FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 63
marzo 2023

Cadute

 

ANGELI CADUTI

di Gianna Patriarca
a cura di Manuela Francavilla



[P]oi che anch’io sono caduta
Signore
E sto qui infitta
Sulla mia strada
Come sulla croce.

ANTONIA POZZI

Ero scomparsa da quattro mesi quando sfondarono il muro, un pannello di cinque metri quadri in cartongesso d’un color beige verniciato da poco. Certo non trovarono la bella donna ch’ero stata. Quel che rimaneva di me, avvolto in una plastica comprata a basso prezzo alla ferramenta di paese, non diceva chi ero, cos’ero stata o com’ero. Te lo dico io adesso, perché adesso posso parlare senza paura e senza vergogna. Adesso più niente può farmi soffrire. Se avessi parlato prima avrei potuto evitare plastica e cartongesso; avrei potuto evitare tutto il male che n’è seguito. Ma quel che dovremmo fare quando siamo in grado di farlo, in genere, è proprio ciò che non facciamo.

Come sono finita dietro a quel muro? Come si finisce nel posto in cui ci troviamo? Circostanze? Scelte? La svolta sbagliata che ci porta fuori strada? Porta numero uno, due o tre? Proprio non lo so. Ciò di cui sono certa, però, è che non avrei mai scelto una fine così. Nessuno avrebbe scelto una fine così.

La verità è che ho amato la vita, amandola completamente come un gelato a luglio. Ma troppo amore può essere pericoloso. Troppo amore può mascherare il nemico, annebbiare il cartello dello stop. Troppo amore può sviarti dalla retta via. Ma, come disse una volta uno scrittore, “I was a fool for love”. Ed eccomi qui.

La tua domanda inevitabile: “E se potessi cambiare tutto?” Certo, se potessi, tornerei indietro e farei tutto in modo molto diverso. Modificherei certe cose, cambierei i risultati. Potrei addirittura ragionarci su con la testa anziché col cuore. Ma una cosa è certa: tornerei indietro e parlerei; gli farei sentire la mia versione, il mio punto di vista, le mie ragioni. Così, alla fine sarebbe più facile trovare la pace, sgomberare quello spazio dietro il cartongesso.

Hanno circolato così tante storie su di me, sul tipo di donna che ero, così tante supposizioni e vergognose accuse inventate. Fanno male a chi mi ha voluto bene. Infinite fantasie su luride avventure, immaginate da chi non sa neanche cosa siano, le avventure; ma lo stuzzica l’immaginare quelle degli altri. La gente si prende un tal piacere a dissezionare la vita degli altri, a cercare false umiliazioni, a rivelare sconcezze e possibili scandali. Le malelingue non ci mettono niente ad assassinarti senza mai sapere la verità. La mia fine fu più materiale di quel che ci si possa immaginare. Certo, ho avuto una vita complicata, per qualcuno addirittura scioccante, ma era la mia e mi assumo tutte le responsabilità per come è andata a finire. Non ne darò la colpa a nessun altro. Non cerco scuse.

Ero sola dietro il cartongesso, abbandonata in un pacco di plastica chiuso con del nastro adesivo isolante. La mia borsa e le mie scarpe gettate lì per compagnia. Ma ora sono in un posto diverso dove non ci sono muri. Qui dove sono adesso, non c’è niente da danneggiare o da annichilire, solo un grande spazio di calore dove ci raduniamo senza paura. Siamo in tante qui, tante donne. Arrivate in momenti diversi, in modi distinti e per varie ragioni. Siamo di diverse forme e taglie. Siamo vecchie, giovani, alcune a mala pena donne, ancora bambine con la pelle liscia e gli occhi brillanti. L’età non conta, qui non ha importanza. Non abbiamo più un rapporto col tempo. Il tempo non è più nostra preoccupazione. Qui riusciamo a essere le donne che saremmo dovute essere fin dall’inizio, pure, integre, belle e libere.

