutti gli umani,
povera tenera preda del primo venuto;
e desiderai di essere venduto,
di essere battuto
di essere costretto a digiunare
per potermi mettere a piangere tutto solo,
disperatamente triste,
in un angolo oscuro.

VII

Io amo la vita semplice delle cose.
Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco, a poco,
per ogni cosa che se ne andava!
Ma tu non mi comprendi e sorridi.
E pensi che io sia malato.

VIII

Oh, io sono, veramente malato!
E muoio, un poco, ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per esser detto: poeta, conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire.
Amen.





Sergio Corazzini SERGIO CORAZZINI

Nacque a Roma il 6 febbraio 1886 da padre romano, Enrico, e da madre di origini cremonese, Carolina Calamani. La famiglia, minata in quasi tutti i suoi componenti dalla tubercolosi, passò da una condizione di agiatezza alla miseria per delle speculazioni sbagliate in Borsa del padre che era proprietario di una tabaccheria di lusso vicino a piazza San Marcello. Sergio, insieme al fratello Gualtiero, compì gli studi elementari e la prima ginnasiale al collegio nazionale Umberto I di Spoleto, ma ben presto fu costretto a interrompere i suoi studi, condotti probabilmente fino alla quarta ginnasiale, per impiegarsi presso la società di assicurazioni la Prussiana a causa del dissesto finanziario della famiglia.
Giovanissimo, nel 1902, iniziò la sua collaborazione al giornale satirico-umoristico "Pasquino de Roma" (che con il n. 2 cambiò il titolo in "Marforio") dove pubblicò, dal 1902 al 1905, numerose poesie sia in romanesco sia in italiano. A partire dal 1903 collaborò anche a riviste più prestigiose quali "Fracassa", "Gran Mondo" e "Vita letteraria".
Nel 1904 a Roma uscì la sua prima raccolta poetica Dolcezze, cui seguirono i volumi L'amaro calice (Roma, 1905) e Le aureole (Roma, 1905).
Il 28 maggio 1905 fu rappresentato al teatro Metastasio di Roma un suo dramma in un atto Il traguardo che non ebbe successo. Alla fine dell'anno, Corazzini insieme agli amici con i quali aveva dato vita a un vero e proprio cenacolo, fondò la rivista "Cronache latine" che già l'anno successivo fu sospesa per mancanza di fondi.
Ormai gravemente malato, Sergio trascorse un soggiorno a Nocera Umbra, nella primavera estate del 1906, per tentare di ristabilirsi, ma dopo un illusorio miglioramento, preferì tornare a Roma nella seconda metà di luglio. Poco tempo dopo il suo rientro, fu edito a Roma il volumetto Piccolo libro inutile dove sono riuniti i componimenti poetici di Corazzini e del suo amico Alberto Tarchiani.
Per l'aggravarsi delle sue condizioni di salute e soprattutto grazie all'intervento degli amici, fu ricoverato in autunno nel sanatorio di Nettuno. Durante il suo soggiorno nella casa di cura, furono edite Elegia (Roma, s.a., ma 1906) e l'ultima raccolta poetica Libro per la sera della domenica (Roma, 1906). All'inizio della primavera del 1907, dal momento che le cure si erano rivelate inutili, Corazzini tornò a Roma dove morì il 17 giugno.


    BIBLIOGRAFIA


    Edizioni originali

  • Dolcezze, Roma, Tipografia cooperativa operaia romana, 1904.
  • L'amaro calice, ibidem, 1905.
  • Il traguardo, scene drammatiche in un atto, Napoli, Edizioni del "Giornale d'arte", 1905.
  • Le aureole, Roma, Tipografia cooperativa operaia romana, 1905.
  • Piccolo libro inutile, insieme ad Alberto Tarchiani, ibidem, 1906.
  • Elegia (frammento), ibidem, 1906.
  • Libro per la sera della domenica, ibidem, 1906.

    Edizioni postume e moderne

  • Liriche, edizione a cura degli amici, Napoli, Ricciardi, 1909; 2ª ed. 1914.
  • Liriche, edizione a cura degli amici, con prefazione di Fausto M. Martini, ibidem, 1922; 2° ed. 1935.
  • Liriche, nuova edizione, prefazione di Fausto M. Martini, saggio introduttivo di S. Solmi , ibidem, 1959.
  • Poesie edite e inedite, a cura di S. Jacomuzzi, Torino, 1968.
  • Poesie, a cura di Idolina Landolfi, Milano, 1992
  • Tutte le opere. Poesie, prose, teatro, a cura di A.I. Villa, Pisa-Roma, 1999.

    Bibliografia essenziale

  • A.Piromalli, La poesia di Sergio Corazzini, Catania, 1939
  • F. Donini, Vita e poesia di Sergio Corazzini, Torino, 1949.
  • S. Jacomuzzi, Sergio Corazzini, Milano, 1963
  • E. Circeo, Ritratti di poeti italiani: Gozzano e Corazzini, Pescara 1963.
  • AA.VV.«Io non sono un poeta». Sergio Corazzini in Atti del Convegno Internazionale di studi (Roma, 11-13 marzo 1987), Roma, 1989.
  • Una ricca bibliografia si trova nel volume: Poesie, a cura di Idolina Landolfi, op. cit.
  • Utile strumento per l'analisi della poesia corazziana è G. Savoca, Concordanza di tutte le poesie di Sergio Corazzini, Roma, 1989.

magdavigi@alice.it