FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 6
aprile/giugno 2007

Scorie & Rifiuti

TERRE DESOLATE
II parte: "Apocalypsis cum figuris"

di Fabio Pedone


Per Andrea Zanzotto
"Ma nelle immondizie
              troverò tracce del sublime"
(A.Z., Altri 25 aprile)


Albrecht Dürer, I quattro cavalieri dell'Apocalisse (xilografia)

II. Distopia dell'oblio: il dopomondo di Auster

Eliot elaborò gran parte della Terra desolata nei due anni successivi alla morte del padre. Anche In the country of last things, il più anomalo e sottovalutato romanzo di Paul Auster, benché pubblicato nel 1987, a ridosso del successo dell'esordio con la Trilogia di New York, affonda le sue radici nella profonda crisi esistenziale dell'autore al momento della morte del padre (1979), con cui aveva un rapporto complesso e spesso molto tormentato. Chi ha letto Sbarcare il lunario e qualche intervista di Auster dedicata ai suoi esordi di narratore sa che diverse parti dei primi romanzi erano già nel cassetto dello scrittore nei primi anni Ottanta.

Anche qui c'è una terra moribonda e una 'città irreale', a metà fra eterotopia fantastica e rovina postatomica da science fiction classica. È una metropoli dominata da un'enigmatica forma progressiva di oblio e di decadenza, una New York suggerita con particolari inquietanti, a volte precisi e di immediata evidenza, e che a volte si stempera in altre città. Anna Blume arriva in città per cercare il fratello William, giornalista scomparso. Nella "Città della Distruzione" (come la chiama la citazione da Hawthorne in esergo al romanzo), «la vita come la conosciamo è finita, e tuttavia nessuno è capace di capire da cosa sia stata rimpiazzata». Dietro questo ammasso di rovine, relitto della civiltà dei consumi, si indovina una New York trasfigurata da un trauma futuro, governata da una misteriosa dittatura dopo un periodo di ribellioni popolari e affondata in una violenta lotta di tutti contro tutti; una città attanagliata da una follia di morte, dove l'umanità si divide in varie sette (che possono ricordare lo sguardo "etnografico" dei romanzi di Jack Vance o ancora il Dick di Follia per sette clan). Ci sono i Maratoneti, che corrono per le strade flagellandosi per morire il più in fretta possibile, i Saltatori (mistici del volo fatale), il Club dell'Assassinio, in cui ognuno può pagare il proprio sicario; i ricchi decidono di andare a morire nelle Cliniche dell'Eutanasia. I Sorridenti, invece, hanno elaborato una teoria secondo la quale il cattivo tempo è originato dai cattivi pensieri. Gli Striscianti traducono in comportamenti estremi la necessità di una penitenza. Morti i saperi condivisi, la città annega in un nuovo medioevo dominato dalla superstizione e dall'incertezza.

La città immaginaria rappresenta il capovolgimento apocalittico (dunque finale) della furente frenesia del consumismo, produttore di immense quantità di scarti e di rifiuti. La sequenza iniziale del romanzo, che nella sua totalità è una lunga lettera della protagonista Anna Blume, è all'insegna della mutabilità continua e della continua impermanenza di oggetti, persone e pensieri:

Queste sono le ultime cose. Una casa un giorno è lì e il giorno dopo è sparita. Una strada lungo la quale solo ieri camminavi, oggi non esiste più. Persino il tempo è in un flusso costante. [...] Quando vivi in città impari a non dare nulla per scontato. Chiudi gli occhi per un attimo, ti giri a guardare qualcos'altro e la cosa che era dinnanzi a te è sparita all'improvviso. Niente dura, vedi, neppure i pensieri dentro di te. E non devi sprecare tempo a cercarli. Quando una cosa sparisce, finisce.

(pag. 1)

Le strade della città irreale sono invase da mucchi di detriti e rifiuti, che diventano barricate per ladri e assassini. Bisogna essere in grado di cambiare strada, di cambiare progetto di istante in istante per sopravvivere. Gli sconvolgimenti climatici marcano il carattere apocalittico della città: le notti hanno come sfondo una sorta di risacca lamentosa, i giorni sono dominati da strane luminosità, che accecano e distorcono i colori; il sole sembra «consumare le cose su cui risplende»: nella fatiscenza delle strade e delle costruzioni, il ghiaccio e la pioggia, con repentini mutamenti meteorologici, acquistano lo status di eventi catastrofici. Nel fragore di esplosioni lontane, la città «sembra consumare se stessa». Per gli abitanti, di fronte ai pericoli dell'eventualità di una caduta, rimanere in piedi è la prima e vitale esigenza. Un passo dopo l'altro, senza spingersi più in là di un'intenzione momentanea: questa è la regola aurea. Il tempo cambia con una rapidità sconvolgente, e non c'è modo di prevederne i mutamenti:

E non devi prendere precauzioni solo per le superfici, il mondo su cui camminano i tuoi piedi, ma devi anche fare attenzione al gocciolio che viene dall'alto, all'acqua che cola dalle grondaie, e poi, ancora peggio, ai forti venti che spesso seguono le piogge, i fieri vortici d'aria che, sfiorando laghi e pozzanghere, ricacciano l'acqua verso l'atmosfera, sospingendola come piccoli spilli, come dardi che ti sferzano il viso e roteano tutt'intorno. Quando il vento soffia dopo un temporale, le persone sbattono le une contro le altre con maggior frequenza, per le strade scoppiano nuovi tumulti e tutta l'aria sembra carica di minacce.

(pag. 24)

