BOLLETTINO STRADALE
Il desolante inverno sbraita fuori
e non tintinna
di slitte e renne, ma lupo famelico
fruga poltiglie di foglie cartacce
cartocci di bucce d’arancia; si andrà (cupi)
raschiando nella fanghiglia la gola, sputacchiando
(attaccati al freddo, da lui
sostenuti) su crinali
di bestemmianti montagne:
Corno di Gries! Pizzo di Claro!
(o ancora: Pontresina! Diavolezza! Piz Lagalb!)
Il desolante inverno ulula fuori
o anche dentro
che è un buio quasi pesante,
e posa ghiaccioli inattesi
su cornicioni e barbe (e inquietanti
formule sui vetri) e rugginosi
automezzi (trax, containers, TIR in ringhiante
parcheggio, la berlina del Führer recentemente
vista su foto in periodico nell’altra attesa,
dal dentista, l’automobile da corsa coi serpenti
sul cofano, argentei).
Sulle murate del castello, mettiamo,
l’intabarrato appare, getta
uno sguardo di sotto, accenna
un passo di danza, dei preliminari, corre
sul posto. Batte le mani e rientra.
Il desolante inverno abbaia sempre
demente cagna: uno lo sente
se tornando, sgombra la strada,
dritta, l’ora non tarda, con una mano sul
volante voltandosi, preso da raptus,
giunto all’apposita piazzola accosta, piscia
dal monte delle Ceneri nel vuoto (in faccia
l’altra sponda del nulla) e riandando,
soddisfatto il bisogno, allacciandosi, all’auto, come
per infantile curiosità, restando un attimo sul ciglio
a contare gli altri che sfrecciano, sentendo
tra i rombi l’afflosciarsi delle spalle, gli occhi
in progressiva torbida dilatazione, ricordando
il mattino, la partenza (e “non sei neanche
più capace di fare un abbraccio”) e ancora
pensando di dover scendere l’altro versante,
scegliere tra sinistra e destra all’ultimo
bivio, incanalarsi quindi in autostrada, per
perdersi poi intorpidito nella sigaretta, nel rito
del sole calante…
FINE INVERNO 1983
Fuoco (fuoco!) e crepitanti
fiammate nei prati e tempesta
di vento sulle case degli uomini.
Ma io sono
l’ululante pantera: digrigno
i denti aguzzi, scendo dai ghiacci,
dalle rocce azzurre, mi travesto (m’imbelletto),
m’accosto odorosa e li afferro.
Cerco il sangue e le ossa.
CONCESSIONE ALL’INVERNO
La luminosa luce, la dorata
nella pulviscolante nube, rifrangente, rosea e
se la neve aspetta dietro l’angolo
dietro il monte
dietro il rosa
tu affila i denti, i ramponi,
arrota il passo, acumina la vista;
prova il peso del corpo, saggia l’equilibrio.
Attendi il ghiaccio (a piè fermo) tu
nella luce.
Proprio per i vari elementi: pulviscolo,
brina, freddo generale, fiato spesso.
Rose appassite, foglie, mazzi di dalie marce,
capriole del gatto.
Riflessi da ogni vetro, e la discesa della luce
omogenea, invernale, da ogni buco di monte,
crepa di legno, spazio di sasso. E
tu accettalo questo inverno
luminoso, in agguato, invernaccio
di luce, sospeso nevischio, prolungato
favonio, incendio doloso.
IL MERLO
Se fischia
verso il chiaro, e il giorno è solo
una fessura grigia dentro il freddo,
nessuno può sentirlo: nel garage
è ancora buio, sporadici
sussulti di lamiera. Bandiere azzurre immobili.
Sul ghiaccio
passa un soffio di vento, quasi un brivido,
un cavo d’acciaio sbatte. E se col becco
fruga nel nero delle penne o cerca
la briciola fra i sassi, il filo verde
che stenta nella crepa,
tu guardalo più attento: ecco, un motore
tossisce dietro l’angolo,
stanchezze puntuali si rinzelano. Ma il merlo
saltella, alza la testa,
prende il volo.
DUM VACAT
Ma spiove, è notte, o sera;
anonima la strada,
solitaria nel suo andare tra le altre
che da lei si dipartono a ogni incrocio.
Dagli ultimi semafori
lampi, scatti metallici
aranciati. Poi macerie o depositi,
assi divelte, latrati.
Muri d’alberi neri, cespugli e rare case
illuminate? Una distesa
di freddo guarda immobile
il tuo asfalto bagnato.