Io arrivai quando l’estate è più raggiante; un giorno tra i più maturi di giugno, quando le ore sono più brillanti, più lunghe e avvolte in profumi. Le stagioni delle donne sono infinite e ciascuna donna porta con sé una fragranza inimitabile. La mia giovane amica Yasmin, invece, arrivò con la frizzante freschezza dell’autunno: il suo corpo adolescente scaraventato in una buca al bordo di una strada e sepolto sotto un tumulo di foglie secche ma brillanti. La ritrovarono intera e ancora bella, rannicchiata nella terra vicino a un campo, in una fredda notte di ottobre poco prima del fugace ritorno della brina. L’avvolsero in un lino bianco. Tracce di dolci oli e d’incenso l’hanno seguita fino qui insieme a qualche lacrima, asciugatasi veloce nel giorno più limpido. Qui, dove ci troviamo adesso, i giorni sono limpidi in eterno e le lacrime sostano per breve tempo.

I miei genitori usano le lacrime come un’arma, come loro unica difesa contro una rabbia che non riescono a sfogare; sono intrappolati nella confusione e nelle domande senza risposta. I miei figli non hanno più lacrime, solo il tormento degli incubi. Questa è la mia ferita più dolorosa. Mio marito ha cercato di perdonarmi i peccati e continua a dormire da solo nello stesso letto che una volta era il nostro. Ma aveva imparato a dormire da solo molto prima che mi ritrovassero. Tira avanti. Gli ho lasciato tutto il disordine. Gli ho lasciato tutto il vuoto. È un uomo buono che però non sarà mai felice; perché, qualunque cosa sia, la felicità non è certo un uomo solo nel letto che un tempo condivise con la donna che amava.

Ho lasciato loro tutto questo scompiglio ma non ne avevo intenzione. A volte, quando andiamo verso le giostre inciampiamo proprio mentre corriamo verso il cavallo più bello e colorato; e a volte facciamo cadere degli innocenti.

Ero bella. Nata bella. Avevo sentito quella parola descrivermi fin dai tempi in cui avevo imparato a capire la lingua. Mio padre mi chiamava “Bella” più spesso di mia madre. La mamma non si lasciava colpire tanto dalle cose belle, sulle cose era molto più pragmatica di mio padre. Era una parola che le scivolava tra le labbra solo di tanto in tanto: temeva che potessi farmi ossessionare dal mio stesso fascino. La nonna, quella che aveva dato alla luce mio padre, si preoccupava meno delle mie ossessioni e spesso si prendeva il merito per tutto ciò che c’era di piacevole nel mio carattere e nel mio aspetto. I miei occhi azzurri somigliavano ai suoi, i miei ricci, la mia pelle tra rosa e il bianco panna, la lieve inclinazione del naso e la solida rotondità del mio corpo venivano tutti dai suoi geni. Spesso mi assicurava che discendevo da una stirpe bella e intelligente e di frequente ringraziava ad alta voce i suoi avi per tutti i doni che avevano concesso ai suoi figli. Affermava che eravamo di nobile discendenza e che un tempo i miei avi avevano vissuto in prosperità ai piedi delle montagne dalle cime imbiancate vicino al fiume Adige. Mia nonna non cessava di ricordarmi quale fortuna avessi avuto ad aver ereditato la bellezza e la luce di quelle montagne. Ero stata riconosciuta e legittimata dagli dèi mistici della sua memoria che ci avevano accompagnati fino ai picchi meno imponenti delle Caledon Hills visibili solo nei gelidi mesi dell’inverno canadese.

Quando in fine mi ritrovarono dietro il cartongesso, mia nonna se n’era già andata da un pezzo. Per fortuna non venne mai a sapere del muro. Per fortuna le era stata risparmiata la vergogna e la caduta della sua adorata stirpe, la sua nobile famiglia.

Col tempo la mia figura s’era fatta alta e slanciata; avevo tanti ricci color cannella che mi incorniciavano il viso; non avevo bisogno di aggiungere colore alle mie labbra carnose che sfoggiavano sorrisi con facilità, mentre negli occhi avevo una sfumatura grigia, come il cielo dopo un temporale improvviso. Conquistavo le persone senza alcuno sforzo grazie al fascino che, qualità meravigliosa da avere, possedevo in quantità sufficiente da rendere mio padre orgoglioso di me. Ero la sua primogenita, e lui stesso scelse il mio nome, Alba, dawn, e mi ripeteva sempre che Alba voleva dire l’inizio, la prima luce. Il nome non mi piaceva. Mi sembrava sbagliato; non mi calzava. Quando fui abbastanza grande da poter scegliere, insistetti per farmi chiamare col mio secondo nome, Angela, ma mio padre non mi chiamò mai così.

