Il Comune ci aveva detto che non sarebbe stato facile, altri avevano già rinunciato. C’erano dei problemi ed era straniera. Aveva l’età di nostro figlio minore.
Ce la faremo, ci siamo detti, è solo per pochi anni, finché la sua famiglia si riprenderà.
Così il sole è entrato in casa nostra e noi siamo rimasti abbagliati.
Colori accesi e un vociare concitato la precedevano e la rendevano riconoscibile fra tutti. Era un ciclone, mai stanca e curiosa di tutto. Infaticabile lei, senza più energie, noi.
Passare inosservati fra la gente era impossibile: ballava ovunque, come se ascoltasse un ritmo sconosciuto ai più e percettibile solo a lei. Ci notavano, ci additavano, ma non mi importava. Un po’ di allegria non avrebbe fatto male a nessuno.
Erano risa e salti, abbracci e sorrisi, soprattutto quelli, con tutti i denti, quelli da latte che non cadevano e quelli nuovi che erano già spuntati.
“A scuola un bambino mi ha chiamata Centodenti e tutti hanno riso …” mi disse un giorno con il viso triste. Sentii un dolore comprimermi lo sterno e togliermi il respiro.
Non ero pronta a un tale sconvolgimento della mia vita, ammisi con me stessa. L’esperienza dei miei due figli non era stata sufficiente a prepararmi e la responsabilità di un essere così fragile mi angustiava. Mi sentii inadeguata.
Avrei voluto difenderla, spiegare a quei compagni che lei non capiva, che nella sua ingenuità il male non entrava dalla porta, ma dal portone. Che era dolce, allegra e sensibile e non si meritava altro dolore. Ne aveva già conosciuto troppo, nel Paese dal quale proveniva.
La guardai inerme, cercando di trovare un linguaggio semplice e delle parole adatte per confortarla, quando improvvisamente, mio figlio disse: “Yasmine, digli che se mordi, con quelle zanne fai male il doppio”.
Lei soppesò la risposta e avanzò verso lo specchio d’entrata. Si guardò riflessa, sorridendo spavaldamente per sottolineare la sua diversità, che in quel momento era carica di una nuova suggestione. Rise felice e alzò le spalle, tornando a giocare.
Ora non aveva solo un cromosoma in più, ma anche un fratello partecipe e dei denti da difesa.
A scuola, il giorno dopo, pensai di parlarne all’insegnante. Mentre l’attendevo sulla soglia della classe, guardai Yasmine avvicinarsi al banco e nel tragitto, fermarsi ad abbracciare le compagne. Gli occhi le brillavano, orgogliosa di quello zaino rosa che le avevamo comprato.
La felicità delle piccole cose, riflettei. Una penna con la piuma, dei pastelli colorati e una gomma a forma di cuore, che lei mostrava come fossero tesori. Pensai che forse anche la mia vita avrebbe avuto bisogno di essere affrontata come faceva lei. Come se nulla fosse scontato, come se tutto cominciasse in quel momento.
Fu allora che notai il ragazzino venirle vicino e darle una spinta leggera sul braccio, per richiamare la sua attenzione. “Ehi Centodenti, mi hai portato la merenda?”
D’istinto feci un passo in avanti per lanciarmi in sua difesa. Spavaldo, arrogante e bullo: se la sarebbe vista con me. Ma una voce interiore mi frenò. Quel tanto che bastava per attendere una sua reazione, se ci fosse stata.
Yasmine si voltò lentamente verso di lui e gli sorrise: gli si avvicinò ancor di più, giocando con le sue lunghe treccine scure, piene di perline colorate, fino a fargliele roteare davanti al viso. Infastidito, il ragazzino fece un passo indietro e l’apostrofò: “Stupida!” continuò “non capisci nulla. Ti…” ma non fece in tempo a completare la frase che un inaspettato ruggito gutturale uscì dalla bocca pluridentata, lasciandolo basito.
La classe si immobilizzò per un istante: secondi lunghi un’eternità, che si conclusero con una risata generale. Yasmine sorrise di nuovo, mentre esclamava: “Bocca grande, merenda grande!” mimando con le braccia le dimensioni di un’enorme ciambella di fronte al suo persecutore.