I DUE AVVERSARI
Betulla impietrita dal gelo, catasta nera
di legna gravata di neve e dentro il cielo
come una strozzatura, vento o ghiaccio. C’è un silenzio
totale, dunque, un ciclo
che nessuna pietà può rompere o descrivere, un inverno
cieco, che non ammette primavera?
Freddo che fende i tronchi, apre le vene
dei campi e li uccide e li guarda morire
e li cancella?
Ma il toporagno, due metri più in là:
cosa fa il toporagno? Saltella,
incide con le sue deboli unghiette la neve,
si ferma brusco e annusa. Cosa annusa?
Poi arriva il sole e va via: chiazze di luce,
gocce di luce ovunque. Particelle
di luce inumidita: il toporagno
si nutre forse di simili sostanze, sopravvive
nell’ombra del suo buco.
E sono qui ambedue: fibra sventrata
e luce chiara e tersa. Due avversari
che non si parlano mai. Dove guardare, ti chiedi,
di quale occhio fidarsi, a chi concedersi.
Se la nebbia si apre, per un attimo,
se il vento delle altezze alza il sipario in un turbine,
proprio là dove il caso indirizza lo sguardo,
appare, chiaro, un lembo di montagna, ma staccata
da terra, quasi in volo: aquila immensa
di roccia nera e neve, artiglio ed ala.
ROSA DEI GHIACCI
Poco fa un vento freddo da nord
annunciava qualcosa di invernale.
La nuvola pesava.
Ma la rosa cresciuta troppo in alto
ondeggia e non si sfa.
Resiste ancora.
È una rosa vecchissima e nuova.
Gioca il suo gioco. Rifiorirà.
LETTERA DA NIKOLAJEVKA
Sento urlare in tutti i dialetti, è un urlo solo NUTO REVELLI
Se c’è stata una colpa, credo,
dico di noi fuscelli,
è stata l’ignoranza. Il non potere,
il non voler capire. Trascinati
da un vento troppo forte, e ogni domanda
era domanda d’ansia: ci bastava
un urlo di risposta, un po’ di caldo.
Non solo allora, sempre, chi ne è uscito:
l’abitudine
a chinare la testa, o a rialzarla
solo in un moto d’ira rovinoso. Ma voi, adesso,
siete molto diversi? Te lo chiedo
davvero, te lo chiedo
sapendo già che non potrai rispondere,
che non vorrai rispondere temendo
di sbagliare, o di ferirmi
ancora. Ma è questa
l’unica nostra speranza, brucia e insiste
qui, sotto neve e fango, sola brace.
Altri capirono, forse, non noi: colpa e condanna,
ecco l’eredità. Questa manciata
di terra magra e povera, un passato
di fumo. Raccoglietelo nel palmo di una mano,
fate fiorire qualcosa di non guasto,
se può crescere ancora. Diffidate
d’ogni risposta. Con fiducia e sospetto
riscattateci. Capite anche per noi, se lo potete.
LUCE INVERNALE
Poi finalmente si è fatto vivo il vento
da giorni e giorni in agguato dietro ai boschi:
era, prima di giungere, una luce
dura scartavetrata dentro l’aria
immobile. Ogni cosa pungeva, e da ogni margine
salivano immagini estreme, alberi visti
come da un ultimo sguardo, tagli obliqui
di polvere accecante, solitudini.
Tutto sembrava un addio: costoni alti
scissi in triangoli gialli, lame d’acqua
metalliche e lanuggini
inerti, forse di nebbie in dissolvenza,
forse di fumi lontani.
Gli occhi si socchiudevano irritati,
per colmo di bellezza o d’ozono diffuso
ovunque in quel bagliore d’inquietudine.
Ma il vento ha portato l’incendio che covava
attizzando braci invisibili, fuochi nascosti
tra i faggi, ha detto la verità, accavallato le onde
e alzato in volo gli stormi di folaghe.
Il soffio d’arsura è sceso dalle coste,
a volo per le strettoie si è gonfiato sul lago
entrando attraverso fessure, spifferi, pori
fino all’intrico dei nervi e fino ai cuori.
Si è preso tutto, il vento, dolori e nostalgia,
sogni e speranze, quiete. Ci ha lasciato
bottiglie sopra i prati, sparsi giorni
increduli, stremati. È andato via.
*
Quel che resiste e spera nell’inverno
vaso di ciclamino contro il muro
che nel gelo conserva il rosso cupo
e scintilla, memoria di una cosa.
INEDITI
*
«E il figlio della zia Pace,
si chiamava Emanuele, cosa dire di lui?
Si era sposato da poco, l’hanno chiamato al fronte,
non ha fatto ritorno.
Disperso in Russia, hanno detto, ma la moglie ha tenuto duro
senza mai risposarsi, col piccolo appena nato, uno scricciolo.
