FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 8
ottobre/dicembre 2007

Tracce d'Europa

MASSIMO BONTEMPELLI
Il mito (o il successo dell'anonimo)

di Giorgio Galetto



L'incessante ricerca di essenzialità, il lavoro certosino sulla forma perché fosse chiara al punto da veicolare contenuti a loro volta nitidi e solidi, accompagna il percorso di Massimo Bontempelli (1878-1960) sul fronte mitografico, come del resto lungo tutto l'arco della sua produzione.
Sia infatti che si interpreti il tragitto che va dai romanzi para-futuristi (La vita intensa e La vita operosa) fino alla trilogia contenuta in Giro del sole come un'involuzione, sia che si consideri la prosa neo-classica dell'ultimo Bontempelli come il punto più alto della sua opera, come esempio massimo della maturità raggiunta dallo scrittore, rimane indubbio il fatto che una parabola è stata descritta, e che una delle sue coordinate costanti è di certo il "mito".

Già nel periodo "metafisico" (La scacchiera davanti allo specchio ed Eva ultima), quando lo scopo principale dello scrittore era stato quello di avvicinare il più possibile il proprio linguaggio alle atmosfere dei quadri di De Chirico (che nel 1922 aveva tra l'altro curato le illustrazioni di un suo testo teatrale, Siepe a nord-ovest) vi sono tracce di un incipiente "realismo magico", formula che ha reso famoso Bontempelli accostando a volte impropriamente la sua opera agli esiti delle successive "magie" sudamericane di Marquez o di Borges: ecco allora la creazione di un sovramondo, di una realtà iperuranica nella quale le categorie di tempo, spazio e causalità fanno da sfondo per l'ambientazione, precisa ma agli antipodi dal vero (come un sogno lucido), e nella quale si muovono personaggi spesso improbabili, oggetti inanimati come gli scacchi, le marionette, o creature enigmatiche come Eva.

Questa dimensione straniata, che troviamo nei due racconti "metafisici", ed il realismo contrapposto agli eventi "soprannaturali" dei romanzi propriamente "magici" (Il figlio di due madri, Vita e morte di Adria e dei suoi figli, Gente nel tempo), fanno da sfondo e costituiscono l'ambientazione adeguata per i nuovi miti immaginati da Bontempelli. Leggiamo ne L'Avventura novecentista:

L'ideale supremo di tutti gli artisti dovrebbe essere: diventare anonimi [...] Il compito primo e fondamentale del poeta è inventare miti, favole, storie, che poi si allontanino da lui fino a perdere ogni legame con la sua persona, e in tal modo diventino patrimonio comune degli uomini, e quasi cose della natura1

Caratteristica del mito antico era appunto l'anonimato, la provenienza da un fondo arcaico comune che ne garantiva la diffusione orale, senza modifiche sostanziali ai contenuti.
La trasmissione di valori fondanti, attorno ai quali la società antica costruiva la propria coesione e il proprio codice di leggi non scritte, era affidata a questo mezzo, alla sua propagazione. L'importanza della sostanza del messaggio, rispetto alla forma, è evidente in una società che non conosce la scrittura, come anche il totale disinteresse verso l'individualità di "autori", che sono semplici veicoli del mito, o al massimo rielaboratori o "cucitori" di storie già note.

Niente affatto scontata, al contrario, la buona riuscita di un progetto mitopoietico novecentesco, con annessa ambizione di anonimato, di perdita di individualità dell'artista-artigiano; ed infatti l'attenzione alle "parole" piuttosto che alla "parola"2 conduce Bontempelli a lavorare moltissimo sul significante, per renderlo il più invisibile e funzionale possibile al significato, ma finendo col raggiungere l'obiettivo di una prosa elegante e raffinata, per la quale si è appunto parlato di esiti classicheggianti, rondisteggianti, ma non certo di anonimato.
La volontà di ricostituire un patrimonio mitologico, di conio puramente novecentesco (e novecentista), si collega direttamente alla necessità di ridare collocazione all'intellettuale, figura i cui contorni andavano sfumando e le cui competenze rischiavano di perdersi o annacquarsi nel gran mare della nuova filosofia produttivistica, figlia del suo tempo. E se lo zeitgeist del secolo nuovo metteva in crisi l'uomo di lettere, le risposte che quest'ultimo poteva dare riguardo al proprio "statuto" e al riconoscimento sociale del proprio ruolo, si articolavano grosso modo a seconda del grado di adesione ai nuovi ritmi.

Bontempelli non sceglie il nichilismo, l'opzione decadente, "parnassiana" o ermetica, con tanto di auto-referenziale fede nella propria superiorità; neanche si accontenta del moderno, rassegnato rimpicciolimento gozzaniano dell'Io poetico, accompagnato da un sarcastico sorriso verso chi si affanna a cercare la gloria «dell'oro e dell'alloro»3; ma suo non è nemmeno l'incondizionato assenso futurista alla nuova temperie culturale, alla "mitizzazione" della macchina, della velocità, all'orrore verso il "vecchio" tout-court (si veda in questo senso il trattamento ironico del tema della macchina in 522, e le pagine di Piscopo, Tessari e Fontanella4 sull'argomento).

