FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 6
aprile/giugno 2007

Scorie & Rifiuti

SCARTI UMANI

di Maite Pérez Capón


Mai avrebbe dimenticato quegli occhi. Erano anni che lo guardavano in modo fisso senza mai sbattere le palpebre, spalancati e scuri, sotto le sopracciglia nere e folte. Si sollevò di scatto volendo pensare ad altre cose.

- Non dormi? - mormorò la moglie, con la lingua intorpidita dal sonno

- No.

Si mise seduto nel letto e mosse i piedi a tentoni in cerca delle pantofole.

- Dove stai andando?

- In bagno. Dai, seguita a dormire.

Afferrò il pacchetto delle sigarette e, trascinando le gambe, si diresse verso la sala. La luce lunare schiariva gli oggetti. Accese una sigaretta e si sedette, appoggiando i gomiti al tavolo.

Quanti anni erano passati? Più di cinquanta... eppure quello sguardo non s'era cancellato. Stava ancora lì, e in ogni occasione gli sbucava davanti. Si passò la mano tra i capelli, quasi del tutto bianchi.

La luna aveva risalito un buon tratto di cielo quando, a fatica, si rimise in piedi. Scosse la testa, come per allontanare il peso che sentiva sulle spalle, poi si raddrizzò completamente e si diresse verso lo stanzino dove s'accumulavano le inutili cianfrusaglie.

Tardò un poco a scovare la vetusta macchina da scrivere, avvolta in una fodera che cadeva in pezzi. Se la portò in cucina, insieme a dei fogli che ingiallivano in un angolo. Strizzò gli occhi accendendo la luce. Chiuse la porta, così il ticchettio non avrebbe svegliato sua moglie e cominciò a scrivere, lottando con i vecchi tasti induriti dalla mancanza d'uso.

Desidero denunciare i fatti in cui partecipai durante il servizio militare nella Prima Unità del Reggimento di Cavalleria di Alcalá de Henares. Suddetta Unità fu destinata al territorio di Ciudad Real per compiere un'operazione denominata "inseguimento di fuggiaschi in montagna".
Questo accadeva nell'anno 1941, esattamente il 1º marzo.

La sera precedente li avevano avvertiti che all'alba avrebbero compiuto una "missione speciale".

Era ancora buio quando uscirono all'aperto. Il gelo gli schiaffeggiò la faccia. Mai aveva avvertito tanto freddo come in quei giorni. L'aria gelida s'infilava nella logora stoffa del cappotto, usato chissà da quant'altri, e nelle fessure degli stivali troppo grandi. Nel cortile li aspettava un camion con il motore già acceso.

Il percorso fu breve. Scesero in uno spiazzo presso il muro di cinta d'un cimitero. Si girò per schivare la luce dei fari e vide Pepe, l'andaluso, che lo salutò, sollevando le sopracciglia in un gesto d'interrogazione.

Stavano sbattendo i piedi a terra e parlando a bassa voce quando giunse, come un latrato, l'ordine di schierarsi.

Allora arrivarono, circondati da guardie e con le mani legate. Lui fissò lo sguardo su due uomini alti, molto seri. Uno dei due avvicinò la testa all'orecchio dell'altro, ma all'istante furono separati da uno spintone. Dietro di loro procedeva un prigioniero che non sollevava mai lo sguardo e ponendo un'attenzione esagerata a ogni passo.

Quando allinearono i prigionieri davanti al muro non ci fu più alcun dubbio sul perché erano stati costretti ad alzarsi così presto e poi ad arrivare fin lì, con quel freddo pungente, in uniforme e coi fucili con il colpo in canna.

Solo in quel momento si accorse di lui. Gli osservò la peluria giovanile sul labbro superiore, le folte sopracciglia, gli occhi... sì, quegli occhi fissi su di lui, sempre spalancati, con una serenità smentita dal tremore del mento. Il cappellano militare si interpose tra di loro dirigendosi verso i prigionieri. Uno degli uomini ammanettati fece un secco gesto di rifiuto, tirandosi indietro per quel poco che il muro gli consentiva.

