Memoria del dolore e luce della scrittura
La narrativa di Dante Liano è uno specchio, in genere tormentato e drammatico, del mondo in cui lui stesso è nato e cresciuto, ossia, l’America Centrale e in particolare il Guatemala, con la sua storia segnata da violenze politiche, dittature, guerra civile, e con una popolazione mista, composta da una maggioranza di amerindi, di origine maya quiché (41%) e una minoranza formata da meticci (30%), bianchi (4%) e creoli (11%), di cui la metà vive in condizioni di povertà e un 10%, o forse di più, in condizioni di estrema povertà. Anche in questo racconto emergono le difficoltà della vita quotidiana in quei piccoli paesi arrampicati sulle montagne, lontano dalle città più attrezzate ed evolute, come si vede dalla povertà in cui vive il protagonista, il Maestro, un insegnante che non guadagna abbastanza da poter avere una residenza propria, e dalla costrizione a trasferirsi nella sua nuova sede di lavoro a dorso di mulo. Da certi particolari, come il fatto che vengono usati telefoni cellulari e si è diffuso il ricorso al “chat”, si può dedurre che la storia avviene nei nostri giorni o non molto indietro nel tempo; il che vuol dire che la povertà di questi ambienti non ha permesso l’evoluzione e il progresso.
I dati storici sono dati attraverso personaggi inventati, ma rappresentativi della storia reale del Guatemala: il dittatore che viene rammentato è un «generalissimo che restò al potere per trent’anni», chiamato Vargas Llerena, che è un nome inventato; ma la lunga durata del suo regime riflette il periodo dagli anni cinquanta agli anni novanta in cui gli Stati Uniti hanno sostenuto l’esercito del Guatemala con addestramenti, armi e finanziamenti, coinvolgendo perfino la CIA e agevolando nel potere figure negative come il militare Carlos Castillo Armas. Altri personaggi rammentati nel racconto sono invece reali: è il caso di César Brañas, che nella capitale riceve dal Sindaco poesie scritte dal Maestro e le pubblica su «El Imparcial». César Brañas, in effetti, è stato un giornalista, saggista e critico letterario, oltre che poeta, vissuto tra il 1899 e il 1976, che ha collaborato per molti anni con il quotidiano «El Imparcial».
Altri indici della realtà guatemalteca si trovano nell’uso di vocaboli tipici del linguaggio popolare locale, come “desguachipado” (che abbiamo tradotto malridotto), “tiliches” (tradotto cianfrusaglie), “puyar” (tradotto punzecchiare), e soprattutto quello che compare già nel titolo: “Tícher”, forma spagnolizzata dell’inglese teacher, molto comune in Guatemala per dire appunto Maestro. Oltre al vocabolario, compare nel racconto un altro tratto tipico dello spagnolo centroamericano, l’uso del voseo, che però naturalmente si perde nella traduzione.
Nel ritratto di questa società non può mancare il riferimento alla cucina tipica e ai piatti più popolari, come si vede quando il protagonista, il Maestro, arriva nel paese dove dovrà lavorare come insegnante della scuola, e lo portano a mangiare nell’unica pensione che c’è, dove il cibo era «sano, casalingo, misurato». I nomi dei piatti e degli ingredienti usati non si possono tradurre e sono rimasti come nell’originale; si tratta di:
– salpicón, un’insalata di frutti di mare;
– tamales, plurale di tamal, un involtino preparato con un impasto a base di mais e ripieno di carne, verdure, frutta o altro, e che possono essere salati o dolci; il nome deriva dalla lingua nahuatl, tamalli, e significa avvolto;
– frijoles negros en tres versiones: parados, colados y volteados, fagioli neri parados, cioè con aglio e cipolla; colados, frullati e macinati e poi conditi; volteados, macinati, conditi e poi ripassati in olio d’oliva;
– plátanos, la banana platano, che ha la buccia verde ed è più grossa e lunga della banana gialla, meno dolce e più ricca di amido e si usa come ortaggio, diversamente dalla banana; è molto usata in America Centrale, nelle Antille e in Sudamerica;
– salsa chirmol, salsa tipica del Guatemala, fatta con pomodoro fresco, che serve per condire carni alla griglia, piatti a base di uova e zuppe;
– tortilla, alimento tipico della cucina messicana e centroamericana, è una sottile sfoglia di farina di mais e si usa come il pane, per avvolgere o semplicemente per accompagnare altri cibi;
– café de olla, caffè fatto in pentola (olla), facendo scaldare e bollire insieme l’acqua e il caffè e aggiungendo zucchero di canna e buccia d’arancia.
