FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 2
aprile/giugno 2006

Cuore d'Africa

IL BLUES ISPANOAMERICANO
Sul romanzo La ruota di Chicago di Armando Romero

di Nicola Licciardello


Elipsio, giovane giornalista colombiano, cercando la sua ex-fidanzata Lamia arriva nella Chicago del 1970, ed entra così nella grande Ruota (Esposizione universale) della metropoli, in un viaggio di conoscenza a ritmo di blues - il canto "intraducibile" che viene dal sud, e sembra lenire la violenza "globale" della città dei mattatoi. Per scoprire la verità della lettera di Lamia che porta sempre con sé senza aprirla, Elipsio attraversa mondi diversi e in conflitto fra loro - beatniks, surrealisti, hippies, ricchi veterani del Vietnam, pantere nere, rackets portoricani, mercati e ristoranti esotici, biblioteche e parchi, grandi concerti - con una timida ma colta "disinvoltura" latina, che gli consente, fra l'altro, la chance erotica "cinese".

Dalla Ruota non si scappa (come dai mulini di Don Chisciotte), nel viaggio alla scoperta di sé bisogna fare esperienza di tutti i livelli della ruota, "fra la vertigine dell'alto e la tranquillità quasi inavvertita di accarezzare il suolo". Conoscenza "circolare", ma qui schiacciata in ellisse (da cui Elipsio), perché in America "la letteratura è memoria della letteratura, ha un fuoco doppio come l'ellisse, è barocco del barocco" - spiega Romero. Al fuoco del neobarocco americano, come già "alla galanteria ispanica, non risponde il puritanesimo anglosassone", maschera che cela l'infernale macchina di stritolamento umano descritta da Theodore Dreiser, Nelson Algreen, John Sinclair, Somerset Maugham ... (e da cui fugge in Europa Ezra Pound). Ma nemmeno avere una causa comune (contro tutto questo) cancella le differenze di razza e cultura (per esempio, fra ispanici e neri).

Geniale è allora riproiettare questo "scontro di civiltà" all'indietro, nell'irripetibile stagione che affermò i diritti civili e la libertà sessuale, e risolverlo con l'ironia e lo humor dell'incontro linguistico (spanglish), che diventa esistenziale: l'ouzo come il bourbon come l'aguardiente, il bouzuchi come la cumbia. Tutto è blues, odore, sapore, forza, anima, paesaggio. Romero ha trovato uno stile e uno spessore "classico", che fonde in una irresistibile sceneggiatura cinematografica la suspence del thriller, il romanzo di formazione e la critica (storia) della globalizzazione - nella danza del parlato comune, nell'essenzialità dei dialoghi, nel tenero distacco del "correlativo oggettivo". Da grande narratore (onnisciente), equanime e compassionevole: affascinato dai rituali taoisti in Cina, come da quelli ortodossi al Monte Athos, dice "in qualche vita precedente devo esser stato un monaco".

Quest'apparente semplicità espressiva, in cui si risolve la complessa inter-testualità della Ruota - soprattutto con la letteratura e la poesia nordamericana su Chicago (patria di Hemingway) - crea ostacoli quasi insormontabili al traduttore in italiano, lingua che non dispone di un retroterra popolare 'imperiale', come il neobarocco ispanico o il modernismo epico statunitense.

Qui di seguito si propongono alcuni brani del romanzo, pubblicato in Colombia nel 2004.


