FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 4
ottobre/dicembre 2006

Sacro e profano

MIGUEL OTERO SILVA: LA VOCE DI UNA GENERAZIONE

di Sara Pagnini


Miguel Otero Silva nacque a Barcelona, città dello stato venezuelano di Anzoátegui, il 26 ottobre del 1908. Nel 1925 pubblicò la sua prima poesia nella rivista "Élite"; nello stesso anno scrive per il quotidiano "Fantoches" e per la rivista "Caricaturas", rivelando le sue eccezionali doti umoristiche. Insieme ad altre importanti personalità quali Arturo Uslar Pietri e Antonio Arráiz, Miguel Otero Silva collabora all'unico numero della rivista "Válvula", prima pubblicazione avanguardista del Venezuela. Ciò accadeva nel 1928, momento di svolta per la storia e la politica venezuelana: a questo periodo, infatti, sono indissolubilmente legate le vicende del gruppo della cosiddetta "Generazione del '28".

Con questo nome era conosciuto il gruppo di studenti universitari che diedero il via, durante il carnevale caraqueño, a un movimento che si risolse in una vera e propria sollevazione contro il regime del dittatore Juan Vicente Gómez. Quest'ultimo aveva preso il potere nel 1908 inaugurando l'epoca dei moderni caudillos latino-americani attraverso l'introduzione della polizia politica privata del presidente e il controllo assoluto sulla vita politica ed economica del paese. I giovani dell'Università volevano ristabilire la Federación de Estudiantes de Venezuela, l'organismo di coordinazione di tutti i centri studenteschi e, con il proposito di raccogliere fondi per la realizzazione di questo progetto, durante il Carnevale del 1928 venne organizzata La Semana del Estudiante (la settimana dello studente), il cui programma prevedeva importanti e simboliche iniziative, quali la parata dall' Università fino al Panteon Nazionale (in omaggio agli eroi dell'Indipendenza), l'incoronazione della regina degli studenti e un concerto in uno dei teatri della capitale. A questo importante avvenimento partecipò anche un personaggio di singolare levatura, Pío Tamayo, già esiliato politico nonché tra i primi fautori del marxismo in Venezuela, che lesse una poesia, secondo il giudizio della autorità, dai contenuti sovversivi; questo fatto, unito ai primi interventi degli studenti di Legge, fu sufficiente per scatenare l'immediato malcontento del Governo che decise di porre fine agli atti commemorativi de La Semana del Estudiante, incarcerando Pío Tamayo e altri giovani.

Di fronte a una così evidente ingiustizia, il resto degli studenti si consegnò volontariamente alla polizia e tutti vennero trasferiti al castello di Puerto Cabello, dove rimasero per dodici giorni. Un avvenimento di così grave entità diede inizio, nelle principali città del paese, a ondate di protesta che determinarono la liberazione degli universitari. Fu un fatto di significativa importanza perché la società venezuelana, che fino a quel momento aveva mostrato un'attitudine di totale remissività di fronte alla dittatura gomecista, iniziava a dar segni d'insofferenza progettando la lotta contro la tirannia.

L'aspetto collettivo che caratterizzò il movimento della Generazione del '28 fu fondamentale nel rinnovare il corso della storia e della politica venezuelana e furono molte le personalità di grande rilievo che vi presero parte come, per esempio, Rómulo Betancourt, Jóvito Villalba, Raúl Leoni, Juan Bautista Fuenmayor e lo stesso Miguel Otero Silva che, a causa della repressione del governo, dovette abbandonare il paese e continuare la sua lotta dall'esilio. Nel 1930 Otero entra nelle fila del Partito Comunista Internazionale e nel 1935, in seguito alla morte di Juan Vicente Gómez, rientra in Venezuela dove si dedica a scrivere nel quotidiano "Ahora". Ma nel 1937 sarà nuovamente costretto ad abbandonare il paese a causa della sua militanza comunista. Iniziò, quindi, un lungo periodo di peregrinazioni che lo portarono in Messico, negli Stati Uniti, a Cuba e in Colombia, luoghi nei quali lasciò testimonianze della sua arte letteraria. Fece ritorno in Venezuela nel 1940 e l'anno seguente fondò i settimanali "El Morrocoy Azul" e "Aquí está". Nel 1943 suo padre, Henrique Otero Viczarrondo, fonda il quotidiano "El Nacional" di cui Miguel Otero Silva sarà il primo capo redattore. Tre anni più tardi si separa dal Partito Comunista venezuelano e, sempre nel 1946, si sposa con la giornalista María Teresa Castillo dalla quale avrà due figli. Nel 1955 pubblica il romanzo Casas Muertas che gli vale il Premio Nacional de Literatura e il Premio Arístides Rojas.

