FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 47
luglio/dicembre 2017

Mezzanotte

 

LE MIE NOTTI RUSSE

di Armando Santarelli



Quasi mezzanotte. Nei vicoli addormentati del mio paese tutto tace, tutto riposa. La Natura non poteva inventare nulla di meglio che il buio e il silenzio per sedare gli sforzi, gli affanni, le angustie del vivere quotidiano.
È da un’ora che sono sotto le coltri; il mondo esteriore è lontano, intorno a me parlano silenziosamente le cose care, che ho voluto accanto perché mi somigliano, mi legano agli affetti e al mio essere più riposto. Leggero, quasi immateriale nella solitudine e nella quiete, sono cullato dalla fluida lentezza, dalla ritmica armonia di una placida navigazione nel riposo e nel ricordo.

È in quest’atmosfera rilassata e sognante – propizia perciò alla reminiscenza creativa, all’intrecciarsi della memoria volontaria con quella involontaria sollecitata dai sensi – che Proust trovò la fucina silenziosa in cui avrebbe forgiato la sua immortale Recherche du Temps Perdu. Di giorno, ma soprattutto di notte, nella stanza rivestita di sughero al numero 102 di Boulevard Hausmann, il genio francese lavorò infaticabilmente alla decifrazione del libro interiore della propria vita, creando il gigantesco edificio del ricordo che costituisce tuttora una delle massime opere letterarie di ogni tempo.
Proust – ma anche Balzac, Dostoevskij, Kafka, Joyce e moltissimi altri letterati – amava scrivere di notte. La mia voluttà notturna di comunicare con la parola scritta si esprime invece nella lettura, nel contatto non col mio cuore, ma con il cuore segreto dei grandi scrittori del passato.

È il rito che celebro ogni notte, con gioia, fin da adolescente, e che non trascuro neppure quando le membra esauste reclamano il riposo, quando sono febbricitante, quando avverto gli occhi stanchi sotto le ciglia. Da più di quarant’anni la lettura notturna è per me l’indispensabile, nutriente pane spirituale che chiude tutte le mie giornate.
Ecco, mi sono appena coricato; come sempre, il mio orologio interiore mi ha suggerito di andare a letto prima che il sonno inizi la sua opera obliante e seduttiva. Prendo il libro dal comodino, e prima di togliere il segnalibro assaporo l’assoluta felicità di chi sta per perdersi nelle pagine dell’autore che ama. Da qualche sera sono immerso nella lettura di un libro di viaggi, la meravigliosa opera di Patrick Leigh Fermor intitolata La strada interrotta.
Come è possibile non entusiasmarsi per la brillante narrazione dell’attraversamento dell’intera Europa da parte di un ragazzo inglese che, all’epoca del viaggio, aveva soltanto diciannove anni? Muovendo dalla natia Inghilterra, e portando con sé solo uno zaino, un vecchio cappotto militare, due libri di poesie, una sterlina a settimana da ritirare al fermoposta, Fermor attraversò la Germania, l’Austria, la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Bulgaria e la Transilvania, raggiungendo poi Costantinopoli e terminando il viaggio nell’agognata Grecia, sino ad approdare, nella tappa finale, in uno dei luoghi-simbolo della spiritualità cristiana, il Monte Athos.

Erano gli anni fra il 1933 e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Ciò che vide Fermor, e che riporta con incredibile efficacia descrittiva nei suoi libri, era un’Europa ancora selvaggia, ma ricca di cultura, tradizioni, riti, di genuinità e senso di ospitalità. Ovunque, paesaggi mozzafiato, pianure aride e vette eccelse, fiumi impetuosi e colline riarse, ma anche contrade cittadine immobili nel tempo e quartieri pulsanti di modernità, genti di ogni lingua e costume, aristocratici di antichissima schiatta e contadini miseri e affamati, signorotti orgogliosi del loro stato sociale e plebaglia cittadina, studiosi di rango e zingari analfabeti e violenti.
Ci sono letture importanti, ma non particolarmente avvincenti; ci sono libri interessanti e ben scritti e libri fiacchi e sciatti; ci sono libri che appassionano fin dalle prime righe e libri noiosi che leggiamo solo perché fanno parte del patrimonio culturale mondiale. Ma quando si legge la narrativa di viaggio di gente come Fermor, Robert Byron, Bruce Chatwin, o i romanzi di Dostoevskij, Tolstoj, Proust, Bellow, Roth, o i racconti di Cechov, Henry James e Alice Munro, allora non si può non dare ragione a Camilla Baresani quando afferma che “la lettura di un libro può dare il piacere di un amplesso, e inoltre dura più a lungo”.