All’inizio sembra tutto possibile. All’inizio di ogni cosa ci sono speranze, promesse e il piacere ch’esse portano con sé. Le bambine, essendo all’inizio di ogni cosa, vivono in spazi magici. Ma siamo bambine per così poco tempo e l’emozione per le ‘cose da grandi’ arriva così presto. Quando sei bella, non puoi vivere in quello spazio incantato per sempre perché il mondo te lo vorrà prendere. Se non sei bella, invece, lo spazio magico esiste solo nella tua testa. Provi a dare un senso a regole e definizioni, a decodificare i messaggi attutiti, ma non sempre hanno senso; è così e basta. Io, ero bella e con facilità mi sono lasciata trascinare nel negozio di caramelle; tentata dalle dolcezze, dai colori vivaci, dalla ballerina del carillon. Le bambine belle sono programmate a volere tutto; e io ho varcato quella soglia con il mio forte debole per i dolci e i denti che facevano male dal piacere.

È bello qui, senza negozi di caramelle, senza la sensazione di fame, senza alcun doloroso debole per i dolci. C’è pace qui. Ecco, questa è la parola giusta ‘pace’, una parola che sottovalutiamo. Da queste parti non c’è niente che esplode o sanguina, non ci sono terremoti o tormenti e neanche turbamenti. Ma c’è ancora molto da chiarire prima di riuscire a raggiungere la calma assoluta. Alcune di noi, le nuove, arrivano trasportando le ferite all’esterno, visibili sebbene irrilevanti. Le ferite non ci definiscono più, sono solo più la memoria delle ragioni che ci hanno portate qui, tutte insieme.

Alicia arrivò poco prima di Natale, senza nastri o fiocchi. Le ferite del coltello erano ancora fresche, tutte e dodici, ma ad assicurarle il posto qui tra noi fu il terzo e profondo fendente, un taglio appena sotto il cuore, in quel punto vulnerabile che è sempre indifeso. È difficile proteggere un bersaglio così grande; ché il cuore di una donna è sempre il centro del bersaglio. Alicia non parla ancora ma verrà il suo momento.

La ferita della mia amica Yasmin, invece, è meno visibile dietro la lunga sciarpa di seta che le avvolge il collo. Mi ha raccontato quanto ha odiato quella sciarpa quando era obbligata a nascondercisi dietro, mentre ora è un soffice e caldo conforto sulla sua bella pelle. Le cose qui si indossano in modo diverso, senza dar loro un significato o sentirne il bisogno, senza violenza o obbligo. Le mie scarpe rosse a spillo fanno ancora sembrare le mie gambe più lunghe, ma adesso non mi fanno più male ai piedi e le porto anche se non ne ho bisogno. Alla mamma le mie scarpe rosse non sono mai piaciute. Le nascondevo e le indossavo senza farmi vedere, senza la sua approvazione. Le scarpe rosse erano là; con me; dietro al muro, quando mi hanno trovata. Erano appena appena consumate, le mie scarpe rosse.

Il giorno in cui arrivò Hanna c’era un tramonto perfetto, uno di quelli che esplodono nel cielo come un’immensa fiammata tanto che uno non riesce più a immaginare il buio. Arrivò col ventre ancora gonfio ché suo figlio vi era stato per quasi sette mesi. Non aveva programmato questo arrivo, ché l’unica cosa che aveva immaginata e per cui si era preparata era il momento in cui avrebbe preso tra le braccia il suo piccolo. Viveva solo per quello. Ma tutto andò storto quella sera quando la cena non era pronta e la casa non era pulita e lei era troppo stanca per sollevare il suo corpo dalla morbidezza del letto. E la fine arrivò con la solita rabbia brutale che eruttava ogni volta che lei non riusciva a soddisfare tutti i bisogni e tutte le pretese che lui le richiedeva. Qui può riposare.

Ogni sera nel gruppo in cerchio c’è una faccia nuova. Oggi sono stati accolti gli occhi bruni, le ciglia lunghe, la pelle lentigginosa e il timido ma bel sorriso di Alicia. È molto giovane. Molte qui sono giovanissime, semplici, innocenti. Quando la guardo penso a mia figlia, alla mia giovane figlia, che, ne sono certa, non verrà mai qui. So che il ricordo delle mie debolezze non l’attrarranno mai. Mia figlia non sbaglierà nel giudicare le cose come feci io. Non si sentirà affascinata dal sapore dolce delle cose. Mi vergogno per averle lasciato una tristezza che non capirà mai. Mia figlia ha un lutto riservato che è diventato il suo migliore amico. Il lutto ha preso il mio posto, mi ha rimpiazzata nella sua vita; ed è colpa mia. Ma il dolore non la tradirà come ho fatto io.