Volessimo forzare la mano, ritroveremmo in questi brani la stessa atmosfera minacciosa di certi passaggi del Waste Land eliotiano, connotati dalla presenza della pioggia, che inaugura il poemetto. Non è questo il momento di indicare corrispondenze testuali precise, ma è un fatto che l'opera di Eliot è un esplicito riferimento per il Paese delle ultime cose. Ponendo in opera (al quadrato) la poetica del riciclaggio già utilizzata da Eliot, il romanzo postmoderno di Paul Auster utilizza il poemetto come serbatoio di immagini, temi e situazioni da reinventare e riprodurre nel testo. Uno dei passaggi centrali per l'interpretazione di Eliot era «I can connect / nothing with nothing»; in Auster, subito dopo il brano citato ritorna lo stesso pensiero: «Correlare una cosa a un'altra, fare connessioni tra una nube al pomeriggio e un vento che soffia la sera: queste cose portano solo alla pazzia». Sulla base di questa ed altre frasi, è stato detto che il romanzo di Auster pare anche rimandare allo scollamento gnoseologico analizzato da Foucault in Le parole e le cose: tra nome e oggetto non c'è più la consequenzialità garantita dalla 'rappresentazione', e l'organizzazione del sapere fondata sulla somiglianza va in crisi. Le cose scompaiono, in questo mondo invaso da una consunzione assoluta, presto seguite dal loro ricordo e dalle parole che le nominano, creando spaventosi problemi di comunicazione, perché nessuno dimentica mai la stessa cosa. La popolazione si aggira allucinata per le strade sconvolte, vestita di stracci e giornali. L'entropia e la fame divorano ogni cosa, ciononostante forme di vita e di energia continuano a persistere. Degli oggetti del mondo com'era è rimasto ben poco, dopo la fine del ciclo produttivo, dunque i sopravvissuti si organizzano: il riciclaggio dei rifiuti è un'ancora di salvezza. Gli escrementi sono diventati le principali fonti di energia. I rifiuti sono caricati sui carrelli della spesa e trasportati nelle centrali elettriche. Alla stregua di rifiuti sono trattati i cadaveri, che devono essere consegnati ai Centri di trasformazione (e nella percezione del lettore nascono terribili paralleli con i forni crematori del Terzo Reich). Chi non raccoglie immondizia può diventare un Cercatore d'oggetti: non solo va alla ricerca di rifiuti, ma cerca anche di recuperarli. Il ciarpame viene venduto a dei mediatori (gli Agenti restauratori) che lo riabilitano rendendolo di nuovo "appetibile". Furbizia e rapidità sono le virtù cardinali del cercatore d'oggetti; Anna lo diventa, per soravvivere, e il caso è il suo unico metodo per ritrovare e riportare in vita coacervi di cianfrusaglie in modo assolutamente moderno: rifunzionalizzando i loro "pezzi" separati.

Perché niente è più quello che è. Vi sono pezzi di questo e pezzi di quello, ma nessuno si incastra con l'altro. Eppure, molto stranamente, al limite di tutto questo caos, ogni cosa comincia a fondersi di nuovo. Una mela e un'arancia polverizzate sono alla fine la stessa cosa, non è forse così? Non puoi trovare differenza fra un abito ben fatto e uno malfatto se sono entrambi ridotti a brandelli, giusto? A un certo punto le cose si disintegrano in sozzura, polvere o rottami, e quanto rimane è qualcosa di nuovo, qualche particella o agglomerato di materia che non si riesce più a identificare. Rimane un pezzetto, un granello, un frammento del mondo che non c'è: un nulla, una cifra di infinito. Un cercatore d'oggetti deve salvare queste cose prima che raggiungano lo stato di assoluta rovina. Non devi mai aspettarti di trovare qualcosa di intero - e se capita è un caso, un errore da parte di chi lo ha perduto -, tuttavia non puoi neanche passare il tempo a cercare qualcosa che è stato completamente sfruttato. Oscilli un po' tra le due cose, alla ricerca di oggetti che ancora mantengano un qualche aspetto della loro forma originale, anche se la loro originaria utilità è svanita.

(pag. 33-34)

Cacciatrice di oggetti nelle strade della città, Anna li piega a un nuovo uso. I romanzi di Auster non mancano di personaggi che fanno pratica di "collezionismo", e oltre ad Anna potremo ricordare Peter Stillman in Città di vetro, il primo libro della Trilogia di New York, ricco di consonanze con il romanzo che ci interessa (soprattutto nelle riflessioni sul linguaggio). Nel suo enigmatico e apparentemente inane percorso per le vie della città, Stillman raccoglie oggetti come «un archeologo che ispeziona dei cocci in un sito preistorico», oggetti «privi di valore. Sembravano soltanto cose rotte, abbandonate, pezzi di ciarpame».
Così fa anche Anna Blume, cui dopo un primo fallimentare tentativo di rintracciare il fratello, il caso offre un incontro inaspettato: una vecchia cercatrice d'oggetti che si chiama Isabel e convive con il marito Ferdinand, il quale resta tutto il giorno chiuso in casa e costruisce navi in miniatura (sempre più piccole) con scarti, rifiuti tra i più ignobili e resti biologici, soprattutto ossa di topo. Qui torna un dato essenziale nel poemetto di Eliot:

Io penso che stiamo nel vicolo dei topi
Dove i morti hanno perso le loro ossa

(La terra desolata, vv. 115-116)

Bianchi corpi nudi sul terreno basso e umido,
E ossa gettate in un piccolo solaio basso e arido,
Fatte scrocchiare dal piede del topo soltanto, anno dopo anno.

(vv. 193-195)

Il solaio, ambiente citato in un momento cruciale del Waste Land, e proprio in connessione con le immagini del topo e delle ossa, nel Paese delle ultime cose è legato alla morte di Ferdinand: da lì Anna e Isabel ne getteranno il cadavere, fingendo che appartenga alla setta dei Saltatori.

Il disgusto cosmico, i furiosi insulti e la sgradevole apparenza di Ferdinand così come Auster lo descrive hanno condotto qualche recensore a ipotizzare una connessione con Céline; ma non c'è dubbio che nel suo atteggiamento di superomismo straccione converga anche la suggestione del personaggio di Kurtz in Cuore di tenebra di Conrad, magari filtrato da Apocalypse Now: come il messaggio finale di Kurtz era "sterminateli tutti", così Ferdinand si abbandona a violenti scatti d'ira: «Schiacciateli tutti, - diceva senza riflettere. - Schiacciateli tutti e disperdete la polvere. Porci, tutti, dal primo all'ultimo!». Sappiamo che Cuore di tenebra è uno dei riferimenti costanti dietro l'opera di Eliot, al punto che in origine - prima dell'intervento di Pound - l'esergo del poemetto sarebbe dovuto essere proprio un diretto prelievo testuale da Conrad con la sequenza della morte di Kurtz.
Ma ecco come Ferdinand interpreta il proprio collezionismo:

Prendeva il topo per la coda e poi, molto metodicamente, lo arrostiva sul fuoco della stufa. Era una cosa terribile a vedersi, con il topo che si contorceva e squittiva con tutte le sue forze, ma Ferdinand rimaneva impassibile, completamente preso da quanto stava facendo, borbottando e ridacchiando fra sé e sé sulle gioie del pasto. - Un banchetto di prima mattina per il capitano, - annunciava quando l'arrosto era pronto, e poi, con la bava alla bocca e un ghigno demoniaco in viso, divorava la creatura con il pelo e tutto, sputando fuori con cura le ossa. Le metteva poi a seccare sul davanzale della finestra, e alla fine sarebbero state utilizzate come pezzi per una delle sue navi, come alberi, aste per le bandiere o fiocine. Una volta, ricordo, mise da parte un gruppo di costole e le utilizzò come remi per una galera. Un'altra volta, utilizzò il cranio di un topo come polena e lo attaccò alla prua di una goletta pirata. Era un piccolo capolavoro, devo ammetterlo, anche se provavo ribrezzo a guardarla.