Non esiste una classifica di merito di ciò che è passato sotto i miei occhi, e nel mio animo, in quarant’anni di letture continue e appassionate. Ma forse una preferenza posso esprimerla, e forse è proprio la lettura notturna a delinearla. Perché la pace della notte, il silenzio, la possibilità di immedesimarsi nelle innumerevoli storie e personaggi creati dalla letteratura mondiale, questo clima di fervida quiete interiore, questo piacere solitario, mi sembra consono alle pagine degli scrittori della terra più vasta, più gravata di sofferenze, più contraddittoria, più estrema, più amata da chi, pure, ne ha vissuto la spietatezza e la severità: la terra della Grande Madre Russia.



Non si può resistere alle vicissitudini di un popolo che ha sofferto tutto ciò che un essere umano può soffrire, non si può non amare il contadino russo, attaccato come nessun altro alla terra, alla carne, al sangue, fiducioso nei suoi governanti anche quando lo schiavizzano e lo affamano, eterna vittima di ideali condannati dalla Storia (l’Imperialismo zarista, il Panslavismo, il Comunismo), eppure saldo nella convinzione di abitare la terra scelta dal Signore per salvare l’uomo e il mondo. Ecco la grandezza della letteratura russa: non c’è scrittore russo che non rintracci nel più umile dei suoi personaggi un’anima fiduciosa nella benevolenza della sua Terra Madre, la convinzione che ciò che è stato assegnato all’uomo è comunque un bene, e ciò che è stato assegnato al popolo russo è qualcosa di grande, una missione che si estenderà al mondo, per la sua salvezza.

“Per Dostoevskij”, scrive Cioran, “la Russia, lungi dall’essere un problema locale, è un problema universale, allo stesso titolo che l’esistenza di Dio”. Ma l’aspirazione a voler dare un senso assoluto alla storia patria è presente, come dicevo, in tutti gli scrittori russi del passato. Tralascio di parlare di opere immortali come le poesie di Karamzin, di Nekrasov, di Puskin, dei romanzi di Lermontov, Tolstoj e Dostoevskij, dei racconti di Gogol, Turgenev e Cechov, perché ci perderemmo in un discorso tanto affascinante quanto interminabile. È sufficiente, per innamorarsi della letteratura russa, avere fra le mani qualsiasi cosa, dall’autobiografia dell’arciprete Avvakum alla “Storia delle letteratura russa” di Dmitrij Mirskij, da una qualsiasi antologia poetica alle sensazioni-illuminazioni dei critici letterari, perché ovunque, quando scrive un russo, troviamo l’erompere della vita e dell’energia della Rus’, il tono profetico dei suoi poeti e romanzieri, la loro forza di penetrazione nei meandri dell’anima umana, l’anticipazione della colossale crisi spirituale del mondo moderno.

Come a dover corrispondere all’immensità della terra natia, non esiste uno scrittore russo la cui esistenza non sia densa di avvenimenti eclatanti, tragedie, esaltazioni, cadute e resurrezioni. Le vite di Dostoevskij e di Tolstoj, con le loro tormentose domande sull’esistenza di Dio – argomento intorno al quale ruota tutta la loro opera – ne sono testimonianze perfette. Ma tutti, tutti gli autori russi hanno avuto vite intensissime, mai banali, come se un demone li spingesse ad andare oltre, ad affermare se stessi e le loro idee senza alcuna considerazione del giudizio altrui, umano o divino che fosse.
Marina Cvetaeva visse in estrema povertà, rifiutando stoicamente ogni asservimento al potere, fino al punto di essere esiliata in Siberia, di implorare un lavoro da sguattera e infine impiccarsi a causa del dolore, delle umiliazioni, delle privazioni fisiche e morali inflitte dal regime staliniano. Forse, per questa eroina delle lettere non poteva darsi altro esito esistenziale, perché Marina sacrificò ogni cosa – affetti, ricchezza, gloria, amicizie – alla poesia. “Tutta la mia vita è una storia d’amore con la mia anima”; ovvero con la poesia, aggiungiamo noi, che per lei costituiva la principale ragione di vita.

Il grande poeta Fedor Ivanovic Tjutcev – la cui poesia d’amore per la giovanissima Elena Aleksandrovna Denis’eva, figlia della sua governante, è, come scrive Dmitrij Mirskij, “la più profonda, sottile e commovente poesia tragica d’amore di tutta la letteratura russa” – rappresenta l’ennesimo caso umano e letterario della Russia. Quest’uomo brillante, proveniente da una famiglia di antica nobiltà, entrò nella carriera diplomatica a soli ventidue anni, lavorando in diverse sedi europee, e diventando corrispondente di Heine, Schelling e altri letterati tedeschi. La cosa singolare è che sia nella vita pubblica che in quella privata, Tjutcev parlò e scrisse esclusivamente in lingua francese, ed usò la lingua madre, il russo, solo per le composizioni poetiche. Ma c’è dell’altro; pur essendo stato “scoperto” ed elogiato da un critico del calibro di Nekrasov, e considerato un grande poeta sin dalla sua prima opera in versi, Tjutcev pubblicò pochissimo in vita, dando l’impressione di essere quasi indifferente alla sua produzione poetica!

