Gloria Gervitz, nata a Città del Messico nel 1943 da una famiglia di migranti russi e ucraini di origine ebraica, che arrivarono in Messico negli anni venti, riunisce in Migrazioni il lavoro di 43 anni di lavoro poetico. Non si tratta di una raccolta, o di una antologia, e nemmeno di una poesia completa. Fino ad oggi, l’autrice aveva pubblicato questo poema organico, intitolato Migrazioni fin dall’inizio, in edizioni che comprendevano gli sviluppi parziali dell’opera. In questo modo il poema è stato pubblicato nel 1991, poi nel 1997 e nel 2002, e in questo modo sono apparse le traduzioni in tedesco, in inglese, in svedese in arabo e in sloveno. Ma il poema ha continuato a crescere e a trasformarsi, fino a raggiungere la sua versione definitiva nel 2020, pubblicata dalla casa editrice spagnola Libros de la Resistencia.
Nel 2019 Gloria Gervitz ha ricevuto il Premio Iberoamericano de Poesia Pablo Neruda.
[Il testo qui proposto è l’inizio del poema Migraciones (Migrazioni) in una traduzione inedita di Stefano Tedeschi che sarà pubblicata entro aprile 2022 da Edizioni Fili d’Aquilone]
MIGRAZIONI
nelle migrazioni dei garofani rossi dove esplodono i canti di picchi
e marciscono le mele prima del disastro
dove le donne si palpano il seno e si toccano il sesso
nel sudore delle ciprie bianche e dell’ora del tè
flusso di rampicanti attraverso ciò che è sempre lo stesso
città attraversate dal pensiero
mercoledì delle ceneri
la vecchia tata ci osserva da un fascio di luce
respirano stagni di ombre
piovono viola quasi rossi
il calore apre le sue fauci
la luna sprofonda nella strada e una voce di nera
di nera triste canta e cresce
incenso di gladiolo
e le tue dita come molluschi tiepidi si perdono dentro di me
siamo nella fragilità della corteccia d’autunno
nel parco rettangolare
nella canicola
quando i colori chiari sono i più commoventi
dopo Shajarit
dimenticate aspre preghiere
nascono venti lievemente rischiarati dalla preghiera
foreste di pirules
e mia nonna suonava sempre la stessa sonata
una ragazza prende un gelato a Chapultepec
l’edera si aggroviglia nella nebbia
si frattura la luce
e i vestiti sono stesi al sole
impenetrabile la sonata della nonna
tu dicesti che era l’estate oh musica
e l’invasione delle albe
e l’invasione del verde
di sotto grida di bambini che giocano
venditori di noci
respirazione di rose gialle
e mia nonna mi disse all’uscita del cinema
sogna che è bello il sogno della vita ragazza
sotto il salice immerso nell’estate solo l’impazienza indugia
docili nuvole scendono verso il silenzio
il giorno si dissipa nell’aria calda
esplode il verde nel verde
sotto il rubinetto della vasca da bagno apro le gambe
il flusso d’acqua cade
l’acqua mi penetra
si aprono le parole dello Zohar
rimangono le domande di sempre
ed io sprofondo sempre di più
nella vertigine del Kol Nidrei
prima di iniziare il grande digiuno
nei vapori azzurri delle sinagoghe
dopo e prima di Rosh Hashanah
nel bianco della pioggia
mia nonna recita il rosario
e in fondo precipita in basso
l’eco dello Shofar apre l’anno
nel versante delle assenze a nord-est
sfociano le parole la saliva
le insonnie
e più verso est
mi masturbo pensando a te
lo stridio dei gabbiani all’alba
la schiuma sulla sorpresa dell’ala
il colore e il tempo delle bouganville sono per te
il polline rimase sulle mie dita
il tuo profumo di violette acide e febbricitanti per la polvere
le parole che non sono altro che una lunga frase
una forma di follia dopo la follia
le gabbie dove sono rinchiusi i profumi
le gioie infinite
la voluttà di nascere sempre di nuovo
estasi immobile
muoviti
muoviti ancora
non avere paura
e le fotografie sbiadite dalla fermentazione del silenzio
i corridoi aperti
la febbre che arrossisce in altri cieli
le terrazze levigate che si oscurano di acacie
e in cucina i piatti appena lavati
frutta e sciroppi
nella piena dei fiumi
nella notte dei salici
nei lavatoi del sonno
in quella nebbia di viscere femminili
dissolvendosi inconfondibile e vasta
ti lascio la mia morte integra e intatta
tutta la mia morte per te
a chi si parla prima di morire?
dove sei?