Tutta la storia del Maestro, al di là della scarsità di risorse e della mediocrità materiale e umana che lo circonda, è segnata dalla disgrazia, dai ripetuti colpi di un destino fatale. Ma il tono della narrazione non è privo in diversi momenti dell’ironia. Così avviene quando si spiega che lui apparteneva «a quel tipo di insegnante che conosce poco la sua materia», e si aggiunge «una condizione più comune di quanto si possa pensare». Ma l’ironia si scatena in seguito quando si spiega che il suo inglese, che doveva insegnare a scuola, non era pessimo ma quasi; e per rendere il concetto più vivace, si aggiunge: «Non che il suo inglese fosse come quello di Vito Manué, che sapeva dire solo “detrái guan” e “guan tu tri”, ma non era nemmeno molto migliore». Il narratore qui ricorre a una famosa poesia del cubano Nicolás Guillén, Tú no sabe inglé, da Motivos de son (1930), dove si riproduce la parlata popolare e si ironizza sul rapporto di inferiorità e sottomissione del cubano nei confronti del nordamericano.
L’ingresso della poesia nel racconto si une alla ripetuta segnalazione dell’amore per la poesia del Maestro, che non solo leggeva e raccoglieva libri di poesia ma la scriveva pure. Lui però non si impegna per far conoscere i suoi testi; sono gli altri, il sindaco, il giornalista, quelli che accolgono la sua opera e la diffondono. E forse, attraverso il contesto di sofferenza, di continui scogli, di colpi di sfortuna che caratterizza la vita del Maestro, nel sentimento di dolore che trasmette tutta la storia, emerge, proprio attraverso la poesia, una luce di speranza: il Maestro morirà senza saperlo, ma grazie ai suoi versi il suo nome entra nella storia e anche se lui non l’avrebbe mai immaginato è diventato «una celebrità, accresciuta dalla leggenda della sua vita di eremita e dalla sua assenza».
Storia dell’ingiustizia, memoria del dolore, scogli insuperabili: la vita può essere molto dura, sembra volerci dire il narratore; ma attraverso la forza creativa una luce può dare inaspettato senso a ciò che sembrava non averlo.
IL MAESTRO, I SUOI AMORI
di Dante Liano
Quando il Maestro scese dall’autobus che lo portava da Santa Ana, il Commissario cercò di non mostrare la delusione sul suo volto. Ciò che vedeva era ben lontano da quel che si era immaginato. Invece di un giovane alto, biondo e sportivo, scendeva dall’autobus un uomo sulla trentina, con i capelli spettinati, il viso da vecchio e gli abiti malridotti. Se qualcuno gli avesse chiesto una descrizione del nuovo Maestro, il Commissario avrebbe detto: «appassito». E non per gli effluvi di aglio che emanava, ma per l’evidente negligenza del vestito nero frusto e della camicia bianca portata chissà da quanti giorni. Si accorse, con stupore, che per reggere i pantaloni non indossava una cintura, di pelle vera o finta che fosse, ma un semplice nastro. «L’intellettualità del paese è pronta a farsi prendere di mira», pensò. Ma comunque sorrise e gli tese la mano. La mano del Maestro era molliccia e la mancanza di energia si rifletteva nel viso pallido e in un alone di solitudine che avrebbe disarmato anche l’uomo più temerario. La valigia era di cuoio vecchio, un po’ consunta e graffiata, chissà quale nonno l’aveva comprata. A pensarci bene, il Maestro era giovane, ma qualcosa lo faceva sembrare più anziano, forse la malinconia che sembrava pesare su di lui più della valigia da museo.