Chi conosce un po’ la letteratura russa, non ignora certamente che Puskin è considerato unanimemente il massimo poeta russo, e Lermontov – morto come lui in un banale duello a soli 27 anni – un poeta finissimo (specialmente nella poesia realistica) e un prosatore di eccezionale talento, come dimostrò nel noto romanzo Un eroe del nostro tempo. Ebbene, sia Puskin, sia Lermontov rifuggivano da pose artistiche e da salotti letterari, e Lermontov, ancor più di Puskin, pretendeva di non essere considerato un uomo di lettere!
Sentite Gogol, in una lettera del 1840 a Sergéj Aksakov, a proposito della sua opera più grande, Le anime morte: “Modifico, rifaccio… nella mia testa il seguito va elaborandosi con più chiarezza e maestà, e vedo che ne può venir fuori qualcosa di grande… Certamente pochi sanno a quali idee vigorose e a quali profonde manifestazioni può portare un soggetto insignificante”.
Lo stesso Gogol a proposito delle favole di Krylov: “È la nostra forte mente russa che parla, quella stessa mente per cui è forte l’uomo russo, la mente deduttiva. Le sue favole sono conquista del popolo e formano il libro della saggezza del popolo. Gli animali vi pensano e agiscono addirittura troppo da russi. In ogni sua cosa è sempre la Rus’ che parla, è l’odore della Rus’ che si fa sentire”.

Turgenev su Belinskij, forse il più grande critico letterario russo di ogni tempo: “Belinskij a colpo d’occhio distingueva il bello dal brutto, il vero dal falso, e con sicura coscienza pronunziava il suo giudizio, esprimendolo senza reticenze, con tutto il calore della sua salda convinzione”.
Dostoevskij su Nekrasov, eccelso critico, poeta, giornalista ed editore, capace di scrivere in pochi anni – dal 1840 al 1845 – tanti articoli, poesie e racconti che per altri ci sarebbe voluta tutta una vita: “Nekrasov fu un cuore ferito all’inizio stesso della vita, e la sua ferita mai cicatrizzata fu il principio e la fonte di tutta la sua poesia appassionata e dolorante, di quell’amore appassionato sino alla sofferenza che quest’uomo provò per tutti ciò che soffre sotto la violenza, a causa della crudeltà di quella volontà sfrenata che opprime la nostra donna russa, il nostro fanciullo nella famiglia russa, il nostro uomo del popolo nella sua sorte così spesso amara”.

Nekrasov era nato per fare il giornalista e l’editore, e queste attività gli assicurarono un meritato successo. Ma si dimostrò grande anche nella poesia, nella critica letteraria, nella narrativa. I suoi racconti sulla brutalità della condizione umana dei reietti della terra, e sul loro commovente, possibile riscatto, vanno dritti al cuore del lettore.
Nel Canto di Jeremuska, un giovane sosta dinanzi a una casa di contadini, dinanzi alla quale una donna intona un canto di profonda tristezza. Il giovane lascia che la donna finisca, poi prende in braccio il bambino ed erompe in un inno di rivolta.
Il villaggio dimenticato è la storia di alcuni contadini servi della gleba; caduti in un profondo stato di miseria e di abbandono, pur tuttavia hanno ancora fiducia che il loro padrone torni al villaggio e dia loro aiuto.
Nel poemetto Chi vive bene in Russia?, sette contadini decidono di peregrinare per tutta la Russia per trovare chi abbia un’esistenza felice, e arrivano alla conclusione che nessuno, dal più povero dei contadini allo zar, possa affermare di vivere felicemente.
In un altro poemetto, il celebre Gelo, naso rosso, la poesia di Nekrasov raggiunge il vertice dell’arte compenetrata di compassione umana, quando canta della povera donna che persino il giorno della morte del marito si reca nella foresta a far legna.

Ecco, questa è la letteratura russa. Caratterizzata ovunque da una forza ancestrale, impregnata di individualità e di popolo, di struggente poesia e brutale carnalità, pervasa dalla consapevolezza di ogni scrittore della tragica grandezza della Patria. È la singolarità e il mistero dello spirito russo, come aveva compreso il già citato Tjutcev. “Non si può capire la Russia con la mente, nella Russia si può solo credere”.
Esprimendo lo stesso concetto, ecco i versi di Aleksandr Aleksandrovic Blok, certamente uno dei massimi poeti russi:

      La Russia è la Sfinge. Esultante e afflitta,
      pur piangendo sangue nero con furore,
      Essa ti guarda, ti guarda, ti fissa,
      con tutto il suo odio e tutto il suo amore!
Odio, amore… Sì, forse so spiegare perché adoro la Russia e i suoi letterati, e perché amo leggerli nel cuore della notte, quando ci sentiamo più vicini a noi stessi e alle cose ultime: tutto ciò che è russo ha a che fare con l’odio e l’amore, con la vita e con la morte, insomma con le forze primarie dell’esistenza, con le sorgenti stesse del nostro essere.


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