Le amiche le fecero eco, rimbombando con le voci il suo riso contagioso. Beffato e sconfitto, il bullo tornò al suo banco, borbottando parolacce nella sua direzione.
La maestra arrivò in quel momento e vedendomi in attesa, mi chiese se avevo bisogno di parlarle. “Nulla, guardi ero passata solo per salutarla e per capire se andava tutto bene con Yasmine…” risposi, nascondendo il mio imbarazzo.
Gentilmente, la donna sottolineò che era una ragazzina simpatica, ma incontenibile. Da quando si era trasferita da noi, arrivava però a scuola puntuale, con tutto l’occorrente e in ordine, fatti che le erano sembrati già un grande risultato.
La salutai, ringraziandola e volsi lo sguardo ancora una volta alla piccola, che parlava animatamente con gli altri con la sua dentatura in bella vista. Felice, come sempre.
Nelle settimane successive, divenne sempre più evidente la facilità con cui si integrava fra le persone e con noi in particolare. Era una calamita, che attraeva la parte migliore di ognuno.
Una sera entrai in camera e la trovai piangente. Sommessamente, si asciugava le lacrime con il dorso di una mano, mentre l’altra era chiusa a pugno. “Che hai?” le chiesi, sedendomi sulla sponda del letto. Lei scosse la testa e non parlò.
Era un evento raro: Yasmine aveva sempre qualcosa da dire, a proposito o meno, ma il silenzio proprio non le era consono. Anche le labbra erano serrate, quasi livide per lo sforzo.
Il piccolo in quel momento apparve sulla soglia. “Sta perdendo i denti da latte. Le ho detto che capita a tutti, ma lei piange… non so che fare…” mi disse triste, ponendosi accanto a me. “Se vuoi te ne regalo uno dei miei, il prossimo che cade” si offrì lui. Ma Yasmine scosse di nuovo il capo. Poi con un sospiro mi chiese della colla.
Capii l’idea che le passava per la mente. L’abbracciai e la strinsi a me. Conoscevo quella sensazione: la difficoltà di lasciar andare le nostre fragili e temporanee certezze, anche quelle che un tempo avevamo disprezzato.
Le suggerii piuttosto di regalare quei caduchi dentini a chi poteva averne bisogno, perché se a lei avevano dato la forza di resistere alle angherie, di diventare più forte, lo avrebbero fatto anche agli altri. Come se un supereroe donasse una parte dei suoi poteri e li condividesse. Lei li stava perdendo, le spiegai, perché non ne aveva più bisogno: ora era diventata grande.
La vidi pensarci su, poi si distese sul letto. Le rimboccai le coperte e le diedi il bacio della buona notte. Non so cosa avrei fatto per riuscire a entrare nei suoi sogni quella notte.
I giorni trascorsero e sembrò che la malinconia di quella serata fosse passata, ma per precauzione, feci sparire ogni tubetto di adesivo da casa.
Arrivò l’autunno, il tempo per proteggere le piante del terrazzo dal gelo imminente. Yasmine adorava prendersi cura di fiori e piante, seminare e veder crescere. Euforica per ogni germoglio, coccolava le foglie come fossero persone.
Così mentre un pomeriggio ci divertivamo a travasare dei bulbi e trasferirne altri nella piccola serra coperta che avevo predisposto, mi accorsi di un sassolino bianco nascosto nel terriccio. Cadde per terra e lo raccolsi: tenendolo tra pollice e indice, ne compresi la natura. Guardai la mia solerte aiutante, ignara della mia scoperta, mentre era impegnata a compattare la terra in un piccolo vaso.
Rimisi velocemente l’oggetto dove l’avevo trovato, facendo finta di nulla, mentre Yasmine cantava stonata il ritornello di una canzone appresa a scuola.
Un paio di mesi dopo, a dicembre inoltrato, mi accorsi che le mie Euphorbie, conosciute anche come Stelle di Natale, brillavano più che mai di colori vivaci: me ne rallegrai immediatamente con la mia piccola compagna di giardinaggio.
Con serenità, Yasmine mi informò di averle viste fragili e scheletriche, perciò aveva deciso di regalare loro i suoi bianchi superpoteri.
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