FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 48
gennaio/aprile 2018

Piccolo & Grande

 

FUGA PRECIPITOSA

di Luis Armenta Malpica



ESTAMPIDA (HORSES)

Viene mi padre
y dice: hay un sitio
en el hombre
en el que nunca he estado.
Desde niño lo supe. Cambia de voz
la voz
que desde un blanco
tenue
fortifica los huesos cuando avanza
y regresa lo grave del morir
con esta otra visita que nos hace
la vida. Nos ha dado la espalda aquello
en que montamos la primera ilusión
el enamoramiento
la pasión
la costumbre
y luego el desencanto.
Viene
y se va
sin fin
resonando la sangre.
En ese punto
exacto
del que ya nadie escapa
de la arteria
hay un filo de voz
una burbuja mínima
que estorba en la carótida
y da paso a otros hombres, des
conocidos todos, urgentes en la urgencia
de hallarme en el respiro, la voz
entrecortada
la vena en la cuchilla
de este decir “papá” cuando siempre
fue el padre quien nos marcaba
el paso.

Viene conmigo y vuelve
su sombra
silenciosa. Viene
apenas su voz detrás de los caballos
y azotaron las puertas del quirófano
en donde estoy tendiendo estas palabras. Es
más firme que yo si sostiene
mis dedos. Enormes como ese dios que llega
retrasado a la cita que pedimos
hace casi dos lustros, su sombra
es una coz
casi aquel sobresalto que provocan los ojos
que no aman
lo que amamos, pero que no por eso dejan
de ser un grito, la sirena encendida de ese deseo, pasión
enormidad de estar dentro de una mirada, aunque se nos desangre
el alma por sus finas suturas. La cicatriz
es brida, un tope
nunca más la armadura
por muy azul que sea, por cielo
desmedido o el recuento de daños
de ese alguien que no
está.

Se escucha una sirena lejanísima: parece decir horses, horses, horses,
pero yo escucho hurts, hurts, hurts… y algo me duele.

Puede venir
de mí, igual que vino el padre
de su padre y su padre.
Pueden venir los restos del naufragio
a incinerar mi voz
y no van a callar
esto
que estoy mirando.
Y si puede venir, que diga
para quién se presenta, qué sombra
fue la suya
si son ciertas estas duras palabras que caen
sobre la nieve. Más dura (casi tarda) en volver a nosotros
el agua del alivio que nos diagnosticaron. La sangre
que es de todos
tiene un trote distinto. Se escucha horses
aunque resuena hurts. Otra
manera de saltar por las cercas, y a lo lejos
sólo queda el rumor, la sequedad del ojo
y ese helado callarnos la partida.

Pero que no nos diga que es
la muerte: esa
mi sombra larga
porque puedo matarla
contra mi propio miedo.

En cambio, al padre
no. Viene
conmigo el sitio donde nos encontramos.
Esa caballeriza de haber estado juntos en mis treinta
y dos años que son el par de espuelas
que le hinco en los ijares, que aprieto en sus costillas
con las cuales desgarro su grupa con un amor de hierro
a fuego vivo y cal para la herida. Y si lo monto
a pelo, ese padre no deja de patearme
de relinchar la negación del hijo
no dos sino tres veces, no un par sino otros hijos
la sagrada familia que no vaya a enterarse de estas cosas
porque ya no hay amor, aunque haya avena
y lazos y herradura para quien se encabrite.

Escucho una sirena ya muy cerca: parece decir hurts, hurts, hurts
pero resuena horses.

Que no nos diga el padre, ese hombre
que se viene con sus escasos litros de ternura
tan bronca, el semental más hosco
que se doma la muerte si viaja detrás nuestro
o si la colocamos adelante
apretamos su vientre y le dejamos ir
todo el camino andado tras la sombra del padre.

Puede o podría venir conmigo esa sombra de voz
que ya no reconozco como la de mi padre. Pudiera ser
una leche más fértil al traspasar sus belfos
y abandonar ese cilindro duro que cargo junto a mí
como una cartuchera, como un cuerpo más mío
el agudo disparo que inicia en una vena aorta
y estalla en la válvula tricúspide con su gota de sangre
su DNA similar, los altos triglicéridos
que no brincan la cerca y por eso se escuchan las sirenas
en ese mar de fondo de su arteria, en ese mar profundo
del dolor y por toda la sala ambulatoria. Amar
era una excusa para estar con mi padre. Lo que realmente
quise fue penetrar su piel hasta encontrar mi cuerpo
latiendo gota a gota.

Mi padre, en cambio, vino
sin válvula mitral y sin arterias: dejó
que le llenaran el cuerpo de tubitos de plástico
y de suero. Ahora se alimenta de sombras y temores. Desde la hombría
lo sé: y abandono mi voz por la que ahora le sangra. Intercambio su abrazo
por mi beso. No lo dejo sufrir, porque no es de hombres.
Preparo mi escopeta, apunto a su garganta y cuento: una, dos, tres.
Una dos tres, papá, no te me escondas.
Una, dos, tres, por ese enorme padre que vuelve
a estar conmigo.


