FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 5
gennaio/marzo 2007

Alterazioni climatiche

DI FRONTE AL DISASTRO ECOLOGICO
L'elegia di Braulio Muñoz in
Alejandro y los pescadores de Tancay

di Emanuela Jossa


Il tema della terra rappresenta una costante nella produzione artistica e letteraria dell'America Latina e attraversa in modo a volte tangenziale, altre sostanziale, diverse correnti: si pensi al regionalismo, il costumbrismo, l'indigenismo, ecc.
Questo continuo ruotare in torno al motivo tellurico dipende essenzialmente da due fenomeni, uno di carattere prettamente culturale, l'altro economico-politico: da un lato, infatti, deriva dalla presenza culturale indigena, per la quale il legame con la terra è un rapporto essenzialmente spirituale e religioso, e quindi imprescindibile (si pensi alla Pachamama); dall'altro, la vasta e generosa terra americana è un bene conteso, martoriato, depredato a causa degli interessi economici e politici di grandi latifondisti e multinazionali. I due fenomeni, naturalmente, sono fortemente in opposizione: mentre gli indigeni ritengono che tutto quanto è sulla terra sia un prestito della natura, e pertanto vada rispettato e trattato secondo i principi dell'armonia del cosmo, gli sfruttatori della terra obbediscono solo alla legge del profitto. E così, da fonte primaria di vita e di bellezza, la terra diventa in spazio escludente. Da paesaggio armonioso, un luogo avvelenato.

Il disastro ambientale provocato dallo sfruttamento delle risorse diventa un tema letterario che si connette al tema più generale della terra. Parlare della terra, allora, significa spesso comporre un'elegia, ricordare ciò che si è perduto, contemplare con rabbia il disastro. Questo è Alejandro y los pescadores de Tancay di Braulio Muñoz, scrittore peruviano. Il romanzo si presenta come un lungo monologo pronunciato durante la notte da un uomo anziano, Don Morales, in presenza di Alejandro. Il testo è diviso in capitoli e il passaggio dall'uno all'altro sembra riprodurre le pause di un discorso così drammatico e coinvolgente che necessita intermezzi di silenzio. Lessico e sintassi riproducono regionalismi della costa peruviani, termini e costruzioni derivate dal linguaggio popolare e colloquiale, con l'effetto di rendere credibile e concreto il discorso dell'anziano. Ma non mancano momenti molto lirici nell'evocazione di un paesaggio semplicemente "sano", o di persone e animali speciali che hanno attraversato quei luoghi.

Spazio e tempo dell'azione sono definiti con precisione: Trujillo, Chimbote, Chán Chán, anni '60, anni '70..., ma a questo realismo si contrappone (in una significativa fusione) l'elemento mitico, l'evocazione di presenze sacre ancestrali. L'anziano racconta la progressiva distruzione della costa settentrionale del Perù, legata ad eventi storici identificabili (la dominazione degli Incas, la spoliazione dei colonizzatori spagnoli, l'insediamento delle fabbriche, lo sfruttamento sconsiderato delle risorse) che hanno determinato la perdita di una dimensione etica e spirituale nel rapporto con il mondo, facendo prevalere la logica del colonizzatore.
Esiste un'armonia sacra nella relazione tra l'uomo, la terra e le altre creature, e se viene spezzata le conseguenze sono tragiche.

Attraverso le storie di vari personaggi, in particolare pescatori, Don Morales mostra come i comportamenti sbagliati, ispirati dall'avidità, dalla prepotenza, dall'insensibilità, vengono sempre puniti per restituire all'uomo un "corazón limpio", un cuore puro. È questa nobiltà d'animo che accomuna l'uomo al mare e alla natura: la cagna Carmela, a cui è dedicato un toccante capitolo, con la sua fedeltà è un esempio per gli uomini che invece spesso sono in balia di sentimenti negativi. Il pescatore deve imparare la pazienza, il rispetto del mare, deve usare tecniche di pesca corrette. Il suo apprendistato è un cammino di formazione, fatto di sfide, solitudine, riflessione, per imparare il rispetto e l'umiltà: solo così sarà un Buen Pescador (si veda il cap. XV dedicato a Lalo). L'avidità viene sempre punita, perché il mare è come una madre che nutre tutti, ma se si oltrepassa il limite "il mare ci abbandona, ci punisce. Questo sta succedendo adesso con le maledette fabbriche. Stanno facendo soffrire il mare." (cap. X).

Come osserva Melis nell'introduzione al romanzo, recuperare una prospettiva ecologica non è solo un gesto di umiltà, ma una misura per la sopravvivenza. Le conseguenze della devastazione sono concrete, drammaticamente tangibili e sono raccontate attraverso due elementi in particolare: l'alterazione climatica e la scomparsa degli animali. Nel loro silenzioso andar via è il presagio del catastrofe, ma quasi tutti se ne accorgono quando è troppo tardi. Le persone sagge, come gli anziani doña Pelagia e Genaro, sono quelle che ancora sanno leggere nei cambiamenti della natura un messaggio, quasi un ultimo appello. Gli abitanti del Chimbote, però, sono stati accecati dal miraggio di ricchezza e hanno colonizzato il deserto, mentre le fabbriche hanno scaricato liquami velenosi nel mare.