Armando Romero
La rueda de Chicago

Traduzione di Nicola Licciardello

Capitolo iniziale

- 0 - Elipsio vede una ruota
 

Non ci si poteva aspettare niente di diverso da Livio Contreras. Come avesse una spina di traverso in gola, se ne usciva sempre con una delle sue: quelle idee che mandavano sconcerto o addomesticavano le immagini letterarie più audaci, anche se, quando sfociavano sulla carta, erano scarabocchi inutili. Inerpicato su uno steccato degli immensi recinti abbandonati dell'immenso mattatoio di Chicago, ripeteva al vuoto:
- La vacchetta ha detto muuu...
Lo recitava in inglese e spagnolo, there was a moocow coming down along the road, alternando, 'joyciando' questo gioco pericoloso, fra la burla e l'incontinenza della follia:
- La vacchetta ha detto mu, e subito le han tagliato la testa.
Poi era in francese che latrava a pieni polmoni, come se lo portassero alla ghigliottina, 'robespierrando':
- La vache qui rit...et qui dit meuh à l'instant meme ou on la décapite... e poi se la son mangiata i milioni di cannibali di questa città.
E si spanciava dalle risate Livio Contreras, coi denti gialli, marlborizzati, una giacca grassa di vapori londinesi, inerpicato su uno steccato vuoto, un traversone di legno vecchio, uno fra i mille che rettangolarmente si perdono nella distanza: ancora l'odore di sterco, merda di vacca, porco, pecora, capra, toro, bue, bisonte, portato da ogni dove qui, nel recinto più grande del mondo, il mattatoio, lo squartatoio infetto, il frigorifero, dove convergevano tutti i treni dell'Ovest: Santafè Railroad, Texas, Pacific, Atlantic Coast Railroad, Illinois Central Railroad, Oklahoma, Denver, Kansas, stracolmi di mandrie per la festa del profitto fra gli affamati carnivori al salone della Borsa, sorridenti tra cifre e tabulati.
- La fondazione mitica di questa città è stata fatta sulla merda di porci e vacche - Livio diventava letterario, e aggiunse: - Non li vedi qui, i loro fantasmi che cagano, morti di paura davanti a quel punzone finale? Non ti pare che se ne senta il fetore fra le righe di Borges? C'è un po' di cacca da quelle parti.
E la sua risata esplodeva in echi sui quadrangolari silenzi del recinto infinito, aprendo vuoti fra i pali degli steccati. Elipsio, anche lui avvinghiato a un palo, ben coperto dalla sua giacca di vecchio cuoio e la sciarpa scolorita, contemplava quel panorama di linee a ripetizione nell'enorme, piatto mare color giallo, dalle onde orizzontali, raggelate, una pagina a righe alterne. Fotografava la destra ma più la sinistra solitudine, il vuoto. Quanti animali di quelli a quattro zampe, che muggiscono, bramiscono, per anni, decenni, e ora il silenzio della sera, quando annotta, e l'irriverenza delle risate di Livio. Pensare, allora, all'ultima vacca, forse un toro, un vitello. L'ultimo muggito. Mu e basta.
- Ho una vacca da latte - cantava ancora con voce strozzata Livio, divertendosi con la muffa dei suoi pensieri nell'intenso, indescrivibile odore, miasma, vapore d'inferno di quel campo di concentramento intossicante, snervante. L'"infinito marciume abbandonato".
Città di macellai: Chicago, con il mattatoio più grande del mondo, ora finalmente chiuso, cancellato qualche mese prima, la ghigliottina più grande del mondo che si ossida al sole. Tutto per la competizione col mondo intero, in questo paese che in arroganza è il più grande del mondo, pensò Elipsio.
- Non è una vacca qualunque - si sgolava Livio.