Nell'ultimo periodo della dittatura di Marcos Pérez Giménez (1958), Otero Silva venne arrestato e al suo rilascio venne eletto senatore dello Stato di Aragua, nello stesso anno vinse il Premio Nacional del Periodismo per il suo impegno come giornalista. Nel 1960, a causa delle pressioni politiche, abbandona la redazione del "El Nacional" e l'attività di stampa. Nel 1967 fu eletto Individuo de Número de la Academia Venezolana de la Lengua. A partire dal 1971 si dedicò alla scrittura di stampo storico e nel 1975 riprenderà i temi umoristici, una grande passione sin dagli anni giovanili, scrivendo una versione libera di Romeo e Giulietta. Nel 1980 vince il Premio Lenin e del 1984 è il suo ultimo romanzo.
Miguel Otero Silva muore a Caracas nel 1985 tra la commozione e la partecipazione generale del paese.

È evidente come la politica e l'impegno civile abbiano contraddistinto da sempre la vita di Miguel Otero Silva e questo è facilmente riscontrabile anche all'interno della sua opera, si tratti di poesia, narrativa o di attività giornalistica. La poesia di Otero Silva ha importanza soprattutto per il suo carattere innovatore; tra la sua vasta opera poetica si distinguono in particolar modo le raccolte Agua y cauce (1937), 25 poemas (1942), Elegía oral a Andrés Eloy Blanco (1959), La mar que es el morir (1965), Umbral (1966), Sinfonías tontas (1966), Poesía hasta 1966 (1966) e Obra poética (1977).

La sua narrativa è tra le maggiormente apprezzate nel paese, insieme a quella di altre grandi personalità quali Rómulo Gallegos e Arturo Uslar Pietri. La produzione narrativa di Otero Silva iniziò negli anni 30 e rappresentò la continuità della narrativa venezuelana e, più in generale, ispano-americana sviluppatasi a partire dall'opera del connazionale Gallegos. Il romanzo Fiebre, del 1939, sviluppa i temi della lotta studentesca durante la dittatura di Gómez, vissuti in prima persona dall'autore, ma sarà con Casas Muertas del 1955 e Oficina número 1 del 1961 che si affermerà definitivamente. Gli anni seguenti furono costellati da una serie ininterrotta di opere notevoli, a conferma del suo grande talento: La muerte de Honorio (1963), Cuando quieto llorar no lloro (1970) e Lope de Aguirre, príncipe de la libertad (1979).




POESIE DI MIGUEL OTERO SILVA


SIEMBRA

Cuando de mí no quede sino un árbol,
cuando mis huesos se hayan esparcido
bajo la tierra madre;
cuando de tí no quede sino una rosa blanca
que se nutrió de aquello que tú fuiste
y haya zarpado ya con mil brisas distintas
el aliento del beso que hoy bebemos;
cuando ya nuestros nombres
sean sonidos sin eco
dormidos en la sombra de un olvido insondable;
tú seguirás viviendo en la belleza de la rosa,
como yo en el follaje del árbol
y nuestro amor en el murmullo de la risa.
¡Escúchame!
Yo aspiro a que vivamos
en las vibrantes voces de la mañana.
Yo quiero perdurar junto contigo
en la savia profunda de la humanidad:
en la risa del niño
en la paz de los hombres,
en el amor sin lágrimas.
Por eso,
como habremos de darnos a la rosa y al árbol,
a la tierra y al viento,
te pido que nos demos al futuro del mundo......