Il Commissario lo portò alla pensione Contreras, l’unica del paese, dove quella famiglia ospitava da secoli studenti, insegnanti e agenti di viaggio, in una casa dai mobili di pino e dai letti antiquati e scricchiolanti, spessi poncho per il freddo e materassi di paglia che ogni tanto punzecchiavano chi dormiva. Il cibo era sano, casalingo, misurato: brodo di pollo con riso e verdure per la maggior parte della settimana, carne ogni tanto, salpicón qualche sera, tamales il sabato, pollo la domenica, fagioli neri in tre versioni: parados, colados e volteados, con plátanos fritti cosparsi di zucchero, e per colazione uova, anch’esse in tre versioni: alla coque, fritte o strapazzate, con la doverosa salsa chirmol e, ad ogni pasto, abbondanti tortillas prodotte da alcuni compaesani venuti da Santa Cruz.
Dopo sei mesi di permanenza, il Maestro si era innamorato della figlia minore dei Contreras, con un amore simile a quello dei libri di poesia che raccoglieva nella sua spartana stanza. Era un amore etereo, inconsutile ed evanescente, tutti aggettivi tratti dalla letteratura romantica che il Maestro consultava con fervore. Era, inoltre, un amore inconfessabile, perché la ragazza aveva 15 anni e, invece di chattare al cellulare, giocava ancora con le bambole e nel pomeriggio cuciva. Il Maestro decise di aspettare; aspettò i tre anni che mancavano alla maggiore età e, appena poté, parlò seriamente con i proprietari della pensione e genitori della fortunata ragazza, che alzarono gli occhi al cielo con un’espressione da «ci mancava solo questo» quando ricevettero la richiesta della sua mano. I genitori della ragazza chiesero tempo per dare una risposta e tutti nel villaggio sospesero ogni attività in attesa della decisione. Come era prevedibile, dissero di sì, e la ragazza, consultata all’ultimo momento, non disse né sì né no, ma “bene”, che, nel linguaggio cabalistico di San Andrés, poteva essere preso come un’affermazione.
Il matrimonio fu, come tutto nella vita del Maestro e nella vita della famiglia Contreras, povero, modesto, privo di rumore. Nulla di quelle feste sfarzose che erano arrivate con la televisione, i telefoni cellulari e i film nordamericani. Gli abitanti di San Andrés erano stati contagiati da Hollywood e festeggiavano vestiti da star del cinema, solo che il fisico non li aiutava: ciò che si addiceva ad attori atletici e attrici anoressiche stonava con l’abbondanza di carne e la scarsità di altezza degli abitanti del villaggio. Sembravano cani col cappotto, pinguini col cappello, per non parlare delle signore che sembravano prosciutti in pacchi regalo. Ebbene, niente di tutto questo al matrimonio del Maestro e di Marina, che non aveva mai visto il mare perché era nata nelle montagne più remote. Messa breve e prete imbronciato, un sermone di ammonimenti e via a festeggiare a casa con birra, bicchieri di acquavite nazionale e vino dolce, per i raffinati. Cibo tipico e café de olla.
Un mese dopo il matrimonio, la fortuna sprezzante si abbatté sul Maestro. In un momento caritatevole, la Fondazione Fulbright gli concesse una borsa di studio per migliorare il suo inglese in una qualche università di New York. Quel finanziamento era provvidenziale, perché il Maestro non aveva i soldi per affittare una casa, e gli sposini avevano continuato a vivere nella pensione, con le naturali restrizioni degli effetti speciali che la convivenza familiare impone. Inoltre, va detto che il Maestro apparteneva a quel tipo di insegnante che conosce poco la sua materia, una condizione più comune di quanto si possa pensare. Non che il suo inglese fosse come quello di Vito Manué, che sapeva dire solo «detrái guan» e «guan tu tri», ma non era nemmeno molto migliore. Si giustificava dicendo che i bambini conoscevano a malapena lo spagnolo, figuriamoci qualunque altra lingua straniera.
Andarono negli Stati Uniti come chi parte per Marte. Con le lacrime afflitte della madre, con le raccomandazioni del padre, che non aveva mai lasciato San Andrés. Quando arrivarono a New York, quello che si apriva loro come un futuro di trionfo e di euforia, il meraviglioso mondo di felicità che avevano immaginato sarebbe stata la città al centro del mondo, si rivelò crudo e duro: l’affitto dell’appartamento di Harlem costava due terzi della borsa di studio. Loro, che avevano immaginato un universo in cui si ballava sotto la pioggia e si cantava alla Carnegie Hall a gola spiegata New York! New York!, si ritrovarono in mezzo ai rifiuti, ai topi e ai criminali in un universo troppo grande per tutti i suoi abitanti. In ogni caso, si abituarono alle ristrettezze della loro nuova vita, al cibo a buon mercato che, in quanto spazzatura, li faceva ingrassare, e così conobbero la grassezza della povertà.