I presagi rappresentano quasi un monologo parallelo a quello di don Morales: la natura che parla, anzi urla, inascoltata, in un climax ascendente che culmina nella disperazione. Quando il monologo di don Morales si avvicina alla conclusione, si svela al lettore che il muto interlocutore, Alejandro, è un guerrigliero morto, che l'anziano sta vegliando: l'apocalisse del mare avvelenato si coniuga con la distruzione dell'uomo. Non ci sono risposte, l'elegia della natura e del vecchio si muovono parallele in contemplazione di una catastrofe irrimediabile.

Nel capitolo proposto per la prima volta in traduzione italiana (il testo è stato pubblicato in Italia nel 2004, ma in lingua spagnola), il monologo di don Morales è quasi giunto al termine. Insieme ad Alejandro, ha ripercorso la storia del Chimobote, l'era mitica e il recente passato. Adesso tocca al presente, ma questo si configura in modo assolutamente negativo. Il mare ha assunto colori assurdi, gli animali sono morti o scappati, il deserto si è coperto di fiori e solo l'incoscienza (il distacco dalla natura) può far leggere questi segnali come novità da festeggiare. L'illeggibilità dei presagi è spesso un aspetto del cambiamento epocale: anche gli aztechi ebbero presagi orrendi prima dell'arrivo dei conquistatori spagnoli, ma non seppero leggerli e quindi proteggersi. Forse, come dice Muñoz alla fine del capitolo qui presentato, "sarà che quando il terrore viene con volto di uomo, gli orrori che ci porta il mondo diventano più piccoli".


Alessandro e i pescatori di Tancay
di Braulio Muñoz

(Capitolo XXXII - I presagi)


Allora, Alejandro, stiamo ormai concludendo. Abbiamo camminato molto. Siamo arrivati fino a Lurigancho e Baltimore, come li chiamano. Abbiamo passeggiato attraverso i confini della disgrazia... Ora sì, bisogna tornare sugli scogli, e basta. Bisogna ricordare la fine. Anche se l'anima soffre. Anche se dobbiamo chiudere le nostre ferite e così rischiare l'oblio...

Perché Tancay cominciò a morire davvero alla fine degli anni '80. Quando venisti a visitarci, le cose già andavano molto male. Non te ne rendesti conto? Forse no, eri preoccupato delle tue sofferenze... La metà dei pescatori se ne era andata. Non c'era più nessun raccoglitore di granchi. Le cozze si staccavano dagli scogli e galleggiavano come carbone sull'acqua.. Però, in realtà, i presagi negativi cominciarono molto prima.

Il primo presagio si manifestò poco dopo l'arrivo della frana che ci aveva regalato il terremoto del '70. Un giorno, il mare si svegliò tutto rosso. Non di quel rosso di agosto, quando il sole si immerge e macchia ogni cosa come un'onda senza suono. Non di quel rosso che annuncia la morte di una persona molto speciale. No. Un rosso vivo. Un rosso che si azzeccava alle rocce, alle cozze, alle mani. Le povere anatre non sapevano che fare. Non si tuffavano più. I piccoli lupi marini ci guardavano dal mare con le loro faccine tutte imbrattate. Quando Genaro vide i poveretti così, tutti disorientati, si mise a piangere. Per poco non si buttò giù da La Pared, per la rabbia.

Il secondo cattivo presagio arrivò vari mesi dopo, ancora negli anni '70. Ti ricordi le mosche azzurre che ci seguivano da tutte le parti quando ancora non c'era il mercato? Bene, quando don Segundo tracciò le linee nel deserto non ci fu altra soluzione che andarsene a vivere nei pantani del 27 de Octubre. Lì avrebbero vissuto, insieme con le libellule. Perché ci sono libellule di tutti i colori nelle distese di giunchi. Dopo la frana, dalla notte alla mattina, apparvero delle zanzare che sembravano libellule, solo che erano color paglia. Da dove erano venute? Nessuno lo sapeva. Doña Pelagia dice che si erano solo svegliate; che le zanzare avevano dormito là dai tempi dei Chán Chán... chissà? Il fatto è che un giorno si svegliarono ronzando da tutte le parti. I ragazzi cercavano di darle la caccia e acchiapparle con le mani.

All'inizio si accontentavano di ronzare per le strade nei pomeriggi di sole. Quando veniva la notte se ne andavano a dormire con i rospi tra i giunchi. Ma, da quando erano apparse le zanzare, la gente che passava per il 27 de Octubre notò che i giunchi stavano diventando muti. Neanche i rospi giganti facevano più rumore. Un silenzio pesante cresceva nelle acque tiepide.

Verso il gennaio del '72, quando il caldo non faceva dormire, le zanzare divennero molto temerarie e cominciarono a succhiare il sangue della gente in pieno giorno. Si infilavano da tutte le parti. Apparivano nella zuppa e nelle mutande. Siccome non c'era vento, galleggiavano come una nuvola spessa su Villa María. La gente doveva camminar con fronde di ruta o di eucalipto per difendersi. Vedendo tutto questo, Doña Pelagia ci disse che le cose stavano andando di male in peggio nella valle; che le forze dell'odio e del male si stavano unendo di nuovo.