LA SEXTA VOZ DEL CORO DE ESTE LAGO

En mi vasta extensión de llanto y plata,
en el asalto azul de mis espadas,
en mis enardecidos bosques de agua,

arteria soy para latir su muerte.

En las fauces del sol, jaguar de fuego,
en las alas del sol, gallo del cielo,
en las crinas del sol, caballo suelto,

antorcha soy para alumbrar su muerte.

En el rumbo oloroso de los lirios,
en el dulce llegar del fugitivo,
en la leche caliente de los ríos,

camino soy para encontrar su muerte.

En el polen astral de la garúa,
en el chubasco de cristal y furia,
en el claro plumaje de la lluvia,

semilla soy para sembrar su muerte.

En los manglares de raíz descalza,
en las islas de entraña calcinada,
en el silencio blanco de las playas,

arena soy para secar su muerte.

En el potro de luz encabritado,
en la noche cruzada por un látigo,
en lumbre azorada del relámpago,

candela soy para quemar su muerte.

En la palma rasgada por el viento,
en los muñones de los troncos secos,
en el cansancio de los cocoteros,

cogollo soy para tejer su muerte.

En los labíos callados de los Indios,
en la mirada de estancados siglos,
en el sediento corazón guajiro,

guarura soy para ulular su muerte.

En el grasiento hervor de noche y lodo,
en los oscuros sumideros torvos,
en mis pupilas turbias de petróleo,

aceite soy para encender su muerte.

En los motores roncos de los barcos,
en el puñal hundido en mi costado,
en el ávido arpón de los taladros,

palabra soy para negar su muerte.


TRES VARIACIONES SOBRE LA MUERTE

II

Símbolos de la muerte no sueñan ser el hueso,
ni las cuencas vacías, ni la mortaja fláccida.
Los huesos son apenas el portal de la muerte.

Cuando los huesos dejan de ser huesos
y entre su blancor rígido hay un temblor de gérmenes,
es que nace la poesía de la muerte,
es que despunta el símbolo creador de la muerte.

La muerte que yo canto no es cruz de cementerio,
ni ilusión metafísica de las mentes cobardes,
ní lóbrego infinito de profundos filósofos.

La muerte que yo canto es una sombra constructora
de blancas mariposas que crucen los caminos del viento,
de tallos que entremezclan la pulpa maternal de la tierra,
de claros manantiales que sacudan las entrañas del mundo.


ENTERRAR Y CALLAR

Si han muerto entre centellas fementidas
inmolados por cráteres de acero,
ahogados por un río de caballos,
aplastados por saurios maquinales,
degollados por láminas de forja,
triturados por hélices concientes,
quemados por un fuego dirigido,
¿Enterrar y callar?

Si han caído de espaldas en el fango
con un hoyo violeta en la garganta,
si buitres de madera y aluminio
desde el más alto azul les dieron muerte,
si el aire que bebieron sus pulmones
fue un resuello de nube ponzoñosa,
si así murieron sin haber vivido,
¿Enterrar y callar?

Si las voces del mando los mandaron
deliberadamente hacia el abismo,
si humedeció sus áridos cadáveres
el llanto encubridor de los hisopos,
si su sangre de jóvenes, su sangre
fue tan solo guarismo de un contrato,
si las brujas cabalgan en sus huesos,
¿Enterrar y callar?

Enterrar y gritar.