Quel mezzogiorno d'inverno, in un sole radioso di primavera, Livio era arrivato con una salsiccia, un pane italiano e una bottiglia di vin Gallo, "del più schifosetto, però è l'unico che ho potuto trovare nel tuo saporito quartiere", all'appartamento che Elipsio divideva con Okey Peterson, l'Illuminato. Un appartamento che puzzava di gas e roba usata, legno vecchio, piatti mai lavati, lenzuola sporche, spazzatura di giorni e fumo di treno. Era sulla North Sheffield, prima di arrivare ad Armitage, e dietro, quasi sulla finestra della stanza di Elipsio, passava per giunta l'EL, il treno della città, il metrò più rumoroso del mondo, che scardinava il letto come se stesse facendo l'amore con i terremoti, e nell'ora di maggior traffico, fra le 6 e le 8, il letto e tutta la casa entravano in risonanza con la vibrazione del treno e il cigolio dei freni nell'adiacente stazione, allora Elipsio aveva una specie di satori, rimbalzando sulle pareti; da tutto questo si difendeva in uno stato fra il sogno e l'incubo.
Livio affettò la salsiccia, con un coltello che lasciava ruggine come se fosse burro sul pane e cercò nel frigo qualcosa che sapesse di senape, ma trovò solo un flacone di Tabasco e versò quello, più sale e pepe.
- È un guaio quello degli scarafaggi - disse vedendone uno morto fra i piatti. - Comprati una di quelle trappole che vendono: li eliminano in quattro e quattr'otto.
Livio odiava gli scarafaggi, forse era un problema di famiglia, pensò Elipsio, lui non ci faceva tanto caso, inoltre Taima, la gatta, se li mangiava o li uccideva con devozione mattutina; peggio erano le mosche: le mosche verdi dell'estate, abbacchiate ora in inverno, le mosche più grosse del mondo. Ed erano tornate le formiche.
- Sarebbe bello tenere delle formiche, ma qui non vengono nemmeno con tutto lo zucchero che gli lascio in giro - disse.
- La prima cosa che l'inquinamento si porta via sono le formiche - disse Livio con un pezzo di salsiccia a metà tra i denti.
- No, le farfalle. A Città del Messico non ce n'è una.
- A parte quel farfallone di Octavio Paz - disse Livio, velenoso.
- Dovresti procurarmi una di quelle formicone, ormai le trovi solo nei parchi, magari qui fanno nido - disse Elipsio.
Questo era un tema pericoloso con Livio, perché erano ormai mesi che lo avevano cacciato dal posto al Distretto dei Parchi, ci lavorava ancora, ma come impiegato fantasma, trafficando con le piante, rubando germogli e semi, e nessuno sospettava che non lavorasse ancora lì: si presentava alle serre pubbliche come fosse il più alto funzionario, riempiva la sua Fiat di tutto quello che poteva, per scaricarlo nel negozio che in un lampo aveva aperto con Okey Peterson, l'Illuminato. Allora rispose che non aveva tempo per le formiche, figuriamoci, stuzzicare formiche con uno stecchino nei parchi, è questo che vuoi, ma ti pare che non mi mandano a calci al manicomio, e poi in carcere, ladro di formiche, che razza di idea, amico, mangiati la salsiccia che sei troppo magrolino, ed Elipsio addentò il suo sandwich.
Livio non smetteva di camminare e frugare dappertutto:
- Accidenti, questo posto è un porcile. Cos'è quella schifezza sotto il tavolo ?
- I funghi dell'Illuminato, ricordi? sono velenosi, però Okey dice che fanno fuggire le mosche verdi.
Era una delle poche volte che Livio veniva a trovarlo a quell'ora. Dopo aver ficcato il naso dappertutto, si piazzò sul vecchio seggiolone del soggiorno con il bicchiere di vino.
- Kathleen è incinta, o così sembra - disse piano, cupo.
Elipsio restò in silenzio. Con Livio la vita non era una festa, ma una fregatura, un biberon asciutto, e a volte pericolosa.
- Cosa pensi di fare? - gli chiese infine.
- Non sono fatto per i mocciosi, caro mio. Io lancio spermatozoi a vuoto, m'importa un cazzo. La faccenda dei biberon e pannolini mi terrorizza. Capisci? la maternità rovina le donne, diventano tiranne rompicoglioni, la dittatura del matriarcato, figurati.
- La fai abortire? - chiese Elipsio, senza rendersi conto della direzione della domanda. Livio si mise a ridere.
- Fosse per me, domani stesso, maestro. Sono fatti suoi. Io le dico quello che penso. Fra l'altro, credo stia per andarsene. Sospetto che si sia messa con un medico dell'ospedale. Magari è già da un bel po', quel bebé non è mio.
- Non credo, amico. Kathleen è una ragazza tutta d'un pezzo, da brava luterana.
Livio scoppiò a ridere.
- Che cazzo, a volte sei tenero fino al ridicolo. Kathleen è un angelo gringo. Non c'è niente da fare. E' una che ti fa i conti in tasca. Un angelo con cervello di coca-cola, bollicine pure.
- Perché credi ti stia tradendo?
- Perché è già un po' che la mattina saltella contenta per tutta la casa, in bagno gli asciugamani sono sempre puliti e sistemati, e la notte le viene da cantare mentre cucina. Inoltre la cosa peggiore è che se ne va in giro con Jeanette, le hai viste al ballo di fine anno?
- La verità è che stai diventando paranoico.
- No caro, paranoico è chi crede in Dio. Io sono ateo come mio nonno, il Gran Nero.
Non restava molto nella bottiglia, ed Elipsio aveva messo su un disco di Ray Charles.
- Quel cazzone non ha anima, amico - disse Livio - È puro ornamento dolciastro, negro rammollito, una gelatina di carbone.
Davvero quel giorno non gli girava bene a Livio.
- Allora usciamo? - suggerì Elipsio.
Sono qui per questo, brother. Non avevi detto che volevi conoscere il grande mattatoio del mondo? Dopo più di cent'anni, lo hanno appena chiuso, ma l'odore di merda è ancora bello fresco, è l'essenza di questa città.
Ed eccoli lì i due, soli, due puntini in uno spazio ripetuto ad nauseam di pali come croci, parallele, triangoli, quadrati, rettangoli, Livio a inseguir vacche, svelto con l'inglese, a imitare John Wayne con un cappello invisibile, in un rodeo di sogni come fantasmi. Ed Elipsio, grazie al vino e ai suoi intrugli, sentì in quel momento che la vita reale li lasciava, che tutti gli affanni quotidiani sparivano e che, come al cinema che facevano al Quartiere Operaio a Cali, la sua città, la macchina da proiezione si bloccava, e ora scorreva intero il film della sua vita a Chicago fino a quel momento, dal giorno che era sbarcato in città e tutte le cose avevano cominciato a scivolare in una direzione imprevista e intricata.


