Con Carmen Villoro esiste una fraternità che abbiamo deciso insieme, oltre a condividere questa città, Guadalajara, o la poesia, amici adorabili e l’orfanità del padre in anni recenti. Entrambi siamo stati pubblicati dalle Edizioni Fili d’Aquilone di Alessio Brandolini. Aquilone o cervo volante, che fluttua nell’aria. In Chiamatemi Ismaele,{1} appare l’ambra grigia che viene usata nella profumeria di lusso. È l’oro essenziale che fissa gli oli sul corpo. E di un uomo essenziale parla il libro di Carmen: Liquidàmbar,{2} tradotto da Marco Benacci: ambra («ciò che fluttua nel mare», in lingua araba) che nutre con le sue foglie il luogo e la memoria del filosofo Luis Villoro. Un ambra vegetale: fumo, humus, umidità, umiltà, umanità; ramificazioni del linguaggio che vanno dalla definizione alla trascendenza.
Nella letteratura di lingua spagnola, una delle prime Coplas a la muerte de su padre{3} sono di Jorge Manrique (1440-1479). Un sermone di tono esortativo, stile espositivo e sentenzioso che è anche un’elegia in tono calmo che lo allontana dall’epicedio caratterizzato dalle espressioni dall’intensa afflizione. Algo sobre la muerte del mayor Sabines,{4} pubblicato in Messico nel 1973, ci mostra la validità delle elegie all’assenza di un essere amato e la capacità con la quale si può rinnovare uno dei generi più antichi della lirica. Le manifestazioni di dolore, tanto malviste negli ultimi anni dai giovani poeti, richiedono la suprema capacità espositiva di Jaime Sabines, José Carlos Becerra, Juan Gelman, Piedad Bonnet o Carmen Villoro: emozione senza artifici e senza pomposità. Il padre, la madre, un fratello, i figli, che non ci sono più sono un motivo fragile per scrivere poesie. Senza la giusta ambra non possono essere fissati nelle parole così come la nostalgia, né l’amore, né i più teneri rimproveri di coloro che ci hanno lasciato. Non per niente l’ambra grigia vien fuori dall’intestino dei capodogli. Sono necessarie le viscere per consolidare nella poesia le nostre memorie. Soprattutto, se fanno male.
Carmen Villoro, come scrittrice, sa leggere gli intestini come facevano gli aruspici. Ma non ci sono animali da sacrificare quando si parla del padre né un rituale che celebri la sua morte. Così Carmen ha iniziato a perlustrare le foglie dell’albero dedicato a don Luis Villoro in Chiapas, ad ascoltare le voci dei gufi che sono anche un simbolo della saggezza, e a seguire le orme dell’uomo sin dalla sua comparsa in Etiopia. Il risultato è questo: Liquidàmbar, un libro che parla a tu per tu con Manrique e Sabines, perché quel tu è il padre che fiorisce in noi.
Di lungo corso, ottimamente riconosciuto (cosa che non sempre accade alle poetesse), il lavoro di Carmen ha abbracciato diversi registri: gli elementi ludici, i giochi di parole e i tanti utensili di una casa, hanno trovato spazio tra i suoi libri. Da un Jugo de naranja{5} a Obra negra di una famiglia in costruzione, tutto in Carmen è verso. Ma c’era qualcosa di nascosto (quel qualcosa di Sabines) che aveva mostrato appena con una Herida luz. E da lì siamo partiti, Espiga antes del viento, per arrivare al cordoglio. Senza alcuna resistenza, Carmen ed io ci siamo visti per quasi un anno, in uno dei processi di lavoro editoriale più affascinanti che ho avuto la fortuna di vivere. Con totale umiltà, Carmen ha iniziato a fertilizzare un nuovo albero dalla prima foglia. E quando il «Velo di fumo»{6} diventava «Paura», Carmen si salvava con delle «Gocce d’ambra» che sono, anche, l’infanzia in terzine, quegli haiku liberi che sono gocce di sangue su un tappeto.
Durante la pandemia del Covid-19, e questa “nuova realtà”, abbiamo perso amici, familiari, vicini e colleghi. Ciò che non si è perso né si deve perdere è la capacità di ritrovarsi negli altri, di soffermarci negli altri, di accompagnare un corpo con l’olio migliore: la speranza. Di profumare un corpo con la cosa più essenziale: la nostra immaginazione. Di leggere questo mondo, le sue sfide e i suoi cambiamenti, aggrappati al filo dell’aquilone che avremo in mano. Questo libro rimarrà nel nostro corpo per molti anni, ancorato a quel qualcosa che è ancora valido, perché è fatto con viscere, con l’ambra della migliore poesia, e nelle mani di mia sorella maggiore.