(pag. 50)

Le caravelle di Ferdinand e Isabel (nomi dei Reali di Spagna) rendono Anna Blume la parodia di un Colombo precipitato in un mondo al collasso, che rovescia il mito dell'America come Nuovo Eden; quello stesso mito che il protagonista di Città di vetro aveva trovato descritto nell'opuscolo del misterioso Henry Dark. Questa è la sanzione definitiva per interpretare la città delle ultime cose come un'ennesima Babele.

Le parti centrali del romanzo raccontano gli intrecci di caso e coincidenze che conducono Anna, in fuga dalla polizia, a rifugiarsi in un edificio sconosciuto: è la Biblioteca Nazionale, ormai in sfacelo, dove incontra Samuel Farr (sostituto di suo fratello al giornale) che sta tentando di realizzare un libro sulla città moribonda, con interviste e documenti. È un tentativo in palese controtendenza con la dissoluzione della cultura a cui la città va incontro. Nella biblioteca ridotta ad un ammasso di volumi ammuffiti e in disordine, i libri vengono usati per accendere il fuoco e la sintesi più autentica della crisi è nelle parole di un rabbino incontrato da Anna: «Dopo tutto, ci sono cose più importanti dei libri. Il cibo viene prima delle preghiere». In queste pagine Auster inscena una apocalittica meditazione sullo statuto del sapere alla fine di un'epoca.

Anna si innamora di Samuel Farr e lo aiuta nella composizione del suo libro. Ma viene attirata in un tranello da un gruppo di macellai di carne umana; cade da una finestra; si risveglia in una clinica, forse l'ultima rimasta in quel mondo al crepuscolo: Casa Woburn, che è la scena dell'ultima sezione di Nel paese delle ultime cose. È un'enclave di civiltà nella distruzione. Dopo la guarigione Anna comincerà a lavorare nella clinica e incontrerà di nuovo Samuel, da lei fino allora creduto morto nell'incendio che ha distrutto la biblioteca. Nell'ultima parte del romanzo la presenza di Eliot si fa più intensa, coagulandosi in una serie di rimandi espliciti. Ma prima appare un curioso e dubbio personaggio di "collezionista", Boris Stepanovich. Il riciclaggio viene da lui estetizzato in maniera pubblicitaria. Oggetti carichi di passato, di cui l'essenziale è che siano sottratti alla loro funzione, affollano la sua casa-bazar in un modo che ricorda l'atelier di un grande 'assembleur', Joseph Cornell, ed ha un parallelo nella collezione di Flower, personaggio di un altro romanzo di Auster, La musica del caso. Citeremo solo di sfuggita questo museo privato che è «un monumento alla banalità», pieno di oggetti di un valore così minimo da apparire, in un primo tempo, nient'altro che ridicolo. Flower cova un orgoglio tutto collezionistico nell'affastellare oggetti che esprimono una radiance derivata direttamente dal loro proprietario: c'è la macchina da scrivere del presidente Wilson, una matita di Enrico Fermi, addirittura una cicca di sigaro di Churchill. Sono «frammenti, memorie minime, granelli di polvere che si sono infilati nelle crepe». Nashe, protagonista della Musica del Caso, ignora il potere della personalità e viene travolto dal fascino degli oggetti semplicemente in quanto oggetti: «Il fascino risiedeva solo negli oggetti in quanto cose materiali, e nel modo in cui erano stati strappati via da ogni possibile contesto, condannati da Flower a continuare a esistere senza alcuna ragione: defunti, privi di scopo, soli in se stessi ormai per il resto del tempo».

L'orgoglio di Flower è lo stesso di Boris, che nel Paese delle ultime cose assicura a Casa Woburn l'approvvigionamento di generi di prima necessità, e in cambio porta via, un pezzo alla volta, il multiforme patrimonio di oggetti del passato ammassati nelle stanze del quarto piano.

Boris Stepanovich era un tipo paffutello di mezza età che sembrava quasi grasso per gli standard della città. Amava gli abiti sgargianti (cappelli di pelo, bastoni da passeggio, boutonnière), e sul suo viso rotondo e coriaceo c'era qualcosa che mi ricordava un capo indiano o un sovrano orientale. Qualunque cosa facesse, recava un tocco di stile, persino il modo in cui fumava le sigarette - tenendole ben strette tra l'indice e il pollice, inalando il fumo con raffinata noncuranza e poi espirandolo dalle narici massicce come vapore da un bollitore.

(pag. 130)

Boris usa il linguaggio come strumento per sfuggire all'interlocutore, tramite dichiarazioni oscure e ellittiche e improvvisi cambi di rotta. È un Proteo che racconta ogni giorno una storia diversa di sé, che ha fatto un'improbabile accozzaglia di mestieri, e con le sue parole illusorie crea «un mondo più piacevole per sé», sottratto alle dure leggi del mondo condiviso dagli altri, riuscendo a galleggiare con allegro disincanto sulle circostanze. Piccolo, squallido, l'appartamento di Boris è un bazar oppresso da decenni di costante accumulo di oggetti, in particolare cappelli, passati in rassegna in un eloquente elenco.

È sull'uso di una «lingua ormai morta» composta di frasi fatte e citazioni letterarie che Boris fonda il suo successo nel piazzare la merce. Siamo di fronte all'antitesi del Cercatore d'oggetti. La filosofia di vendita di Boris è feticistica, si basa sul caricare gli oggetti della forza del passato, suscitandone i fantasmi, evidenziandoli come unici frammenti di un tutto che si è perduto. Sembra uno dei personaggi della vecchia "societè" dai nomi inverosimili che fanno capolino in poesie come Gerontion di Eliot.

Il trucco, secondo me, era tutto nella sua abilità a dare vita alle cose inerti. Boris Stepanovich allontanava i Restauratori dagli oggetti, attirandoli in un regno dove la cosa in vendita non era più la tazza da tè ma la stessa contessa Oblomov.