Dal capitolo III

La ruota piccola gira in basso
 

Sheng, approfittando del casino, chiese a Elipsio che l'accompagnasse a fare un giro per la casa, "non sopporto questo tipo di discussioni, mi deprimono molto", disse.
L'atrio da cui prima erano entrati si apriva in varie direzioni all'esplorazione di Sheng ed Elipsio. Enormi candelabri dal tenue chiarore disegnavano sulle pareti l'ombra, più che la luce, di una sfilata di imperatori e ciceroni romani, coronati da una statua di Afrodite nuda in fondo.
Elipsio, impressionato dallo splendore e la ricchezza che si mostrava ai suoi occhi, man mano che si abituavano alla penombra, strinse la mano di Sheng e lei sorrise. Con cautela aprirono una porta laterale e subito si trovarono in un salone di ricevimento stile impero, con sedie di legno dorato e tappezzeria di broccato, un enorme pianoforte a coda, tavolinetti di legno scuro intarsiato, un caminetto anch'esso in legno, adorno di gambe doriche, stemmi in lamine d'oro, coprifilo e mensola di marmo, sul quale riposavano due stilizzati acquamanili dalle maniglie ad angelo e il lungo beccuccio, decorati a fiori e arabeschi.
Sheng si muoveva per quella casa lussuosa quasi levitando, nella densa penombra dei motivi persiani, accarezzando con le dita il legno pulito dei mobili, il freddo del marmo, la delicatezza di linee del pianoforte. Elipsio osservava con interesse una serie di quadri, che raccontavano gesta napoleoniche o facevano vivere volti, corpi e paesaggi alla Ingres o alla David. Il salone di ricevimento era collegato da una gran porta, ora nascosta dentro il muro, con un altro enorme salone da pranzo, sulle cui pareti spiccavano lampade in cristallo di rocca e un tavolo di mogano nero, con zampe ricurve terminanti in grandi zoccoli leonini. Un completo di porcellana cinese, che Sheng riguardava incantata, splendeva su una tovaglia bordata fino al delirio spagnolo.
- È incredibile tutto questo - disse Elipsio a bassa voce, già che il silenzio era totale. Per qualche strana ragione acustica il rumore della festa di David era scomparso.
- È la casa di un supermilionario. Tutto di ottima qualità. Guarda qui - disse Sheng, indicando i quadri alle pareti - Qui sono tutti impressionisti, che meraviglia. È un museo.
Un'altra porta in fondo permise loro di passare in una specie di anticamera, che dava su altre stanze. Qui risaltava una consolle a specchio, il cui ripiano era sostenuto da due cariatidi alate. Due vasi smaltati provocavano strani scintillii alla luce dei candelabri, che lasciavano intravedere su un fianco alcuni gradini con passamano, terminanti in globi grandi come soli e balaustrate riccamente decorate. A ogni piano, davano il passo begli archi in legno. Senza far rumore, presi per mano, salirono al secondo piano, dove un altro labirinto di saloni interconnessi da bui corridoi dava ai bagni in ceramica e alle stanze da letto in cedro. Ciascun salone era adorno d'oggetti, quadri, mobili rappresentativi di una regione o un continente. Sheng restò interdetta vedendo il salone cino-giapponese, dove i due leoni cinesi dell'entrata coabitavano con cacciatori di demoni in legno scolpito, uno scimpanzè Netauke pendente sulle loro teste, lampade di marmo, maschere di dèi sorridenti, vasi di bronzo, spade, armi di ogni tipo, paraventi con scene tratte dal Palazzo d'Estate di Pechino, e gatti di porcellana Hirato su pannelli di legno.
Ogni salone apriva a un'altra realtà, e così videro lo Shiva danzante dentro un cerchio di fiori ardenti, la fontana del Palazzo dei Leoni all'Alhambra, una cappella romanica, trittici delle corti medievali, libri d'Ore, lampade di moschea, mosaici di lapislazzuli, consolle da toilette con specchio in cristallo di rocca romboidale e piedi a lira.
