FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 62
novembre 2022

Arrivi

 

ASCOLTARE, UNA RUBRICA
PER LE ORECCHIE 2.0

di Stefano Cardinali



Un'attesa troppo lunga


Quando si ama un artista, un musicista come Peter Gabriel, c’è il rischio di diventare monotoni nel parlarne troppo spesso. Di lui ho già raccontato il suo fallimento economico all’inseguimento del sogno WOMAD (Fili d’Aquilone n° 59) e di come i Genesis accorsero in suo aiuto con un concerto reunion.

Ma le storie che lo riguardano sono infinite e può accadere che un vuoto di produzione discografica di dieci anni si concretizzi in un’opera d’arte.
È tanto il tempo passato (interminabile, per noi amanti della sua musica) dalla pubblicazione di US, allora ultimo disco di inediti non destinati a colonne sonore. Peter Gabriel si fa dunque desiderare dal 1992 anche se nel frattempo partorisce due dischi: OVO (2000), colonna sonora dello spettacolo del Millennium Show e Long Walk Home (2002) soundtrack del film Rabbit-Proof Fence.



Finalmente nel settembre 2002 arriva nei negozi UP, settimo album in studio dell’ex frontman dei Genesis, un lavoro che doveva essere pronto già da quattro anni e che invece il perfezionismo maniacale dell’artista cesella all’infinito.
Il disco si compone di dieci tracce nelle quali ritroviamo il carattere dei primi album da solista e quell’attenzione alla world music che ci ha fatto continuare ad amarlo saldandoci indissolubilmente alla schiera dei fedelissimi ammiratori.

Il lavoro si apre con Darkness, un’alternanza di paura e sollievo dove la voce di Gabriel, filtrata e al naturale, interpreta i due opposti stati d’animo fino a quando (apparentemente?) l’immagine del mostro diventa innocua.
Growing Up è un brano fatto di ritmi che ci riporta ai primi lavori dell’artista, non un duplicato ma una conferma delle origini della sua musica.
I Blind Boys of Alabama accompagnano la dolce melodia di Sky Blue mentre il pianoforte ne sottolinea l’intensità.
No Way Out e I Grieve sono le due ballate del disco, e la seconda porta il marchio inconfondibile del nostro idolo in un brano che ne rappresenta la complessità artistica.

Il singolo estratto da UP è The Barry Williams Show, accattivante prodotto mediatico (la canzone è accompagnata da uno splendido video) ma poco coinvolgente: peccato veniale tra tanti capolavori. E tra tanta qualità anche due brani come My Head Sounds Like That e More Than This possono sembrare passi falsi mentre sono solo lo standard di un grande artista, il minimo che ci si aspetta da lui ma che farebbero gridare al capolavoro se creati da chiunque altro.

È la ricerca di spiritualità a colpire in questa raccolta e la voce di Nusrat Fateh Ali Khan messa a contrasto degli archi che guidano la melodia in Signal To Noise è forse il momento più alto, quando il dolore di quel timbro sembra davvero mettere in luce il male che ci circonda, forse mai come oggi, vent’anni dopo, così attuale. E sapere che l’artista pakistano è morto cinque anni prima della pubblicazione del disco ne aumenta l’emozione all’ascolto.
Chiude l’album The Drop, piccolo gioiello con Gabriel che si accompagna al pianoforte, degna conclusione di un lavoro per il quale è valsa la pena aspettare dieci anni.



Dall’uscita di UP a oggi non ci sono stati nuovi “arrivi”, nessun lavoro inedito ma due raccolte di cover: nel 2010 Scratch My Back, un album di cover di brani di altri artisti tutte accompagnate da arrangiamenti orchestrali e New Blood (2011) dove Gabriel rivisita alcuni suoi successi sempre accompagnato da un’orchestra.

Da un paio di anni si parla di un nuovo arrivo, una raccolta di inediti che potrebbe addirittura uscire entro la fine dell’anno: se nel 2002 aspettammo dieci anni per arrivare a un capolavoro, ora che da quella volta il tempo è raddoppiato, cosa possiamo aspettarci?


cardstefano@libero.it