(pag. 135)

In seguito Anna riconosce Samuel Farr in uno dei postulanti che vengono a chiedere di essere ammessi nella casa. Una volta ripresosi, Sam si trasformerà in medico di Casa Woburn, stimolando così la fiducia dei convalescenti che cominciano a raccontargli le loro storie. L'accesso al racconto ha bisogno di un travestimento:

È meglio non dover essere me stesso, - mi disse una volta. - Se non avessi quell'altra persona dietro cui nascondermi, quella che indossa il camice bianco e un'espressione comprensiva in faccia, non credo che potrei reggere. I racconti mi schiaccerebbero. Adesso invece ho un modo per ascoltarli, per collocarli dove appartengono - accanto alla mia storia, storia dell'io che non devo più essere finché continuo ad ascoltarli.

(pag. 150)

Il discorso di Sam potrebbe apparire come una personale declinazione dell'impersonalità eliotiana, tesa a "parlare nella voce altrui". Siamo nella zona del romanzo più densa di richiami al Waste Land. Nel capoverso successivo si ha una citazione esplicita dell'incipit: la primavera è arrivata presto, i crochi sono sbocciati in giardino e «l'erba germogliante si mescolava al fango rinsecchito» (ricalcando le coppie oppositive di lillà e terra morta, memoria e desiderio, spente radici e pioggia di primavera che ritroviamo in Eliot). In questa parte finale del libro un'immagine mitica del poemetto ritorna anche quando muore il vecchio Frick e, per non pagare la salata multa per chi non porta i cadaveri nel Centro di Trasformazione, si decide di seppellirlo nel giardino, con un netto richiamo al seppellimento dell'icona del dio cui si rifà la Terra desolata. Quando la polizia darà ordine di disseppellire il cadavere, il labile equilibrio delle cose sarà definitivamente distrutto, e giungerà al suo culmine quell'escalation di violenza e repressione che fa emergere l'inferno sulla terra della città morente.

La storia di Anna non conclude, «la fine è solo immaginaria»: partita con la missione di ritrovare il fratello, Anna non la porta a termine e si ritrova invischiata nella nuova situazione che il caso le ha offerto. Questa favola del futuro parla in realtà di un'angoscia tutta contemporanea e tutta nostra; e chi ha la tentazione di decodificare i 'nomi parlanti' potrà vedere dietro l'ebraismo di Anna Blume - che continua a scrivere sotto la minaccia del proprio stesso annientamento - sia un rimando ad Anna Frank, sia (nel cognome che in tedesco significa "fiore") un riferimento ai miti di generazione simboleggiati nell'incipit della Terra desolata dalla «ragazza dei giacinti».

Il libro si chiude con la fuga di Anna e degli abitanti di Casa Woburn verso le terre incognite che circondano la città, mentre la pressione di enigmatici assedi rende insostenibile una sopravvivenza. Prima della fuga, Anna finisce di scrivere la sua lettera all'amico d'infanzia in cucina, in una situazione che ricalca quella di Gerontion: «Adesso è notte fonda e il vento soffia tra le crepe della casa» (pag. 167). Di fronte all'imprevedibile, l'unica speranza è di vivere ancora un giorno in più, e scrivere ancora.



Da Apocalypse now di Francis Ford Coppola


III. Da mosaico di rovine a mercato di ciarpame: l'aldilà di Kubin

L'incubo distopico di Auster, proiettato in un futuro obliquo, ci riporta però anche indietro nel tempo, e precisamente agli inizi del XX secolo. L'altra parte di Alfred Kubin è un'opera singolarissima, definita da Roberto Calasso «esempio di fantastico allo stato chimicamente puro»; un romanzo senza il quale non sarebbe pensabile Kafka come lo conosciamo. L'ambiente che fa da sfondo all'unico romanzo scritto da questo pittore (per cui l'aggettivo "visionario" non è affatto di circostanza) e pubblicato nel 1909, è una città fantastica chiamata Perla, un mosaico di ruderi, di antichità, di avanzi decrepiti e corrosi del passato, prelevati da tutti gli angoli del mondo. Ma dietro Perla si intravede Praga, trasfigurata dalla potente deformazione che la rende la capitale di un "Mondo del Sogno'"che è lo stato personale di un enigmatico ed elusivo dittatore, Klaus Patera. Il quale ha convocato a Perla tutti gli oggetti dimenticati, passati di moda, relegati nelle soffitte: la città è una scena teatrale composta di fatiscenti case, costumi obsoleti, tecnologie arretrate, secondo le suggestioni di una "poesia del banale" e delle cose comuni che ha molteplici connessioni sia con alcuni tratti del simbolismo europeo sia con i fermenti destinati a sfociare nelle avanguardie artistiche del primo '900. Gli abitanti sfoggiano crinoline e panciotti di metà Ottocento come in una mascherata alla Ensor, e il magnetismo delle case è tanto potente che a volte sembrano loro i veri individui. Il clima contra naturam è ancora una volta il dato essenziale che muove la rappresentazione verso l'ordine apocalittico: Perla è immersa in un crepuscolo costante, in una nebbia perenne e in un caratteristico odore. Perla è affondata in un incantesimo di decomposizione, di corrosione: emanazione diretta del potere spettrale e invasivo di Patera. Così ne scriveva Angelo Maria Ripellino recensendo quella "apocalisse in stile liberty" che è La nube purpurea di M.P.Shiel:

Il terrore si propaga per vie olfattive. Penso ai miasmi di vecchie robe stantie e di cianfrusaglie muffite, «sottile miscuglio di farina e di stoccafisso secco», che esalano dalle strade di Perla [...]. La demonìa si insinua con una crescente progressione di tanfi [...].

(Nel giallo dello schedario, pag. 66)

"Demonìa", parola magnetica per l'esuberante mistagogo, il cercatore di nomenclature di Praga magica. E infatti troveremo la città di Kubin anche in quel baedeker barocco ad uso dei fantasmi:

città fradicia, stigia, tinta in berrettino e come avvolta di funebre crespo e più vecchia della sibilla, è un facsìmile di Malà Strana. [...] La nebbia solcata da gialli guizzi di deboli fiammelle a gas, l'aria tórbida e smorta, il fiume Negro, sul quale essa sorge, scuro come l'inchiostro, i fastellacci di case decrepite e l'epidemia di sonnolenza che assale senza pietà i suoi abitanti avvicinano questa opaca metròpoli di letarghiti, misto di fiochi riverberi senza alcun primo lume, alla Praga luttuosa del Dopo-Montagna-Bianca.