Quasi correndo, saltando fra gli oggetti, andavano i due di stanza in stanza, aprendo porte e cortinaggi, senza più paura di incontrare nessuno, e come snervati, ubriacati da tutto quel favoloso lusso. Senza sapere come, si trovarono così al terzo piano, e quando Elipsio aprì una porta, apparve loro di fronte, nel luccichìo delle sue canne, col sistema di tiranti e tastiere e pedali, un organo che pareva quello di Bach o Haendel. Oppressi dal peso del silenzio che usciva da tutte le fessure dello strumento, scivolarono a terra sul gran salone, e lì rimasero, corpo contro corpo, ansimanti, finché Elipsio girò la testa e vide il volto di lei, i suoi occhi, le sue labbra, e senza più pensarci la baciò con tutto l'ardore di quel desiderio che aveva da quando l'aveva conosciuta a Lincoln Street.
Ruotando coi corpi allacciati percorrevano tutta la stanza, ridendo, baciandosi, le mani di lui dentro il corpo di lei, la gambe nude di lei fra quelle di lui, le dita di lui accarezzando i seni di lei, le dita di lei fra i capelli di lui, i corpi palpitanti, il sesso di lui sul ventre di lei, "ti amo", le diceva, "ti amo in spagnolo, in cinese, in inglese", e lei rideva ancora di più, felice. Ma improvvisamente, come per un incantesimo, il corpo di lei si irrigidì come il marmo, ed Elipsio si accorse che i suoi occhi guardavano qualcosa oltre le proprie spalle, le mani lo spingevano per separarsi, la bocca quasi sul punto di gridare, pallida contro la poca luce dei lampadari.
Comprendendo che qualcosa andava di traverso alla realtà desiderata, Elipsio si separò da lei e seguì con gli occhi ciò che lei guardava con sorpresa e terrore. In fondo alla sala, vicino all'organo, una donna alta, elegante nel suo vestito azzurro ultramarino, li fissava attentamente.
- Ci scusi, ci scusi - disse Sheng già in piedi, aggiustandosi l'abito. Elipsio la seguì infastidito, intimamente tirando maledizioni.
- Non si preoccupi, non si preoccupi - ripeté la donna, in tono dolce e soave - È bello vedere che i giovani si amano. Voi siete amici di mio figlio ?
- Sì - dissero i due.
- È meraviglioso vedere che l'amore è tornato nella mia casa - disse lei - Come vi chiamate? -
Glielo dissero.
- Che interessante. Vedo che voi siete del favoloso oriente, non è vero? E voi del Messico, probabilmente.
- Colombiano - disse Elipsio, sentendosi immediatamente stupido.
- Mio marito aveva un grande amore per i latini - disse lei. Noi abbiamo fatto un po' di soldi con la gomma da masticare, "chicle" la chiamate voi, vero ?
- Sì - disse Elipsio.
- Mio figlio ora è diventato comunista, siete anche voi comunisti?
- No - disse Sheng.
- È bene che mio figlio abbia anche amici non comunisti. Non va bene che tutti i giovani diventino comunisti, vero? Mancherebbe un po' di varietà in tutte le cose.
- Sì, ha ragione - disse Elipsio.
- Ma va bene che tutti i giovani si amino. Scusatemi se vi ho disturbato, ci sono molte stanze vuote in questa casa, se volete star più comodi.
- Grazie - disse Sheng - ma credo sia un po' tardi e sarà meglio che andiamo.
- Che peccato - disse lei - I giovani devono amarsi sempre. Però ora sta nevicando. Venite a trovarci un'altra volta. È bello ascoltare quest'organo, ma questa notte non voglio molestare mio figlio. Sono così felice che sia tornato. Io sono sempre sola e lui è un ragazzo così dolce, vero ?
- Certo, signora - disse Sheng, commossa.
- Questa è la casa di tutti gli amici di mio figlio, non importa se sono comunisti. Mio marito era uno che odiava i comunisti, io no. Tornate - disse lei, e sparì da una porticina che stava dietro l'organo.
- Non dimenticherò mai quella donna - disse Sheng a Elipsio, quando all'alba si separò da lui lasciandolo nel suo appartamento.
- Nemmeno io - rispose lui, e rimase a guardarla fisso - Ti amo.
- Ci vuole ancora del tempo perché arriviamo a quello - disse lei.