in quale parte di me posso inventarti?
e i miracoli che si accumulano nella chiesa di Santa Clara
e l’atrio che si riempie di lacrime
fiori d’inchiostro in un ebraico disfatto
uscendo dai rotoli della Torah
scivolando lentamente
si stanno perdendo i giorni
l’emicrania li va schiacciando
non mi ritrovo
nemmeno le candele per vegliare la mia morte
nemmeno so le parole del Kaddish
non ho una bussola
dove si rompono i battiti del cuore?
con cosa si stacca quest’ultimo pezzo di sonno?
e la casa legata a un albero legata al vento
le foglie e la loro ombra di opale
spirale di echi
riverbero
siamo ciò che pensiamo
pensiero dietro il pensiero
ritornano le gru
aprono il silenzio con le loro ali
istantanei fiori bianchi in un cielo vuoto
nelle città a mezzogiorno
sempre più a sud
quando il calore circonda il respiro delle montagne
sempre verso sud
preferisco continuare aggrappata a ciò che invento
e non capire ciò che esiste davvero
meglio sognare che sono morta
e non morire per i molti sogni che mi inventano
torno a dormire e non sogno più
e la luce che si affanna sul bordo del giorno
e il grido degli alberi assordante
e il pomeriggio dice solo la stessa cosa
non apre quella pausa nel reale
l’unico spazio abitabile
geometria momentanea
insonnia lenta e chiusa
l’alba che si prosciuga
un sole di api che si rompe
e piove mentre mia nonna recita il rosario
e piove mentre dicono il Kaddish per me
e ogni giorno sono più lontana e non so cosa fare
non posso uscire da me
e solo in me conosco e sento gli altri
invenzione che inizia ogni mattina
monotono apprendistato di svegliarsi ed essere di nuovo me
e se mi svegliassi per sempre?
si dissolve il mattino
pause di caldo silenzio
spazi affilati
strutture istantanee
rettangoli
posso vedere frammenti quasi gli aromi
ogni livello ha la propria irrigazione sanguigna
la mia tata è con me mentre metto via le mie cose per partire
piccioni intorno alla stanza aleggiare
apro la finestra
minuscole fessure dolgono atrofizzano
infiammano la sera
non sento quello che sono
sono quello che ero
e quello che sto volendo essere
nel volo della passiflora col centro aperto alla penetrazione
appena nel contorno
le amiche si accarezzano
perché è sempre la prima volta
perché siamo nate molte volte
e ritorniamo sempre
e i fiori aprendosi
e gli alti altissimi uccelli in volo fermandosi nel loro volo
strappandosi attraverso le nuvole
e le nuvole piovigginose che si riempiono di ali
nella vastità del sonno
mi sveglio ed è quasi notte
entro in un cinema
sta nevicando a New York
entro in un altro cinema
il presente è solo una circostanza
scendo
sono quasi le otto del mattino
ed è gennaio
passiamo dentro noi stessi
sto vivendo sovrapposizioni di istanti in una prospettiva piatta
mi sto allungando su pomeriggi che esistono solo per me
fuori dalle finestre rimane il tempo di oggi
questo giorno non lo riconosco
rimango aggrappata ai miei altri giorni
rimango aggrappata a me
mi sto afferrando a me
e anche così tutto finisce
anche il per sempre finisce
anche le solite abitudini finiscono per finire
piccoli momenti saturi che si diffondono
si compiono nella dissoluzione
finché resto chiusa in questa stanza
finché continua a piovere
finché posso ancora sentire che sento
finché mi costringa a continuare a sentire
e la paura mi costringa a uscire dalla paura
ed io mi costringa a uscire da me
e perché credere a questo se dall’altra parte del mare
fioriscono gerani tutto l’anno
e i grandi bauli pesanti di profumi resinosi e caldi
si riversano in stanze sconosciute
e gli unguenti e i saponi d’avena e di latte di capra
le polveri di grano il dentifricio al gusto di chewing gum
e quei risciacqui per districare i capelli nei giorni lunghi
persiane bruciate dal sole verde di Cuernavaca
una bambina si guarda il sesso nella calura di mezzogiorno
denso di insetti e lucertole
non sono sicura se dormire è essere svegli
le mani mi disturbano non so dove metterle
lenta la pioggia quasi si ferma
tutto si ferma mi stringe ma piove
si aprono finestre
giù in fondo le dune
e più in fondo le navi partono come un’esalazione
verso le ragazze degli affreschi del palazzo di Cnosso
ragazze di acqua e calce
e la pelle si libera
e dietro un sole di polvere
e più dentro uccelli
e non raggiungiamo mai altro che noi stessi
e tutto l’anno lì nella memoria fioriscono i gerani
e le persiane verdi sono anche lì in quella memoria
battiti che si fissano su un dagherrotipo
dove battono?