CORRÍO1 DEL NEGRO LORENZO

¡Yo soy el Negro Lorenzo!
negro del Tuy, negro negro.
Noche con alma. Tambor
dormido bajo mi pecho.
Dormido bajo mi pecho
tengo un dolor de candelas,
corazón rojo por dentro,
corazón negro por fuera.
Corazón negro por fuera,
corazón sombra del blanco,
si tengo rebelde el pelo
tengo rebelde las manos.
Tengo rebelde las manos
manos trenzadas al viento
mientras lanzo al viento el grito:
¡Yo soy el Negro Lorenzo!
Yo soy el Negro Lorenzo,
nieto y biznieto de esclavos,
cruzado de cicatrices
como negro tronco de árbol.
Como negro tronco de árbol
de pie atisbo la sabana
que invita a correr por ella
con banderas coloradas
y palpitar de tambor
al frente de gritos negros
fundidos en una voz.
Fundidos en una voz
oigo los lamentos negros
de las negras cicatrices.
¡Yo soy el Negro Lorenzo!
¡Yo soy el Negro Lorenzo!
Negra noche, negra el alma,
negro de pecho desnudo,
negro cortador de caña.
Negro cortador de caña
como mi abuelo y mi padre,
esclavo negro de todos,
esclavo no soy de nadie
esclavo no soy de nadie
porque soy lo que no soy,
tengo un dolor de candelas
y un palpitar de tambor.
Y un palpitar de tambor
bajará por los barrancos
como la voz de los muertos,
los negros muertos esclavos.
Los negros muertos esclavos,
mi abuelo y mi bisabuelo.
Negra y rebelde es mi mano.
¡Yo soy el Negro Lorenzo!

SEMINA

Quando di me non rimarrà che un albero,
quando le mie ossa si saranno sparse
sotto la madre terra,
quando di te non rimarrà che una rosa bianca
che si è nutrita di ciò che tu fosti
ed è salpata ormai con mille brezze diverse
il respiro del bacio che oggi beviamo;
quando ormai i nostri nomi
saranno suoni senza eco
addormentati nell'ombra di un oblio impenetrabile;
tu continuerai a vivere nella bellezza della rosa
così come io tra il fogliame dell'albero
e il nostro amore nel sussurro delle risate.
Ascoltami!
Io desidero che viviamo
nelle vibranti voci del mattino.
Io voglio perdurare insieme a te
nella linfa profonda dell' umanità:
nella risata del bambino
nella pace degli uomini
nell'amore senza lacrime.
Per questo,
poichè dovremo concederci alla rosa e all'albero,
alla terra e al vento,
ti chiedo di concederci al futuro del mondo......


LA SESTA VOCE DEL CORO DI QUESTO LAGO

Nella mia vasta estensione di pianto e argento,
nell'assalto azzurro delle mie spade,
nei miei boschi infiammati di acqua,

sono arteria che scandisce la sua morte.

Nelle fauci del sole, giaguaro di fuoco,
nelle ali del sole, gallo del cielo,
nelle criniere del sole, cavallo selvaggio

sono fiaccola che illumina la sua morte.

Nel fragrante sentiero dei gigli,
nel giungere soave del fuggitivo,
nel torrido latte dei fiumi,

sono la strada che incontra la sua morte.

Nel polline astrale della pioggia,
nell'acquazzone di cristallo e furia,
nel chiaro piumaggio della pioggia,

sono seme che semina la sua morte.

Nelle mangrovie di radice scalza,
nelle isole di viscere ossidate,
nel bianco silenzio delle spiagge,

sono sabbia che prosciuga la sua morte.

Nel puledro imbizzarito dalla luce,
nella notte attraversata da una sferzata,
nel fulgore conturbante del lampo,

sono candela che consuma la sua morte.

Nella palma strappata dal vento,
nei secchi tronchi mutilati,
nella fatica dei cocoteros,

sono germoglio che tesse la sua morte.

Nelle labbra silenziose degli Indios,
nello sguardo dei secoli impietriti,
nel cuore assetato del guajiro,

sono guarura che ulula la sua morte.

Nel bollore oleoso della notte e del fango,
nei sinistri e torbidi fossati,
nei miei occhi intorbiditi dal petrolio,

sono olio che accende la sua morte.