Il primo 4 luglio che trascorsero lì non avevano abbastanza denaro per un tacchino ripieno o una torta di mele. Invece, Marina si svegliò con una tosse persistente che peggiorava con febbre durante il giorno. Di notte vomitava sangue. Nonostante l’assicurazione medica, il Maestro fu preso dal panico e decise di tornare. Non avendo soldi per i biglietti, chiese un prestito a un nicaraguense, suo compagno di corso all’università, e l’altro, che era un diplomatico, lo aiutò a fondo perduto, perché era anche poeta. E così tornarono al villaggio, il Maestro sconfitto e Marina malata.
Chissà per quali complicazioni genetiche, la polmonite contratta a New York si trasformò in una forma di polmonite molto più grave. Marina dovette essere ricoverata all’ospedale di Santa Ana, dove morì la primavera successiva. Il Maestro dimostrò quanto amava quella ragazza silenziosa; sembrava che un muro di marmo gli fosse caduto addosso. Era come nell’aria, come se neanche lui esistesse, durante la veglia, il funerale e la sepoltura. Diventò più piccolo, più magro, più rinsecchito. Chiese di essere trasferito nella città più lontana possibile e le autorità, che ricevevano solo richieste di trasferimento per la capitale, lo mandarono a San Mateo, un paese immerso nelle nebbie di freddo e di miseria di Huehuetenango. Lì visse come un eremita, mentre scriveva le più belle poesie che sarebbero state ricordate nel paese. Così, mentre cresceva il suo isolamento e il suo lutto inconsolabile, aumentava la sua fama di grande poeta. Perfino negli Stati Uniti scrivevano tesi sul Maestro. Ci vollero vent’anni prima che il Maestro incontrasse di nuovo l’amore, e fu crudele e doloroso come la prima volta, ma questa è un’altra storia.
Il Maestro aveva visto il comune di San Mateo su una vecchia e logora cartina scolastica, e quel comune lo si distingueva solo perché era sperduto tra le alte e nebbiose montagne del nord. Quando arrivò al capoluogo dipartimentale e si informò sull’autobus per San Mateo, l’autista delle corriere “La Unión” gli mostrò i pochi denti che gli erano rimasti. «Lì non ci arriva niente, nemmeno una moto», gli disse. «Deve salire la montagna a dorso di mulo. Parli con don Heriberto» e, con un gesto delle labbra, indicò un uomo col cappello che sembrava fuso con la pietra su cui era seduto. Il Maestro si diresse lentamente verso l’uomo, che sembrava dormire agitato. Quando l’uomo avvertì una presenza, aprì gli occhi, spaventato. «Che succede?», chiese. «Devo andare a San Mateo. Sono il nuovo insegnante della scuola». L’uomo lo guardò con due occhi segnati dalla vecchiaia, di cui uno sembrava appannato. «La porto a dorso di mulo», disse. «Lei e le sue cianfrusaglie, se non sono troppe». La valigia del Maestro era la stessa di sempre: scrostata, vetusta, grinzosa.
Pranzarono in una povera bettola della piazza e il Maestro sentì il pungiglione della nostalgia mentre beveva il brodo di pollo con riso, uguale a quello che servivano nella pensione Contreras e che portava con sé il ricordo di Marina, Dio l’abbia in gloria. Lo stomaco gli si restrinse e il movimento gli causò una specie di singhiozzo. Il mulattiere lo guardò, preoccupato che potesse essere malato. Dopo pranzo si avviarono verso la sierra, lungo sentieri ripidi che solo il mulattiere conosceva. Perfino la mula inciampava di tanto in tanto, a causa del terreno sassoso. Mentre salivano, il villaggio restava via via più in basso, sempre più giù a ogni curva del sentiero, come se stessero volando e lo vedessero da un tappeto magico. L’aria diventava pungente, piena dell’odore di pino emanato dagli alberi, e diventava leggera anche, mentre ansimavano per la mancanza di ossigeno. Il mulattiere era silenzioso, scostante, brusco. Il Maestro si avvolse nel suo dolore.