Il terzo presagio si verificò già negli anni '80. Le correnti del Niño portarono piogge forti per la prima volta da Dio sa quando. I tetti non resistettero e la gente dovette lasciare che le acque si impossessassero di tutto. Quando fini l'acquazzone, le giornate diventarono stranamente umide. Una pioggerella scura e spessa come tanfo di morto tappava tutto. Il sole si perse per giorni interi. Quando il sole tornò con forza e mandò via il tanfo, dalla notte alla mattina, il deserto si svegliò verde. Coperto di fiori. I viaggiatori fermavano autobus e pulmini sulla strada Panamericana per vedere il mantello vivo che sembrava galleggiare sulle distese di sabbia. Estranea ad ogni entusiasmo, Doña Pelagia ci avvisò di nuovo che le truppe dell'odio stavano guadagnando forza.

La gente che ancora restava a Villa María dopo il maremoto interpretò tutti questi avvenimenti come presagi di un grande disastro. I vecchi come me esaminavano il vento, temendo uragani. Ma la verità era che nessuno di noi sapeva che cosa fossero gli uragani. Il padre Parker e don Franco già se ne erano andati altrove. Non c'era nessuno su cui poter contare; a cui far domande. Allora si diffuse la diceria che gli uragani erano come frane, solo che al contrario: una pioggia con venti tanto forti che si sarebbe portata via asini e case fino alla cordillera.

La gente sembrava smarrita in quei giorni, Alejandro. Ci muovevamo in una nebbia di timore incerto. Erano già molti mesi che succedevano cose strane. Finché, un giorno in cui il sole sorse rosso, una nebbia di bave grigie venne a impantanarsi per le strade. Sembrava che il sole e il vento si fossero arresi. Allora sì che la gente non ne poté più. Ci raccogliemmo di fronte alla chiesa per richiedere messe speciali. Vedendo la paura disegnata sui nostri volti, il padre O'Hara, che aveva sostituito il padre Parker, ci concesse il favore.

Ma quale messa! La nebbia non spariva. La gente doveva camminare parlando a voce alta per non scontrarsi. Le macchine andavano in giro suonando il clacson a tutte le ore. I galli diventarono rauchi a furia di dare l'allarme.. La cosa non poteva continuare così... Allora Doña Pelagia ci consigliò di fare un pellegrinaggio al grande Apu, dio della montagna, che veglia sulla valle. "Andate e basta, senza chiedere niente. Non è necessario", ci disse. Detto fatto. Come per incanto, la nebbia si alzò. Il giorno dopo il prete O'Hara salì sulla montagna caricando una croce. "I miracoli si condividono", diceva. Ancora adesso, Doña Pelagia fa il segno della croce ogni volta che pensa a quei giorni.

Ci furono altri segnali minori... A pensarci bene, molte cose che successero nella valle dopo il terremoto erano presagi del disastro che si avvicinava. Genaro è convinto che persino la morte di Canchero fu un cattivo augurio... Naturalmente, Doña Pelagia non si stancava di avvertirci... Non la stavamo a sentire. Ma, che avremmo potuto fare, in ogni caso? Questo stiamo ricordando, che quando te ne andasti sulla montagna e la polizia venne a perquisire le case, i cortili, le pentole, lei ci disse che tutto ciò era passeggero; che il peggio stava per arrivare.

Non la stemmo a sentire. Anche se Villa María era tormentata da frane, terremoti, maremoti, zanzare e il maledetto odore di pesce fritto che non ci faceva più mangiare... sarà che quando il terrore viene con volto di uomo, gli orrori che ci porta il mondo diventano più piccoli.


Traduzione dallo spagnolo di Emanuela Jossa




Braulio Muñoz

BRAULIO MUÑOZ

È nato nella regione di Chimbote, in Perù, nel 1946. Adesso vive negli Stati Uniti dove è professore di Sociologia nel Swarthmore College, in Pennsylvania. È autore di diversi studi di psicologia, sociologia, filosofia, letteratura. Nell'ambito della critica letteraria vanno ricordati i lavori su Arguedas, sull'indigenismo (Huairapamushcas. La búsqueda de identidad en la novela indigenista ispanoamericana) e il libro sul noto scrittore peruviano Vargas Llosa: A Storyteller: Mario Vargas Llosa between civilization and barbarism. Il suo primo romanzo è Alejandro y los pesacadores de Tancay, pubblicato in Italia nel 2004 (Andrea Lippolis editore, Messina), mentre in Perù è alla quarta edizione ed è in corso di stampa la traduzione in inglese da pubblicare negli Stati Uniti. Scrive anche in inglese; l'ultima opera narrativa ha per titolo The Peruvian Notebooks. Attualmente sta lavorando a un nuovo romanzo sulla storia degli ultimi trenta anni del Perù.

 

ejossa@unical.it