Leggiamo allora cosa scrive Bontempelli ne L'Avventura novecentista:

... gli antichi Greci hanno inventato bei miti e favole delle quali l'umanità si è servita per alcuni secoli. Poi il Cristianesimo ha inventato altri miti. Oggi siamo alle soglie di una terza epoca dell'umanità civile. E dobbiamo imparare l'arte di inventare i nuovi miti e le nuove favole.5

La nuova funzione dell'intellettuale, dell'artista, dello scrittore, è definita qui senza mezzi termini, e discende direttamente dall'atteggiamento che questi assumerà verso il mondo rinnovato che lo circonda. Non ci sarà opposizione feroce, ma inserimento "ragionato": le competenze dell'umanista saranno volte a soddisfare l'insopprimibile esigenza di mito dell'umanità, e nella società a lui contemporanea, con la partecipazione popolare (attiva o passiva...) alla realtà socio-politica, entrano in gioco i bisogni delle "masse".

Il progetto bontempelliano, nato nel 1926 con la rivista "Novecento", aveva come presupposto la volontà di svecchiare decisamente la cultura italiana aprendola agli influssi più vitali che animavano l'Europa contemporanea (la rivista ospitava firme prestigiose della letteratura e dell'arte, basti pensare a Joice), trascinandola fuori dalle secche di quelli che erano percepiti come gli ultimi sussulti di un morente romanticismo, capace ormai di produrre solamente "pezzenterie intimiste".
La cosiddetta terza epoca, frutto o cascame della Grande guerra, uscita radicalmente rinnovata da quell'esperienza, rinnova dunque anche il proprio immaginario, e interprete principale delle esigenze di fantastico, avventuroso e mitico, diviene il letterato.


Bontempelli in un disegno di Giorgio De Chirico

La critica ha molto scritto sull'attenzione e sull'acume di Massimo Bontempelli nel valutare il rapporto pubblico-artista nella modernità, nel considerare i nuovi bisogni e i nuovi canali di comunicazione: alcune tra le analisi più interessanti interpretano l'invenzione dei "miti moderni" come lo strumento di reintegrazione e di riappropriazione del ruolo da parte dell'intellettuale.
Potremmo quasi dire che l'Accademico d'Italia, l'uomo e artista compromesso col regime, si crea le basi teoriche per giustificare la sua carriera all'interno degli apparati statali: ma credo sarebbe ingiusto e scorretto ridurre in questo modo la capacità di cogliere le dinamiche del presente, la grande coscienza del mutamento in corso e la lungimiranza delle previsioni sulla fruizione dell'arte nell' "epoca della riproducibilità tecnica" (basti pensare alle parole spese sul cinema6 e sul grande impatto che avrebbe avuto sulle masse).

Lo sfociare della poetica bontempelliana nel "mito" può considerarsi l'equilibrato punto di congiunzione tra l'immersione nel flusso temporale, nel fascino del moderno e della città (Baudelaire), e la necessità di cristallizzare e fissare in una nicchia extra-temporale la magia che pure sorge dal quotidiano.
Modernità e classicità, elan vital e "misura" si incontrano per generare il "mito", creando quella tensione di cui parlava proprio Baudelaire, come suggerisce Morabito7.

Dubbi sulla riuscita dell'operazione mitografica, come dicevamo, nascono dalla siderale distanza tra il significato del mito antico, la cui normatività è fondata, come dice anche Lévi-Strass, sull'origine sovrannaturale del linguaggio simbolico che lo costituisce, e il mito moderno, che non può vantare natali così nobili in un'epoca scientificizzata come quella in cui vive Bontempelli (la nostra...).
Ma partendo dal presupposto che «anche la modernità, ha fame di simboli e che l'essere umano è un peculiare portatore e consumatore di messaggi simbolici»8, l'operazione novecentista e «l'idea degli scrittori utopici può apparire non così temeraria»9.



1M. Bontempelli, L'Avventura novecentista, cit., p. 19 (il secondo corsivo è mio).

2Di qui un "atteggiamento antistilistico" e " un acre odio contro la parola", cioè il rifiuto dello strumentario classico della separatela e del privilegio dei letterati, P. Cataldi, Le idee della letteratura. Storia delle poetiche italiane del Novecento, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1994, p. 113.

3G. Gozzano, La signorina Felicita, in Poesie, Torino, Einaudi, 1973, p. 134.

4U. Piscopo, op. cit. ; L. Fontanella, op. cit. ; R. Tessari, Il mito della macchina. Letteratura e industria nel primo novecento italiano, Milano, Mursia, 1973, pp. 368 e segg.

5M. Bontempelli, L'Avventura novecentista, cit., p.350 (il corsivo è mio).

6«E nemmeno occorre una profetica chiaroveggenza per capire che il nuovo spettacolo nascerà, all'ingrosso, dal Cinematografo e dal Teatro di Varietà, e da certi elementi del Circo Equestre», M. Bontempelli, L'Avventura novecentista, cit., p. 39.

7P. Morabito, "Mito e modernità nella poetica di Massimo Bontempelli", in "Il Verri", 3 - 4, Milano, 1995, pp. 25 - 57.

8U. Piscopo, op. cit., pp. 400.

9Ibidem.

 

gio_gale@libero.it