Due ore dopo scendevano nella Piazza di San Mateo. Una chiesa biancastra e sporca presidiava il parco, o quello che avrebbe dovuto essere un parco, fatto di terra indurita, qualche pianta, un’altalena arrugginita e quello che doveva essere stato un chiosco. Dall’altra parte della chiesa, un edificio di mattoni crudi con il tetto di latta ospitava il Municipio, che era Municipio e anche tribunale, stazione di polizia e prigione, poiché il Sindaco, in assenza di altre autorità, fungeva anche da rappresentante dell’ordine, giudice e deputato. «Parla con il Sindaco», gli disse il mulattiere. «Io fin qui sono arrivato». Il Maestro gli pagò i trenta pesos che avevano pattuito e guardò l’uomo e il suo animale allontanarsi, due figure solitarie che sparirono nel bosco che circondava il villaggio.
Il Sindaco non poteva credere che ci fosse qualcuno così disorientato da accettare di andare a perdersi a San Mateo per dirozzare i bambini del posto. «Ah, maestro – disse –, dovrà andare a prendere i bambini nei campi e discutere con i genitori perché diano loro il permesso di venire a scuola. Nel frattempo, le mostrerò la scuola, che sarà anche la sua casa». Fecero pochi passi e il Sindaco tolse il lucchetto da una porta che sembrava dovesse cadere da un momento all’altro. Si aprì un panorama desolante: vetri rotti attraverso i quali entrava il vento della montagna, il pavimento ricoperto da uno strato di polvere e i banchi di legno non verniciato, anch’essi impolverati. C’era la lavagna, ma non il gesso. La cattedra era un semplice tavolo, appena distinguibile dai banchi dei bambini. «C’è molto da fare – gli disse il Sindaco –. Visto che è venuto, le manderò una ragazza che l’aiuti a pulire, che le prepari da mangiare e le riordini la casa». La casa era una stanza accanto all’unica aula, un letto sepolto da spessi poncho di lana, che stavano a dimostrare quanto freddo potesse fare di notte. Il Maestro lo capì, ore dopo, quando sentì le lenzuola gelate che dovette riscaldare con il proprio corpo.
Il giorno dopo, mentre il Maestro girava per i campi e discuteva con i genitori perché dessero il permesso ai loro figli, arrivò la ragazza per pulire e cucinare. La giovane era silenziosa, non tanto per il suo carattere, ma perché temeva il prestigio di letterato del padrone. Arrivava al mattino, spazzava e metteva in ordine, cucinava e se ne andava dopo pranzo. Il Maestro, nel frattempo, si disperava, cercando di inventare metodi per insegnare a leggere e scrivere senza matite né quaderni. Un solo libro aveva portato con sé, e quel libro andava bene per tutti. Alla fine dell’anno sarebbe stato premiato, perché, contro ogni profezia, i bambini leggevano un po’ e sapevano fare addizioni e sottrazioni. In effetti, erano molto bravi in aritmetica, all’altezza della fama dei Maya, che sapevano fare il calcolo infinitesimale solo osservando il movimento degli astri.
Nei dieci anni in cui visse a San Mateo, il Maestro occupò il suo abbondante tempo libero scrivendo poesie. Ogni tanto il Sindaco scendeva nel capoluogo e imbucava le buste di liriche che il poeta inviava alla capitale, dove César Brañas le pubblicava su «El Imparcial». Senza saperlo, il Maestro stava diventando una celebrità, accresciuta dalla leggenda della sua vita di eremita e dalla sua assenza. Questa vita si interruppe quando il Maestro si ammalò di una polmonite a decorso rapido che lo portò in ospedale. A causa della sua fama, una volta guarito, il Ministro ordinò di trasferirlo ad Antigua, perché non aveva abbastanza raccomandazioni per essere spostato nella Capitale. Continuò a vivere modestamente e a casa sua andavano a trovarlo, deferenti, giovani aspiranti scrittori o poeti già affermati che divennero suoi amici.