Nei motori ronchi delle barche,
nel pugnale affondato nel mio fianco,
nell' arpione avido delle trivelle,

sono parola che nega la sua morte.


TRE VARIAZIONI SULLA MORTE

II

Simboli della morte non sognano d'essere l'osso,
né le orbite vuote, né il languido sudario.
Le ossa sono appena la soglia della morte.

Quando le ossa smettono d'essere ossa
e tra il rigido biancore vi è un tremito di germi,
allora nasce la poesia della morte,
è allora che nasce il simbolo creatore della morte.

La morte che io canto non è croce di cimitero,
né illusione metafisica delle menti codarde,
né l'oscuro infinito dei profondi filosofi.

La morte che io canto è un'ombra costruttrice
di bianche farfalle che solcano i cammini del vento,
di steli che mescolano la polpa materna della terra,
di chiare sorgenti che scuotono le viscere del mondo.


SOTTERRARE E TACERE

Se sono morti tra saette
immolati da crateri di acciaio,
affogati da un fiume di cavalli,
schiacciati da sauri meccanici,
sgozzati da lamiere di fucína,
triturati da eliche coscienti,
bruciati da un fuoco guidato,
sotterrare e tacere?

Se sono caduti di schiena nel fango
con un buco violaceo nella gola,
se avvoltoi di legno e alluminio
dal più alto azzurro gli diedero la morte,
se l'aria di cui bevvero i loro polmoni
fu un affanno di nube velenosa,
se così morirono senza avere vissuto,
sotterrare e tacere?

Se le voci del comando li mandarono
deliberatamente verso l'abisso,
se inumidì i loro aridi cadaveri
il pianto nascosto degli isotopi,
se il loro sangue di giovani, quel
sangue fu solo la cifra di un contratto,
se le streghe inforcano le loro ossa,
sotterrare e tacere?

Sotterrare e gridare.


CORRÍO DEL NERO LORENZO

Io sono il Nero Lorenzo!
Nero del Tuy, nero nero.
Notte con anima. Tamburo
che dorme nel mio petto.
Addormentato nel cuore
ho un dolore come fuoco,
cuore rosso dall'interno,
cuore nero dal di fuori.
Cuore nero dal di fuori,
cuore come ombra del bianco,
se indocili ho i capelli
indocili ho le mani.
Indocili ho le mani,
mani intrecciate nel vento
mentre al vento lancio il grido:
io sono il Nero Lorenzo!
Io sono il Nero Lorenzo,
figlio e nipote di schiavi,
coperto di cicatrici
come tronco nero d'albero.
Come tronco nero d'albero
dritto osservo la pianura
che a correre ti sollecita
con bandiere tutte rosse
mentre il rullo del tamburo
fonde in una sola voce
tutte le grida dei neri.
Fuse in una sola voce
sento i lamenti dei neri
e le nere cicatrici.
Io sono il Nero Lorenzo!
Io sono il Nero Lorenzo!
Notte nera, anima nera
nero con il petto nudo,
nero che taglia la canna.
Nero che taglia la canna
come mio nonno e mio padre,
nero schiavo son di tutti,
schiavo son di nessuno
schiavo son di nessuno
chè sono quel che non sono
con un dolore di fuoco
e un battito di tamburo.
E un battito di tamburo
scenderà per il burrone
come la voce dei morti,
i neri che son morti schiavi.
I neri che son morti schiavi,
mio nonno, mio bisnonno.
Nera e ribelle ho la mano.
Io sono il Nero Lorenzo!


1 Il Corrío o Corrido, è una forma poetica tipica del Venezuela, particolarmente diffusa nella zona de Los Llanos. La rima del Corrío ripete una stessa assonanza alla fine di tutti i versi pari, rendendo o meno la rima in quelli dispari. Il Corrío ebbe origine in Andalusia, regione dalla quale provenivano i primi europei che abitarono Los Llanos venezuelani.


(traduzione di Sara Pagnini)

 

sarapagnini@gmail.com