FUGA PRECIPITOSA

Arriva mio padre
e dice: c’è un posto
nell’uomo
nel quale non sono mai stato.
L’ho saputo da bambino. Cambia voce
la voce
che da un bianco
tenue
fortifica le ossa quando avanza
e torna la gravità del morire
con quest’altra visita che ci fa
la vita. Ci ha voltato le spalle quello
in cui costruiamo la prima illusione
l’innamoramento
la passione
l’abitudine
e dopo il disinganno.
Arriva
e se ne va
di continuo
e fa echeggiare il sangue.
In quel punto
esatto
dal quale nessuno scappa
dall’arteria
giunge un filo di voce
una piccola bolla
che disturba la carotide
e cede il passo ad altri uomini, non
conosciuti, urgenti nell’urgenza
di trovarmi nel respiro, la voce
affannosa
la vena nella mannaia
di questo dire “papà” quando sempre
era il padre a segnare
il passo

Viene con me e torna
la sua ombra
silenziosa. Arriva
a fatica la sua voce dietro i cavalli
e frustarono le porte della sala operatoria
dove stendo queste parole. È
più fermo di me se sostiene
le mie dita. Enormi come quel dio che giunge
in ritardo all’appuntamento che chiedemmo
da quasi due lustri, la sua ombra
è un calcio
quasi quel soprassalto che provocano gli occhi
che non amano
quel che amammo, ma che non per questo lasciano
di essere un grido, la sirena accesa di quel desiderio, passione
enormità di stare in uno sguardo, benché si stia dissanguando
l’anima attraverso le sue sottili suture. La cicatrice
è staffa, un blocco
mai più l’armatura
nonostante il suo azzurro, per il cielo
smisurato o il conteggio degli anni
di quel qualcuno che non
c’è.

Si sente una sirena lontanissima: sembra dire horses, horses, horses,
ma io ascolto hurts, hurts, hurts… e qualcosa mi fa male.

Può venire
da me, così come venne dal padre
di suo padre e di suo padre.
Possono venire i resti del naufragio
a incenerire la mia voce
e non metteranno a tacere
quello
che sto guardando.
E se può venire che dica
per chi si presenta, che ombra
è stata la sua
se sono sicure queste dure parole che cadono
sulla neve. Più difficile (quasi pigra) a tornare da noi
l’acqua del sollievo che ci diagnosticarono. Il sangue
che è di tutti
ha un trotto distinto. Si ascolta horses
benché risuoni hurts. Un’altra
maniera di saltare i recinti, e in lontananza
resta soltanto il mormorio, la secchezza dell’occhio
e quel gelido tacerci la partenza.

Ma che non ci dica cos’è
la morte: questa
mia ombra allungata
perché posso ucciderla
contro la mia propria paura.

Invece, al padre
no. Viene
con me il luogo dove ci troviamo.
Quella scuderia nell’essere stati insieme nei miei trentadue
anni che sono il paio di speroni
che gli conficco ai fianchi, che premo alle sue costole
con le quali lacero la sua groppa con un amore di ferro
a fuoco vivo e calce per la ferita. E se lo monto
a pelo, questo padre non smette di scalciarmi
di nitrire la negazione del figlio
non due ma tre volte, non un paio bensì altri figli
la sacra famiglia che non venga a sapere queste cose
perché ormai non c’è amore, benché ci sia avena
e lacci e ferro di cavallo per chi s’impenni.

Ascolto già vicinissima una sirena: sembra dire hurts, hurts, hurts
ma risuona horses.

Che non ci dica il padre, quell’uomo
che arriva coi suoi scarsi litri di tenerezza
così rauca, il riproduttore più scuro
che doma la morte se viaggia alle nostre spalle
o se la collochiamo davanti
stringiamo il suo ventre e la lasciamo andare
tutta la strada percorsa dietro l’ombra del padre.

Può o potrebbe venire con me quest’ombra di voce
che ormai non riconosco come quella del padre. Potrebbe essere
un latte più fertile oltrepassando le sue labbra da cavallo
e abbandonare quel duro cilindro che carico accanto a me
come una cartucciera, come un corpo più mio
l’acuto sparo che inizia in una vena aorta
ed esplode nella valvola tricuspide con la sua goccia di sangue
il suo DNA simile, gli alti trigliceridi
che non saltano il recinto e per questo si ascoltano le sirene
in quel mare di fondo della sua arteria, in quel mare profondo
del dolore e per tutta la sala ambulatoria. Amare
era una scusa per stare con mio padre. Quello che realmente
volli fu penetrare la sua pelle fino a trovare il mio corpo
battendo goccia a goccia.

Mio padre, invece, venne
senza valvola mitrale e senz’arterie: lasciò
che gli riempissero il corpo di tubetti di plastica
e di siero. Ora si alimenta di ombre e paure. Della virilità
lo so: e abbandono la mia voce per quella sanguinante del padre. Scambio il suo abbraccio
per il mio bacio. Non lo lascio soffrire, perché non è da uomini.
Preparo il mio fucile, miro alla sua gola e conto: uno, due, tre.
Uno due tre, papà, non ti nascondere.
Uno, due, tre, per quest’enorme padre che torna
a stare con me.


Il testo è stato pubblicato sulla rivista spagnola Estación Poesía (Universidad de Sevilla).

Traduzione dallo spagnolo di Alessio Brandolini



(Foto di Pascual Borzelli)

armenta@mantiseditores.com