Una di queste visite fu fatale. Andò a trovarlo un’aspirante poeta, una giovane e bella donna, i cui sforzi per conquistare un posto nel provinciale Olimpo del paese erano stati frustrati, nonostante diversi libri di poesia audace, irriverente, demistificante e antiborghese. La giovane donna avvolse il Maestro, che aveva già superato i 55 anni, con i suoi abiti raffinati, i profumi dolciastri e i suoi pertinenti battiti di ciglia, sospiri e pericolosi avvicinamenti. Soggiogato, dopo un certo tempo dedicato a elaborare fantasie e a provare dichiarazioni d’amore, il Maestro cadde ai piedi della donna che lo ammonì: «Amore sì, ma casto e puro, perché sono sposata con tre figli». Sperando di abbattere quel muro invincibile, il Maestro accettò le condizioni e iniziò a scrivere furiose poesie di eros appassionato, che divennero, anni dopo, un classico della poesia in lingua spagnola. Nel frattempo, egli presentò la giovane poeta come una grande promessa della letteratura nazionale e, grazie a questo, la ragazza ottenne pubblicazioni, prestigio e un’ondata di maldicenze contro di lei e anche contro il rimbambimento del Maestro e la sua erotica senilità. Alcune cose si perdonano, altre no.
Tutto finì con la dittatura di Vargas Llerena, il generalissimo che restò al potere per trent’anni. Vargas iniziò a perseguitare gli intellettuali, non tanto perché li disprezzasse, dato che lui stesso si dilettava di prosa e versi, ma perché avevano firmato un comunicato contro di lui. Il Maestro aveva firmato, la prudente poeta, no. Il Maestro fu inserito nella lista nera dei nemici del regime. La giovane poeta fu nominata Vice Ministro della Cultura, visti i suoi meriti letterari. Non disse nulla al vecchio Maestro. Semplicemente non si fece più vedere. A nulla valsero i messaggi che lui le inviava con ogni mezzo, fino a sfiorare il patetismo. Il Maestro dovette bere molte bottiglie di acquavite, con sale e limone, per rendersi conto di essere stato usato. Lo confermò quando il suo appassionato amore fu nominata ambasciatrice a Parigi, e lì si trasferì, seppellendo amori e promesse. In realtà, mancavano pochi anni alla morte del Maestro. Nessuno sa se, nella sua persistente solitudine, abbia fatto un resoconto dei suoi amori e delle sue perdite, e della crudeltà che aveva dovuto mandar giù, e contro la quale a nulla sarebbe servita la fama postuma che circondò il suo nome. |
Il racconto è inedito, ma è stato pubblicato, in spagnolo (El Tícher, sus amores), nel numero 33 della Rivista «Centroamericana» (Milano, marzo 2024), numero speciale in omaggio a Dante Liano.
Traduzione dallo spagnolo di Martha L. Canfield e Antonella Ciabatti
Dante Liano (Chimaltenango, Guatemala, 1948) è scrittore, critico letterario, Premio Nazionale di Letteratura Miguel Ángel Asturias nel 1991 e finalista del Premio Herralde di romanzo nel 1987 e nel 2002. Si è laureato nel 1973 in Letteratura all’Università San Carlo di Città del Guatemala. Trasferitosi in Italia a causa della grave situazione politica del suo paese ha ripreso gli studi all’Università di Firenze, fino al dottorato il Letteratura (1977). A Milano ha ricevuto la cattedra di Lingua e Letteratura Spagnola e Letteratura Ispanoamericana presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove tutt’ora insegna. Dal 2000 dirige la rivista «Centroamericana» dando, nei suoi lavori, particolare attenzione alle tematiche linguistiche, letterarie e culturali dei paesi centroamericani e delle Antille.
Ha pubblicato i libri di racconti Jornadas y otros cuentos (1978), La vida insensata (1987) e Cuentos completos (2008); i romanzi El lugar de su quietud (1991), El hombre de Montserrat (1994; trad. it. L’uomo di Montserrat, 1990), El misterio de San Andrés (1996), El hijo de casa (2004, trad. it. Il figlio adottivo, 2003), Pequeña historia de viajes, amores e italianos (2008), El abogado y la señora (2014), Réquiem por Teresa (2018) e vari studi letterari. Con Rigoberta Menchú (Premio Nobel per la Pace 1992), alla quale è legato da una vecchia amicizia, ha scritto Il vaso di miele. La storia del mondo in una favola maya (2002).
canfieldmartha@gmail.com
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