Mi siedo vicino ad Alicia. Il suo bel viso, la sua dolcezza sono un piacere per me. Con lei vicino divento di nuovo madre. Abbiamo bisogno l’una dell’altra. Insieme troveremo la calma.

*

Sì, l’ho amato. L’ho amato per davvero. Non avrei dovuto, ma l’ho fatto anche se tutto di quell’amore era sbagliato. Avrei dovuto saperlo. Ma come fa una a capire un amore così? Uno di quelli sbagliati? Ti tengono ostaggio e non riesci ad andartene via. Quegli amori che ti elettrizzano e fanno sembrare che le ore siano secondi. Quegli amori che quando escono da una stanza, non riesci a sopportare il vuoto che si lasciano dietro, fosse anche solo per pochi minuti. Amavo l’aria attorno a lui. Amavo gli spazi che toccava e i pavimenti su cui camminava. Amavo la forza delle sue mani.

C’erano momenti in cui il resto del mondo non aveva spazio nella nostra storia. Passato, presente, marito, moglie, bambini erano tutti al margine. Erano amati, ma non centrali. Il bisogno divorante di essere la Venere di qualcuno era troppo forte. Avrei dovuto ricordarmi chi ero, da dove venivo. Avrei dovuto prendere in considerazione tutto ciò che avrei potuto perdere. Ma, allora, chi ero non importava. Allora, da dove venivo non importava. Cosa avrei potuto perdere ero disposta a rischiarlo. Ero già saltata giù giù nel pozzo.

Non tutte siamo qui a causa dell’amore. Alcune di noi sono qui perché non c’era amore. Julia te lo può raccontare. In quel freddo letto in cui dormiva c’era costrizione e obbligo, ma non amore. Si è portata il cuscino con sé, lo tiene stretto. È il cuscino che la liberò. Lei, non fece alcuna resistenza, non lottò affatto, lasciò che il respiro si spegnesse nel cotone bianco e chiuse gli occhi. In quel momento le sembrò la scelta migliore.

Io lottai con tutte le mie forze. Lottai fino all’ultimo colpo e poi... il fondo delle scale. Non furono le scale a darmi il colpo di grazia, ma il colpo dietro la testa mentre me ne stavo andando. Andarsene, prendersi la responsabilità, prendere la decisione che avrei voluto prendere tanto tempo prima. Non è strano come vanno le cose? Quando alla fine ti decidi a fare la cosa giusta, la vita s’intromette e sceglie un epilogo diverso.

Adesso ho tempo per guardare le pagine del diario. L’album delle foto. Il giorno del nostro matrimonio, in cui mio marito vestiva di bianco, su richiesta di mia nonna. Mamma e papà erano felicissimi, non solo avevano aiutato a scegliere lo sposo, ma anche i nostri abiti, il ristorante, il menù. Eleganti nei loro completi, si godevano gli avvenimenti del giorno, le attenzioni. Mia madre indossava un cappello di velluto come fosse stato una tiara con diamante mentre a mio padre avevano dato un fazzoletto di seta bianca da infilare nella tasca della giacca dello smoking nero. Le Caledon Hills erano verdi in quel mese di giugno mentre salivo sulla carrozza infiocchettata di raso. Credevo che ci sarei riuscita. Credevo che si sarebbe avverato tutto, che tutto sarebbe andato come doveva andare. Avrei vissuto la magia. Sarei stata la moglie del principe marito, figlia del re e della regina, e madre dei nobili eredi che sarebbero venuti. Sarei rimasta l’alba, dawn, di ogni possibilità. Ma non ci volle molto perché il principe marito si ritirasse nella sua fortezza dove io non potevo entrare e dove comunque non mi importava entrare. Non molto tempo perché, stanca delle favole, buttassi via il carillon e mi avventurassi al buio, nel bosco oscuro alla ricerca di una vera avventura.


Racconto tratto dalla raccolta All My Fallen Angelas (2016, Canada).

Traduzione dall’inglese di Manuela Francavilla

manuela.francavilla@gmail.com