(Praga magica, pag. 204)

Quel lezzo e quel marciume sono correlativi dell'angoscia ispirata a Kubin da Praga, nonché - sul piano storico - del disfacimento della finis Austriae. È lo stesso Kubin, nel medesimo scritto autobiografico in cui illustra anche il proprio difficile rapporto con il padre, a parlare della genesi de L'altra parte connettendola alla crisi da lui attraversata dopo la morte del genitore (1907), e precipitata in una assoluta incapacità di disegnare, malgrado la «grande volontà di lavoro» che avvertiva dentro di sé.

Per fare almeno qualche cosa e trovare un sollievo, cominciai a immaginare e scrivere io stesso una storia d'avventure. Ora le idee mi affluirono al cervello in torrenziale pienezza, spingendomi giorno e notte al lavoro, tanto che in dodici settimane il mio romanzo fantastico L'altra parte fu bell'e terminato. Nelle quattro settimane successive ne disegnai le illustrazioni. Ma subito dopo caddi in preda a uno stato di esaurimento e di nervosismo, e cominciai ad angustiarmi per questa rischiosa impresa.

(Demoni e visioni notturne, pag. 52)

Il romanzo rappresenta dunque «il punto cruciale di uno sviluppo psichico», pervenuto alla certezza che i più alti valori della vita si celassero nelle cose comuni e disadorne dell'esistere quotidiano, cariche di misteri. Gli stessi in cui opera quella «vita universale» che muove le creature animali così come le cose inanimate.

Ma il rovescio del sogno ha contorni sinistri: nella irreale controfigura di Praga sorta dalle ossessioni di Kubin, tutto è vecchio, ossidato; la città, immersa in un grigiore perenne, è un autentico museo di anticaglie, un «Eldorado per collezionisti» in cui tra un mucchio di letterali porcherie è possibile rintracciare capolavori d'arte e di decorazione. Le opere d'arte sono però valutate soprattutto come oggetti d'uso. Gli artigiani di Perla non fanno che restaurare e rattoppare la valanga di oggetti desueti che arriva da tutto il mondo. L'esito estetico di questa città-soffitta è il patchwork di stili e di epoche nelle case e nei palazzi. Blocchi di civiltà diverse si sovrappongono e concrescono in uno straordinario disordine, appollaiati gli uni sugli altri. Eppure tutto questo esprime una poesia dello squallore non disgiunta da una certa dose d'inquietudine. Il romanzo in cui Auster immagina un mondo alla fine sarà dominato dalla perdita della memoria; in Kubin invece la memoria è un'ossessione, Perla è un mucchio di memorie inutili, lo stesso sovrano Patera ha una memoria prodigiosa.

Curiosa è l'ideologia della popolazione di questo mondo onirico, che venera come sacri alcuni oggetti ed elementi tra i più comuni (fra cui pane, formaggio, pigne, fieno, persino il letame degli animali) e considera pericolose le leghe metalliche e i prodotti dell'industria. Nonostante la vita sia apparentemente monotona, non si può mai essere certi di nulla a Perla, e ogni momento può portare un evento imprevisto.

Il protagonista del romanzo, trasparente controfigura dell'autore, è stato invitato nel Mondo del Sogno dallo stesso sovrano Patera; incontri e avvenimenti successivi lo precipiteranno in una discesa agli inferi faccia a faccia con le proprie allucinazioni e con i mostri dell'inconscio.
Una delle quali è apocalittica in un senso ulteriore, perché, nel momento in cui il protagonista si smarrisce in un sotterraneo, e viene investito da brividi d'angoscia, porta nel romanzo proprio uno dei cavalli che figurano nel libro neotestamentario.

Qualcosa si avvicinava all'impazzata, un vento gelido m'investì, e scorsi un cavallo bianco, ridotto a pelle e ossa. Per quanto lo vedessi solo confusamente, non potei fare a meno di notare il suo stato spaventoso. Il grosso ronzino era quasi morto di fame e buttava avanti gli zoccoli enormi con forza disperata. Il capo ossuto tutto proteso, le orecchie appiattite, così mi sfrecciò davanti quella bestia. Il suo sguardo torbido, spento, incontrò il mio: era cieco. Udii lo scricchiolio dei suoi denti, e quando mi voltai, rabbrividendo, a guardarlo vidi luccicare la groppa sanguinante, coperta di piaghe. Il galoppo folle di quello scheletro vivente non conosceva sosta.

(pag. 104)

Sarebbe superfluo riportare il brano dell'Apocalisse di Giovanni con i Quattro Cavalieri. Il cavallo è figura esplicita del morbo di decadenza che invade Perla, e che proviene direttamente dal suo sovrano Klaus Patera, la cui sembianza è disseminata ovunque, e che sembra detenere un controllo mentale assoluto su quella realtà artificiale, ridotta ad emanazione della sua persona (il protagonista riconosce i suoi negli occhi di una vecchia mendicante e perfino della bella Melitta). Gli abitanti non sono che burattini in balia del suo potere psichico. Addolorato, spossato, ma in grado di ipnotizzare chiunque, il sovrano Patera è in tutto e per tutto uno spettro: un golem-fantoccio, un'apparizione onirica e polimorfa, il mutamento fatto persona, ma anche un re disperato che ha «edificato un regno sulle rovine dei suoi possedimenti». Chi ne avrà voglia potrà andare a fondo nell'analisi e nella psicoanalisi di questa figura fantastica, ma tenendo ben presente che - come ha evidenziato Giacomo Debenedetti - malgrado i suoi vivi contatti con le avanguardie e le più avanzate proposte artistiche del suo tempo, Kubin a quest'altezza era fondamentalmente un isolato e si rese conto solo a posteriori di essere vissuto nell'epoca di Freud. Ciò non toglie che L'altra parte offre al lettore spettacolari emersioni di ciò che negli anni della sua apparizione si andava definendo e specificando come "inconscio".

Abbiamo visto i collezionisti nei romanzi di Auster. C'è una curiosa figura di collezionista anche ne L'altra parte: il professor Korntheur, zoologo che ha esasperato fino all'estremo del grottesco la sacertà delle "piccole cose" di cui è impregnata l'aria di Perla.

Bisogna accontentarsi, anche le piccole cose possono procurare delle gioie. Io per esempio faccio collezione di pidocchi, pidocchi dei libri. - I suoi occhi si iluminarono, ed egli proseguì vivacemente, con un sorriso misterioso: - Sono sulle tracce di una nuova specie. Sì, l'Archivio contiene delle meraviglie di cui ben pochi hanno idea. [...]