La canna del fucile gli gelava la mano mentre obbediva meccanicamente all'ordine di puntamento. Sentì, più che il rumore, il rinculo del colpo alla spalla. Abbassò l'arma, concentrando lo sguardo sulla canna fumante.

Ascoltò, senza capirlo, il nuovo ordine, ma l'esitazione andò in frantumi al grido del sergente. Così prese anche lui una pala e seguì i compagni fino al muro, lì dove giacevano i corpi dei caduti. Si mise da un parte, il più lontano possibile, e lavorò con rabbia, scaricando tutta la forza in quella terra indurita dalla brina.

Nonostante il freddo aveva il viso ricoperto di sudore quando finirono di scavare quella fossa.

L'uomo che aveva respinto il sacerdote giaceva a faccia sotto. Pepe, allora, avrebbe voluto voltarlo prima di seppellirlo, ma il sergente glielo impedì.

- A quello lascialo così.

Pepe lo guardò, sorpreso. Provò a dire qualcosa, timidamente, però l'altro tagliò secco.

- Ti sto discendo che quell'ateo figlio di puttana devi seppellirlo così!

Quel giorno, la Sezione nella quale io ero inquadrato fu obbligata a compiere l'esecuzione di sette persone - tra le quali c'era un ragazzo di appena quindici anni - provenienti dal carcere penale di Almadén. Dopo quell'atto ripugnante ci obbligarono a scavare una fossa, all'entrata di quel cimitero, e fu lì che seppellimmo quei sette sventurati.

Cominciava a spuntare il sole quando finirono il lavoro. Poi, in silenzio, salirono sul camion.

Pepe si sedette al suo fianco, ghermendo il fucile con espressione assente. Da allora non lo sentì mai più ridere. Sempre più spesso lo vide perdersi nel mezzo d'una frase, o confondersi nei lavori più semplici, o sbagliare passo durante gli addestramenti e poi restarsene del tutto indifferente alle sfuriate dei capi. Finché un giorno sparì: Pepe non si presentò all'appello del mattino e invano lo cercarono ovunque. Dopo il trambusto iniziale nessuno ci tornò sopra e lui non venne mai a sapere se Pepe lo avevano riacciuffato.

Tante volte, negli anni che seguirono, mentre sopportava lo sguardo di quei giovani occhi, si era chiesto che fine avesse fatto il suo amico Pepe, e sperava che fosse sfuggito alla sorte riservata ai disertori.

Ho taciuto durante tutto questo tempo, sopportando in solitudine questo peso, ma credo che sia giunto il momento di raccontare tutto affinché, finalmente, i familiari delle vittime sappiano almeno dove si trovano i loro cari e possano dar loro una degna sepoltura.
Spero che possiate perdonare la mia partecipazione a quel crimine.

Cantò un gallo. La prima luce del mattino sfocava i bagliori della lampada a neon. L'uomo spense l'ultima sigaretta nel posacenere pieno di cicche e sfilò dalla macchina da scrivere il foglio di carta. Con quello in mano tornò in sala da pranzo. Cercò in due o tre cassetti fino a trovare una busta e un francobollo.

Si affacciò in camera da letto: sua moglie dormiva ancora.

Inserì la lettera nella busta e la intestò al sindaco del comune dove, cinquant'anni prima, aveva svolto il servizio militare. Attaccò il francobollo andando verso la porta di casa. Prima d'aprire prese il fucile da caccia riposto nell'apposito armadio dell'ingresso e lo caricò con due cartucce.

Uscì in strada e nel trambusto degli uccelli che celebravano il mattino rivide nella mente, per l'ultima volta, quegli occhi scuri. Sempre fissi nei suoi.



Francisco Goya, Il 3 maggio 1808


Traduzione dallo spagnolo di Alessio Brandolini

 

maite.perez@sgral.congreso.es