Era un violinista molto bravo, suonava a Torino
in un’orchestra rinomata. Lei sperava.
Se fosse vivo oggi avrebbe cent’anni,
qualcuno più di me. Ufficialmente è morto
ma forse come tanti altri ha perso la memoria
e si è rifatto una vita nella steppa, in Siberia
o in qualche città mineraria, dopo la guerra,
chissà. Prova a chiedere a qualche tuo conoscente,
ne avrai anche laggiù, poeti o traduttori,
se ricordano un’ala di violino nell’immensa pianura gelata.
Perché suonare avrà suonato anche dopo,
anche senza memoria, anche cieco, poco ma sicuro.»
*
«Cornacchia, roca amica di sventura, io ti guardo
mentre posi sopra i rami d’inverno
o becchetti sui prati e le strade.
Dicono che tu sia intelligente,
parente povera del corvo.
Io che non so più niente
seguo il tuo breve volo, sento il torvo
gracchiare con cui annunci ciò che stride
e minaccia qualcosa nel mio protetto interno,
nell’estremo paesaggio cui mi affaccio e mi sporgo.»
*
«Rapidi ed invincibili
partono i sommergibili
più indietro il Piave mormora
ma non so più perché.
Però un po’ le ricordo, le belle canzoni:
pezzi, frammenti di qualcosa che non c’è.
Vecchie cose imparate da bambina
chissà da chi o come. D’oro e porpora.
Dici che cantavo bene? Può darsi,
cantare mi piaceva, come lo zucchero a velo.
E quella di tuo padre: nema kliba
nema cucurusa, sull’aria della Katjuscia.
Diceva che era in russo, ma è ucraino.
Cantavano in mezzo all’angoscia
gli alpini nell’ansa del Don.
Cantano ancora nel gelo.»
SCHIZZO METROPOLITANO
A Stefano Simoncelli, per un pigiama
C’era questa strada lunga, una giornata cinerina
di stanchezza, il freddo. E la ragazza, poco prima,
incerta sulla data in cui era finita la guerra,
con l’aria di chi pensa che non sarà poi
una cosa tanto importante, che domanda stronza mi fai,
per un esame di lettere sul Neorealismo italiano.
Il ’43, il ’45, cosa cambia? Cosa vuoi?
Così camminavo intristito e forse non avrei visto nemmeno
i tre gamaldi che sfrecciavano in bici di dodici, tredici anni
se uno di loro non mi avesse gridato, passando: «ti consiglio
di tingere i capelli!». Un attimo, erano già lontani,
ridevano nel vento coloravano il cielo.
VIE DI GHIACCIO ARIA FOSCA
Dopo aver letto Pattini d’argento
il sogno di scivolare all’infinito su canali gelati
o su fiumi, sfociando in laghi di luce
dove ad ampie volute disegnare con le lame
motivi di speranza esatti versi.
Oggi qualcuno al Gorky Park di Mosca
ha scritto No alla guerra sopra il ghiaccio
finendo poi in prigione per illecito
civile e per disobbedienza. Fratello piede alato
pattina anche per noi, ti guidi il vento.
GIALLO, FRANE, BELLE DI NOTTE
Veste di giallo il lago se prolificano
alghe e cianobatteri. E come splendido
appare e quasi chimico
il colore. Funesto
tuttavia. Giallo, ma non per noi,
da noi creato. Giallo acido.
Sopra, lungo i costoni di boscaglia,
cadrà con una frana mezzo secolo di incuria.
Ingredienti: una villa secolare, la più bella,
forse, di tutto il comprensorio, ora squartata
in miniappartamenti; il suo giardino all’italiana
sconciato in un rosario di villini,
ognuno con aiuola vista lago
che poggia sopra il muro seicentesco e un giorno smotta;
una scarpata lasciata a putrefarsi per decenni
e tradotta in discarica abusiva. E l’alternarsi
di siccità e di piogge torrenziali, terra fradicia:
das Land in den See, ancora. Ma
senza cigni stavolta o dignità.
Le timidissime, in alto, le mirabili
belle di notte al ciglio della strada,
travolte. Ma forse sopravvivono là sotto
e almeno loro sapranno rifiorire; inaspettate,
improbabili al confine
tra catastrofe e crolli, frane e acidità,
riappariranno al calare del sole illuminando
di dolcissimo odore le notti e colori radiosi,
per una impensabile oggi ma nuova
finalmente possibilità? Frattanto covano
una gioia eventuale dentro minimi tuberi
nel fango che le avvolge che ci avvolge
e già secca, nell’inverno ristà.
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