(pag. 109)

La fissazione per il sapere (un sapere iperspecialistico, micragnosamente erudito, infine inutile) è satireggiata in più occasioni da Kubin, e soprattutto nel personaggio del barbiere filosofo, che si riempie la bocca di metafisica ed ha come aiutante uno scimpanzè cui cerca di insegnare la filosofia.
Perla è circondata da paludi invalicabili, e alle sue porte ha un sobborgo in cui sono confinati gli originari abitanti del Regno del sogno: Kubin li ritrae quasi come dei gimnosofisti indiani, la cui vita si svolge nell'ozio contemplativo, quello che permette di vedere, per dirla con Blake, «un mondo in un granello di sabbia» e perdersi nell'anima mundi.


James Ensor: La morte insegue
una folla di mortali
La situazione apocalittica del romanzo precipita con l'arrivo in città di Hercules Bell (altro nome parlante), che sintetizza la tensione verso il progresso e l'inarrestabile pragmatismo occidentale, di contro al disfacimento simboleggiato da Patera. Hercules sobilla gli abitanti contro il sovrano, e in seguito la città viene invasa da una «epidermica sonnolenza» (Ripellino). A questa, in una progressione sempre più accentuata, si succederanno l'invasione degli animali e un misterioso morbo che fa marcire e dissolvere ogni cosa, accelerando il decadimento degli oggetti. L'incubo è completo, e le visioni di Kubin diventano se possibile ancora più oniriche, deformanti e crudeli. Ben presto Perla si muta in un inferno sulla terra, un caos da giorno del giudizio, una discarica di rifiuti e cadaveri in fiamme, e tra orge e assassinii il romanzo attraversa intense visioni cosmogoniche per chiudersi con il riconoscimento della sostanziale unità dei due princìpi in conflitto (Bell e Patera), e della contraddittorietà di ogni slancio umano, tradotta in una frase che sembra provenire direttamente dalla terra del dormiveglia: «Il Demiurgo è un ibrido». Patera si metamorfosa in fantoccio e poi cadavere, e diventa infine rifiuto: un fagotto abbandonato in un angolo, una fragile reliquia rattrappita e contorta.

Uno dei passi più illuminanti de L'altra parte è la descrizione dei disegni che il protagonista esegue dopo la morte della moglie; i più innovativi sono detti "psicografie", e somigliano molto al corpus di 48 disegni a penna, dai tratti fitti e frenetici, con cui Kubin illustrò il proprio romanzo. Ma dirigiamo l'attenzione sul paesaggio.

Studiavo con attenzione la poesia dei cortili ammuffiti, delle mansarde recondite, delle ombrose stanze interne, delle polverose scale a chiocciola, dei giardini inselvatichiti e invasi dalle ortiche, i colori pallidi dei tetti di tegole e di legno, i fumaioli neri e la moltitudine dei bizzarri comignoli. Continuai a variare in maniera sempre nuova l'unico melanconico tono dominante, la miseria della solitudine e la lotta con l'incomprensibile..

(pag. 147)

È lo sfondo irrinunciabile e crepuscolare della flânerie nella poesia oggettuale di una città-rifiuto, il sortilegio di una città-mercato di ciarpame e cianfrusaglie il cui fascino rimanda a Praga così come l'ha memorabilmente descritta Ripellino:

Praga magica: ricettacolo e armadio di rottami e di oggetti stantii, di vecchi arnesi inquietanti, assemblage di detriti, immenso tandlmark, mercato di ciarpe e cianfrusaglie. [...] Da un groviglio di baracche rivenduglioli e arcadori urlavano a gara, offrendo all'udienza scarpacce, monete d'oro e d'argento, orologi, cappelli, pugnali, pappagalli, gabbie di canarini, utensìli domestici, antiche bibbie, incunàboli, libri, pellicce e palandrane. [...] Benché pochi segni ne siano rimasti, nella sostanza di Praga perdura il brulichìo, il sortilegio del vecchio tandlmark.

(Praga magica, pagg. 258-259)

La città è un autentico "cafarnao" in cui l'accozzaglia di oggetti eterogenei, decrepiti e disparati provoca uno choc di altro tipo rispetto a quello del sublime classicamente inteso. È il sublime "triviale", quel sublime "all'altezza della vita" che ha cominciato ad abitare i romanzi a partire da Puskin e Balzac (come si può vedere dalla vasta rassegna analitica compiuta da Orlando ne Gli oggetti desueti), da cui si irradia quell'aura che affascinava i collezionisti descritti da Benjamin (come Eduard Fuchs), il cui orgoglio di possedere tutto e raccogliere tutto era radicato in un titanismo tipico della generazione francese del 1830. Per esso gli escrementi, gli oggetti penosi e degradati che la coscienza reale disprezza, sono riscattati in letteratura e originano piena euforia estetica.

Basterebbe considerare un romanzo come Ferragus di Balzac (prima parte della Storia dei Tredici) per capire come e con quale innovativo effetto estetico lo scrittore sfruttasse persino la descrizione dei tubi di piombo che si arrampicano sui muri di case costruite l'una addosso all'altra senza progetto in uno squallido quartiere di Parigi, o l'elenco delle cianfrusaglie dozzinali nella cameretta di una vecchia sarta. E siamo, appunto, nel 1830: alle radici dell'ascesa della borghesia e del definirsi dell'industria di produzione moderna, con il feticismo della merce; alle radici della figura del flâneur analizzata da Benjamin nel Passagenwerk.


IV. Per finire: "rancidi feticci" come esorcismi contro il nulla

Malgrado tutto parli di disordine abbiamo cercato di "connettere", tirando fuori non certo un metodo, ma almeno un'intenzione dal montaggio citazionale di Eliot e dalla devozione al caso mostrata dai cacciatori di oggetti della città di Auster. La triangolazione fra le "terre desolate" qui abbozzata è giocoforza incurante dei nessi temporali ma non delle affinità di aura, delle simpatie tra opere abissalmente diverse eppure accomunate da alcuni tratti. Sono tre atti di scrittura liberatori e verrebbe da dire terapeutici per i propri autori, tre città trasfigurate nel sogno, tre aldilà letterari, tre altrove che alludono al presente per speculum in aenigmate, in cui il clima stravolto (fra violente tempeste, aridità e perenne crepuscolo) è essenziale per definire l'atmosfera apocalittica; e questo avviene perché la fogna rappresenta la resa dei conti tra natura e cultura, il momento in cui il rimosso torna a galla e reclama i suoi diritti di fronte alla coscienza vigile e repressa.