da che parte?
qualcosa scivola va verso un termine
sono lontana dalle mattine
lontana dagli uomini e dalle donne
lontana dalle abitudini e dalle tradizioni
mi lascio cadere
l’atmosfera si chiude
il giallo irrecuperabile
la caduta leggera
perdita del colore
rottura
ostinazione del bianco
e si iscrivono le prime parole della Torah
nell’espiazione del bianco
nell’angoscia del bianco
nella neutralità del bianco
sono aggrappata alla vita
raffiche di sole
a raffiche la pioggia
ramificazioni quasi azzurre
i capelli sciolti e quell’odore
quell’odore che sale dall’infanzia
rimane una linea di giallo
aleggia riappare
ora ondeggia a lungo
da molto lontano sembra quasi l’inizio di un girasole
ora si sposta percependosi a malapena dal bianco
di nuovo trafigge la sostanza del nulla
di nuovo i sogni ricominciano aggrappandosi alla linea quasi ancora gialla
non vado da nessuna parte qui è tutto qui è lì
sento una profonda identificazione con la polvere
paesaggio vuoto ampio volubile acuto
non posso attraversare l’aria
comincio a vivere della brezza
vorrei pregare e non so pregare
non so nemmeno cosa voglio dire
tutto si sta allagando
non ci sono bordi
c’è una grande calma
c’è quello che non capisco
ed è che io non ho inventato quella ragazza
lei ha forzato la sua esistenza in me
rose scurissime germinando nella memoria
le donne intrecciandosi i capelli e profumandosi le ascelle
l’odore del sesso che matura
e nei quartieri ebrei alti e bassi nascosti nelle mattine di Segovia
le storie d’amore delle ragazze ebree e dei cavalieri cristiani
ancora in agguato dai ponti
e i racconti della Haggadah che crescono
mentre aspetto insonne nei corridoi degli aeroporti
nei paesaggi di neuroni quasi sulla soglia dell’oracolo di Delfi
c’è solo una prima e unica risposta
non c’è spiegazione immediata
solo l’incisione
e mia madre e alcune amiche giocano a bridge
e fumano una sigaretta dopo l’altra
e il profumo delle signore si mescola al bianco
scurisce
attraverso le finestre quasi dimenticati i pirules
pallido il vento
nebbia di vimini sulla terrazza scolorita
la casa si dissolve
eternità dei giardini di sabbia
perseveranza dell’aria
si piegano le foglie iniziano il ritorno
mi sveglio e le amiche tremano tra i salici
la veranda ombreggiata e fresca nel trambusto del lino
pettino i tuoi capelli castani
ci muoviamo a malapena
il polline copre quella memoria di specchi
mi brucia ancora mi tocco sono sola
albe degli altri diluvi
cara lontana
la complicità della voce
la sua persistenza
ed io sono ciò che sta cadendo
ora sono in un paesaggio di cenzontles
sono sempre più vicina
quando possieda quell’immensità
avrò a malapena la forza di svegliarmi nella brevità della morte
la luce colpisce l’aria
siamo dove i colori si aprono
sono giorni lunghi e stretti come un mal di testa
e tutto si ripete
gli alberi sciolti
la notte disfatta
e poi?
l’unica cosa vera è il riflesso del sogno che cerco di frantumare
e che non oso nemmeno sognare
plagio continuo di me stessa
e il luogo dell’incontro è solo tempo
tutto non è altro che tempo
lì dove alcune bouganville in un bicchiere d’acqua
bastano per farci un giardino
perché moriamo soli
e la morte è appena il risveglio
di questo primo sogno di vivere
e mia nonna disse mentre lasciavamo il cinema
sogna che è bello il sogno della vita ragazza
si ossida la luce della candela
ed io dove sono?
sono quella che sono sempre stata
l’inaspettato di continuare ad essere
arrivo al luogo dell’inizio dove inizia l’inizio
questo è il tempo
è il tempo di risvegliarsi
la nonna accende le candele sabbatiche dalla sua morte e mi guarda
il sabato si estende fino a mai fino a dopo fino a prima
mia nonna che morì di sogni
dondola all’infinito il sogno che la inventa
che io invento
una bambina pazza mi osserva da dentro
sono intatta
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Traduzione dallo spagnolo di Stefano Tedeschi
stefano.tedeschi@uniroma1.it
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