Carmen Villoro, Liquidàmbar, a cura di Marco Benacci, Edizioni Fili d’Aquilone, 2020, 172 pagine, 15 euro.
{1}Luis Armenta Malpica, Chiamatemi Ismaele, Edizioni Fili d’Aquilone, Roma 2019.
{2}Carmen Villoro, Liquidàmbar, Edizioni Fili d’Aquilone, Roma 2020.
{3}In italiano: Jorge Manrique, Elegia alla morte del padre, a cura di Giovanni Caravaggi, Marsilio, Venezia 2001.
{4}In italiano il poema è stato tradotto da Emilio Coco in: Jaime Sabines, Le poesie del pedone. Antologia poetica, a cura di Marco Antonio Campos, Raffaelli Editore, Rimini 2017.
{5}L’autore qui crea un gioco di parole usando i titoli di libri di Carmen Villoro: Jugo de naranja (Succo d’arancia), Obra negra (Opera nera), Herida luz (Ferita luce) ed Espiga antes del viento (Spiga difronte al vento).
{6}Tra virgolette basse, l’autore richiama alcuni titoli delle sezioni che compongono Liquidàmbar.
POESIE DI CARMEN VILLORO da Liquidàmbar Edizioni Fili d'Aquilone
*
Sono venuta in montagna
per calpestare la terra che hai calpestato.
Sono venuta per comprendere l’aria di un luogo
come si comprende il sapore di una frutta
per capire lo sguardo di questi uomini
che hai visto e ti hanno guardato
con una luce diversa.
Sono venuta, padre, per scavare la terra
dove mio fratello ha depositato il tuo nome
come chi pianta un seme
affinché cresca il tempo
verso la sua origine.
Sono venuta per portarne una manciata alle mie labbra
e baciarla come si bacia un padre.
*
Vicino all’auditorio
dove gli uomini pensano a voce alta
vicino alla chiesa
dove gli uomini pregano a voce bassa
c’è l’Albero.
Lo chiamano Liquidàmbar.
Gli hanno messo tanti fiori
che non si vede il tronco.
Le sue foglie come spade
tagliano l’aria e vibrano
tremano
si stiracchiano
parlano, si agitano
leggermente.
Faccio silenzio, ascolto:
presagi della terra
pensieri
battiti vegetali
acqua che scorre tra i suoi rami alti
sussurri.
Ai suoi piedi
nella culla che forma la sua radice
ardono le ceneri di mio padre
benché riposino.
*
Mio papà aveva ossa.
Aveva pancreas, polmoni, cornee
gengive, intestini e vasi capillari.
Nelle sue vene scorreva sangue
io l’ho visto qualche volta.
Lo posso assicurare:
era di carne e ossa.
Ma questa polvere grigia
giunge dal mare.
In un trofeo d’argento
hanno conservato la marea.
Io gli ho consegnato il corpo di mio padre
e loro mi hanno restituito chiocciole.
Perché il mare non permane.
Si ritira in silenzio
si evapora
attento a non essere sorpreso
si allontana
lasciando le sue reliquie.
*
Siamo Partiti dall’Etiopia.
Abbiamo avuto un’altra razza e un’altra ragione d’essere.
Abbiamo avuto un altro essere nella memoria
di essere altri, ci siamo trasformati
in quello che siamo.
Così hai detto un giorno
affacciato sull’abisso della morte.
Abbiamo lasciato tracce
come generazioni nei pressi di Dio.
Abbiamo chiamato storia quel mistero
di cercare il nostro centro.
I confini hanno marcato la nostra fisionomia
con segni e parole
e ci siamo chiamati figlia e padre
in differenti lingue.
Ma eravamo tu e io?
Eravamo l’impulso che ha conquistato i fiumi
che ha fatto crescere i canali
che ha abbattuto le dighe
e ha eretto città?
Eravamo diversi, papà, allora?
Tu hai intravisto, sull’orlo della tua vita
nel limite esatto, che avresti attraversato infine
il nostro passato errante.
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Traduzione dallo spagnolo di Marco Benacci
mantiseditores@gmail.com
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