Ne risulta una peregrinazione in città-rifiuto ingombre di oggetti scompagnati, immagini rotte, ciarpame, resti di un vecchio mondo collassato. Francesco Orlando include Eliot nel suo inventario di reliquie nella letteratura annettendone le immagini alla categoria del "desolato-sconnesso"; con questa definizione lo studioso si riferisce a oggetti privi di motivazioni affettive e di origini reperibili in una storia personale, «cose non funzionali che non equivalgono affatto a ricordi: ne troveremmo occasioni numerose in The Waste Land e in tutta la prima opera poetica dello stesso Eliot, metaforiche oscuramente e sordidamente, a metà strada fra l'allucinazione e il mito.» (pag. 153).

Se la New York futura di Auster è postuma a misteriosi rivolgimenti politici, la Praga di Kubin sa di soffitta, con tutta la fascinazione perversa di una premodernità contaminata da sarcasmi circensi e malinconie gotiche. Ma soprattutto, siamo di fronte a tre discese agli inferi che proiettano una luce di minaccia sul nostro mondo, anticipando cosa potrebbe diventare o è già diventato.

Lo statuto singolare degli oggetti e il loro rapporto con la fine di una memoria sistematica e sancita storicamente ha un ruolo centrale nel renderli quasi dei protagonisti in alcune parti di queste opere. Ciò grazie a tre autori "collezionisti" sebbene in modo molto diverso: Eliot esibisce il naufragio di una cultura ma ne addita anche la segreta essenza-consistenza, Auster imposta una archeologia del presente e gioca con i dettagli di oggetti estromessi dalla storia da un trauma violento, spiandone lo sfaldarsi e la trasformazione, mentre gli oggetti di Kubin sono semplicemente appassiti, relegati in un grigio mondo laterale, in una fantasticheria crepuscolare dai contorni inquietanti. Ma terra desolata significa anche terra ferita: il termine della civiltà come spossamento. Qui sta il punto di convergenza delle diverse identificazioni. Qui c'è un pensiero della fine. La fine di un'epoca (che sia l'impero austroungarico, la vecchia aristocrazia europea o la società dei consumi) trova nei rifiuti la chiave per accedere alla categoria dell'apocalisse: in queste città-discarica il collezionista vecchio stampo tenta di preservare il pregresso sistema della memoria sottraendo l'oggetto al suo valore d'uso originario, all'insieme delle sue relazioni funzionali (secondo la visione di Benjamin nel Passagenwerk): il repertorio degli oggetti accumulati dal collezionista nella sua resistenza alla dispersione diventa «un'enciclopedia magica, un ordine universale» in cui ogni oggetto esprime il destino che egli, come un fisiognomico delle cose, ha saputo divinare nella sua contemplazione. «Materia in rovina: è l'innalzamento della merce allo stato di allegoria. Carattere di feticcio della merce e allegoria» (pag. 217). «L'allegorista costituisce in un certo senso l'antipodo del collezionista: ha rinunciato a far luce nelle cose attraverso la ricerca di ciò che a esse sarebbe in qualche modo affine e omogeneo, le scioglie dal loro contesto e rimette fin da principio alla propria accorta profondità il compito di illuminare il loro significato.» (pag. 222).

Ma un buon uso delle rovine prevede un ulteriore passo in avanti: serve piuttosto che i disiecta membra siano intesi come nuove totalità, dotati di un nuovo destino, e riuniti in assemblaggi inusitati dove il frammento 'povero' acquista la massima valenza. Questa prospettiva emerge dal Bazar archeologico, il saggio conclusivo di Finzioni occidentali di Gianni Celati, ricco di stimoli fondamentali per chi indaghi in quest'ambito. L'uso del frammento residuale, dimenticato, definisce la modernità come 'percezione straniata', in cui il collezionare oggetti è un flusso eteroclito, un bric-à-brac, non un sistema storico. È l'oggetto stesso la guida verso il repertorio casuale del rimosso storico, non un contesto o un ordine esterno. Attraverso le reliquie, la modernità rivolge su se stessa uno sguardo archeologico. Il frammento archeologico, cioè privo delle sue motivazioni originarie, è Altro, è 'differenza pura', non semplice negazione dell'identità, e tramite la sua singolarità indica la possibilità di una storia alternativa, molecolare non monumentale, che si può attraversare secondo la capricciosa disponibilità di un'onirica flânerie fra scarti e detriti. Ma c'è di più, ed è ciò che più conta ai fini del nostro percorso: «L'oggetto perduto, il frammento che non può ricondurci all'unità originaria di un disegno, introduce nel presente l'effetto d'un'apocalisse sotterranea e invisibile appena passata, o ancora in atto.» (pag. 211). Trasformando la peripezia nella città moderna in una discesa agli inferi particolarmente congeniale ai surrealisti (come si vede in Nadja di Breton).


Joseph Cornell:
soap bubble set
C'è un simile pensiero dietro i più spregiudicati artisti d'avanguardia che hanno prodotto assemblages con i resti di merci e immagini della nostra età morente. In epoca Dada, Kurt Schwitters ha eretto un autentico monumento-bricolage alla spazzatura con il suo Merzbau, mentre negli Stati Uniti Joseph Cornell, con le sue celebri scatole, ha rimagnetizzato il rifiuto e il ciarpame in senso magico, nella sua solitaria tensione verso la "fanciullezza riconquistata" (Charles Simic). In questo senso ri-nominare gli oggetti, come fa Cornell con surrealistica gioia, equivale a dare loro un nuovo destino liberandoli dalle funzioni che li incatenavano a un precedente vissuto.

Entrambi gli artisti sembrano aver tradotto in azione il sentimento della poesia del banale - così importante per le avanguardie - espresso da Rimbaud in Una stagione all'inferno: «Io amavo le pitture idiote, sovrapporte, decorazioni, tele di saltimbanchi, insegne, miniature popolari; letteratura fuori moda, latino di chiesa, libri erotici senza ortografia, romanzi delle nostre bisnonne, racconti di fate, libriccini per l'infanzia, vecchie opere, ritornelli scemi, ritmi ingenui.» Ecco come Charles Simic, nello splendido libro dedicato a Cornell, riassume il meraviglioso del nostro tempo, la poetica dell'objet trouvé che ha abolito le gerarchie della bellezza e ha dato all'individuo la libertà di ri-costruirsi un proprio nuovo mondo a partire dai frammenti del vecchio:

L'arte non si crea, si trova. Ammettiamo qualsiasi cosa come sua materia prima. Schwitters collezionava frammenti di conversazione e ritagli di giornale per le sue poesie. Waste Land di Eliot è un collage, e altrettanto i Cantos di Pound. La tecnica del collage, l'arte di assemblare frammenti di immagini preesistenti in modo tale da far nascere una nuova immagine, è la più importante innovazione artistica di questo secolo. Cose rinvenute, creazioni casuali, confezioni (articoli prodotti in serie che vengono promossi a oggetti d'arte) aboliscono la separazione tra arte e vita. La banalità è miracolosa se vista nel modo giusto, se riconosciuta..