Dal capitolo V (finale)

- 0 - Elipsio ha visto una ruota
 

Dopo una breve pausa, durante la quale rapidamente furono sistemate le sedie e la batteria, provati il pianoforte e i supporti per le partiture, comparvero uno per volta le cornette, i sassofoni, la chitarra, il basso. Tutti gli strumenti di fronte al vento degli applausi, quando in un rutilare di luci, basso e grassottello, molto elegante, coi suoi baffi già canuti ma con il sorriso di sempre, come nelle copertine dei dischi, apparve Count Basie, il Conte, quello che Henry Miller, nel suo Colosso di Maroussi, aveva messo sul trono dell'aristocrazia del jazz, assieme al Duca e al Re. In mezzo all'arabesco dei vecchi e giovani in sala, con le braccia in alto, e "black power", "black is beautiful" nei cuori, il Gran Conte Basie si sistemò la giacca e distese le mani, lanciandosi al pianoforte in qualcosa che a Elipsio ricordava quel "One O'Clock Jump" che ascoltavano nelle notti di Cali, il vecchio disco che, lui senza giradischi a casa, metteva su nelle feste dei "camicia-rossa", e Lamia inebetita che sorrideva, al vederlo dondolare mentre cercava di seguire "swinging the blues", il ritmo del jazz, e anche di insegnarlo a lei, raccontandole storie dal libro di Ulanov, con la scelta di Panassie in mano, e Count Basie che raschiava, rigato dalla puntina logora del giradischi, in certi brutti punti ripetendo all'infinito, e la polvere della strada, la città nella distanza che era Cali era ora Chicago, senza di lei, Lamia perduta nella moltitudine, magari era lì anche lei, a urlare, ad applaudire vicino al palco, muovendo la testa, pensando a lui e a Cali. Ed ecco, si alzò dalla sedia il sax tenore e fece un assolo, lasciando poi rispondere il trombone, che a sua volta aprì il passo a un altro sax tenore (non più Lester Young, purtroppo), infine la tromba concluse il battibecco fra le cornette e i corni, creando l'attesa perché entrasse a suonare tutta la banda, e Count Basie dava sul pianoforte coi piedi in aria: "Pat your foot", così una volta aveva definito la sua musica, "datti pacche sul piede", semplicemente, però con la disciplina di un rituale generoso, sensuale e disinvolto, corpi che danzano, acqua viva per l'intera stalla della musica che era The Club, bianchi e neri, gialli e azzurri, Elipsio preso nei cori, nelle frasi brevi, di due misure, e dalle lunghe, che si ripetevano con un ritmo e una melodia estenuanti, proseguendo interminabili nella notte, contaminando tutto, cangiando le immagini come in un grande poema, a volte trinciante come il transiberiano de Cendrars, o soave come il vento e i mari di Perse, misterioso come un hotel a Buenaventura di Enrique Molina.
Marty era andato a chiedere un paio di birre, e sembrò sparire nella massa. Elipsio rimaneva ancorato alla sedia, accanto alla coppia amabile e distinta. Lo sposo non voleva ballare e lei che insisteva, danzando sul posto con le spalle, il capo, i fianchi, e l'uomo ridendo le disse perché non balli con Elipsio, lui è un bel giovane come te, e lei uscì a ballare, Elipsio dietro, non si allontanarono che di pochi metri dal tavolo, in uno spazio minimo, e altri li seguirono a dar salti su quel pavimento di cemento, girando e rigirando in equilibrio, come la musica richiedeva.
Non fu difficile per Elipsio cominciare a sentirsi davvero bene affiatato col gruppo che si era formato al tavolo, ben presto ebbero a scambiarsi inviti a bere e sigarette, e nei brevi intervalli il dialogo passò dalle montagne colombiane alle strane curvature del jazz, le valli del Mississipi, e ancora la Chicago del presente, Chano Pozo, Santana, Mongo Santamaria, il mambo, com'è bello il mambo, e tutti che ridevano. Passate le due del mattino, Elipsio notò che Marty era sparito, così andò a fare un giro al bar in fondo, ma non vide nessuno del gruppo Ratzos, nemmeno l'ombra di Judith o Gretchen, "la spettinatella lesbicona". A quell'ora l'orchestra terminava di suonare, ma la conversazione delle tre coppie al suo tavolo continuava senza sosta a render grazie al whisky. A un certo momento la signora amica, compagna di ballo, gli disse, a parte, che voleva chiedergli un favore. Elipsio ne fu un po' sorpreso.