(in Il cacciatore di immagini, pagg. 44-45)

Le mutazioni più rivoluzionarie non si pianificano, ma sono il frutto della «sperimentazione retorica più libera e irresponsabile: più cieca.» Così Franco Moretti nelle pagine in cui definisce il bricolage come «motore dell'evoluzione letteraria.» D'altronde il piacere molto teatrale del "trovarobato" - dell'ammucchiamento di oggetti, della superfetazione casuale dell'eteroclito, dell'agglomerato di cianfrusaglie - attraversa l'opera di alcuni grandi scrittori trascurati del Novecento, ed è inteso non come allegoria di una disperazione storica, ma come esorcismo contro una dissoluzione prima di tutto metafisica. In alcuni poeti, come il Pessoa ortonimo del Faust o di Episodi, gli oggetti, perfidi e arcigni, diramano dall'estraneità la loro minaccia all'integrità dell'individuo («Ma ci son sempre cose dietro di me. / Sento la loro assenza d'occhi che mi fissa, e rabbrividisco»); per il poeta-collezionista quest'estraneità irridente diventa paradossalmente salvifica. Leggiamo ancora Ripellino, ma il Ripellino poeta, di cui da poco si è meritoriamente ristampata la prima parte dell'opera poetica integrale (editore Aragno). Questa è la metà finale di una poesia dedicata, sintomaticamente, a Schwitters e all'ossessione degli oggetti:

Ma io ho bisogno di loro, il loro scherno
altezzoso e malefico mi aiuta
a vincere l'angoscia dello spazio, a rivestire di nomi l'abisso,
ho bisogno d'infarcire il vuoto
di ciarpame, di rancidi feticci.
Sto ammucchiando forcine, cappelli, provette,
ciondoli di vecchie cassapanche,
nastri, chiavette, luminelli, trucioli
in un denso viluppo, in un ordito
che non lasci passare, che disperda
le lusinghe, le raffiche del nulla.

Il nulla, appunto. Tutto questo percorso non vuole determinare un'oziosa o compiaciuta contemplazione del nihil. Non tutti hanno compreso Eliot, e pur comprendendolo non tutti l'hanno amato, opponendogli degnissime controargomentazioni. Saul Bellow, ad esempio, che detestava la Terra desolata tanto da ergerla a simbolo di tutto un sistema di pensiero apocalittico che avrebbe inquinato il Novecento, esibiva orgogliosamente in contrario «il rifiuto di condurre una vita delusa».

È una posizione personale, a cui si può banalmente, ma non meno orgogliosamente, rispondere che al contrario la responsabilità verso se stessi - prima ancora che verso i posteri - sta proprio nel denunciare il tragico là dove esso è; ha ragione Bellow, per bocca del suo personaggio Herzog, a sottolineare come le intuizioni di un genio siano sempre pronte a diventare paccottiglia intellettuale di massa, e da parte nostra dobbiamo guardare serenamente all'eventualità che l'assunto sia verificabile anche per noi; eppure, delusa o no, la vita può essere almeno consapevole; la letteratura, proprio nella sua implacabile discesa sul terreno del tragico, riesce a trarre i suoi 'diletti' anche dal vero, e se affonda le radici nel malessere rimane pur sempre un'impresa di salute. Tramite la quale riconosciamo che la catastrofe climatica e le montagne di rifiuti che minacciano di sommergerci sono immagini dell'apocalisse che tracimano sempre più fuori dai domini fantastici dell'inconscio: dalla letteratura alla realtà.

A noi non resta che affidarci al provvidenziale caso per dare un nome nuovo ai nostri frammenti.




Bibliografia sommaria


Edizioni consultate

  • T.S. Eliot, Poesie, a cura di Roberto Sanesi, Mondadori 1971
  • - La terra desolata. Frammento di un agone. Marcia trionfale, a cura di Mario Praz, Einaudi 1965
  • - La terra desolata, a cura di Alessandro Serpieri, Rizzoli 1982
  • - Quattro quartetti, traduzione di Filippo Donini, Garzanti 1976
  • - Opere 1904-1939, Bompiani 2001
  • Paul Auster, Nel paese delle ultime cose, Einaudi 2003
  • - Trilogia di New York, Einaudi 1996
  • - La musica del caso, Guanda 1999
  • - Le trame della scrittura. Intervista di Matteo Bellinelli, Casagrande 2004
  • - Una menzogna quasi vera. Conversazioni con Gérard de Cortanze, minimumfax 1998
  • Alfred Kubin, L'altra parte, Adelphi 1965
  • - Demoni e visioni notturne, postfazione di Giacomo Debenedetti, Abscondita 2004


Studi, saggi e altro

  • Walter Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi 1966
  • - Opere complete. IX - I "passages" di Parigi, Einaudi 2000
  • Piero Camporesi, La casa dell'eternità, Garzanti 1998
  • Gianni Celati, Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, terza ed., Einaudi 2001
  • Northrop Frye, T. S. Eliot, Il Mulino 1989
  • - Mito metafora simbolo, Editori Riuniti 1989
  • Giorgio Melchiori, I funamboli. Il manierismo nella letteratura inglese, Einaudi 1997
  • Franco Moretti, Opere mondo, Einaudi 1994
  • Francesco Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Einaudi 1993
  • Mario Praz, James Joyce, Thomas Stearns Eliot, due maestri dei moderni, ERI 1967
  • Angelo Maria Ripellino, Praga magica, Einaudi 1991 (prima ed. 1973)
  • - Nel giallo dello schedario, Cronopio 2000
  • - Poesie prime e ultime, Aragno 2007
  • Charles Simic, Il cacciatore di immagini, Adelphi 2005


Webliografia

 

pedus@fastwebnet.it


Vedi anche, sul numero 5:
Terre desolate: rifiuti nella tempesta (1. T.S. Eliot)
di Fabio Pedone