- Non è per me, è per questi amici qui - disse indicando una delle coppie all'altro lato del tavolo.
Elipsio disse - certo, naturalmente, cosa desidera, e i due si avvicinarono, sedendosi vicini.
- Mi chiamo Marcina, molto piacere - disse la donna - Mio marito, Carmelo.
Elipsio strinse loro la mano dicendo il suo nome, e si meravigliò che non lo trovassero strano. Restava tale per i suoi buoni amici latinoamericani.
- Si tratta di nostro figlio - disse l'uomo, e tutti prestarono attenzione, in un silenzio grave - L'hanno ucciso un paio di mesi fa in Viet Nam.
Marcina, infiorata nel suo vestito lungo di festa fine settimana, tirò fuori un fazzoletto per asciugarsi le lagrime.
- Mi dispiace - disse Elipsio.
- Grazie - disse l'uomo - Sa, il suo miglior amico era un giovane portoricano, e questo giovane, che è ancora là, ci ha scritto una lettera su nostro figlio, ma è in spagnolo e noi non conosciamo nessuno che ce la traduca, capisce? Noi la paghiamo, non c'è problema, se lei ce la traduce, cioè, ci basta leggerla.
- No. Non dovete pagarmi niente. Lo faccio molto volentieri. Dov'è la lettera, l'avete qui?
- No. Questo è il problema ora. Lei dovrebbe venire a casa nostra, non è distante.
- Però io sono lontano da casa mia e pare che gli amici con cui sono venuto se ne siano già andati.
- La riportiamo noi a casa, non si preoccupi. Ho la macchina qui fuori, sa? Così beve un altro whisky con noi e poi ci fa questo favore, le saremo grati.
La casa di Carmelo e Marcina era vicino al Regal Theater, un po' più su della 47, sul Grand Boulevard. Era una casa media, comoda anche se piccola.
- Era il nostro unico figlio, Bobby - disse lei, mostrandogli una fotografia di loro tre, con il lago e la città in fondo.
Mai Elipsio aveva sentito veramente la guerra, sempre insensibile a tutto quel massacro, ma ora la vedeva vicina e chiara, coi suoi avvoltoi e le sue bestiacce velenose. Carmelo servì un generoso bourbon con ghiaccio a lui, e per sé un altro, secco. La lettera in mano.
Elipsio la lesse tutta, in silenzio, per farsi un'idea generale, e dovette dominarsi, perché cominciavano a tremargli le mani. Un altro po' di whisky e cominciò a tradurla col suo miglior accento, lentamente, passando a forti sorsi fra gli scogli del dolore. Era una lettera semplice in cui, dopo una lunga introduzione che descriveva l'amicizia fra i due giovani, le campagne insieme per fiumi e foreste, infestate da "commies" e napalm, iniziava la più straziante descrizione che Elipsio potesse immaginare - e in inglese era peggio, le cose suonavano con più violenza - del pattugliamento che gli era toccato di fare e che era terminato con la morte, accanto a lui, del figlio di Carmelo e Marcina. Dettaglio su dettaglio, le parole del portoricano cadevano come il sangue del ragazzo e si spandevano sul tavolo, per la stanza. Elipsio a volte incespicava, cercando di saltare un pezzo, una descrizione, ma era impossibile. Una terribile forza trascinava anche lui nel vuoto di quel dolore senza limiti.
Finita la lettera i tre rimasero in silenzio. Lei la richiuse e se la strinse al petto. Elipsio, per tutto il bere e quelle parole era anche lui senza più corazze o difese, poi strinse la mano ai due e formò una ruota, un cerchio, e i tre pregarono in silenzio per il ragazzo andato, 19 anni il prossimo febbraio, acquario come suo papà.



Opere di Armando Romero

Romanzi:
La Rueda de Chicago (2004)
La piel por la piel (1995)
Un día entre las cruces (1993)

Raccolte di racconti:
Lenguas de juego (1998)
La equina del movimiento (1992)
La casa de los vespertilios (1983)
El demonio y su mano (1975)

Saggi:
Gente de Pluma (1989)
El nadaísmo o la búsqueda de una vanguardia perdida (1988)
Las palabras están en situación (1985)

Raccolte di poesia:
Hagion Horos-El Monte Santo (2001)
Cuatro líneas (2000)
A rinda suelta (1991)
Las combinaciones debidas (1989)
El poeta de vidrio (1984)
Los móviles del sueño (1976)

 

nicola.licciardello@libero.it



Vedi anche:
Armando Romero, La radice delle bestie
di Alessio Brandolini (numero 1, gen/mar 2006)