Singolare destino, quello del giovane giornalista Amedeo Dalmasso, inviato nel 1939 a Ventotene per documentare la magnanima visione del regime fascista, che, sia pur costretto per autodifesa a privare i suoi oppositori della libertà per mezzo del confino, concede loro però l’opportunità di redimersi. Dalmasso dovrà illustrare “in chiara prosa littoria” la perfetta organizzazione e il rispetto di ogni esigenza umanitaria che regnano nella “cittadella confinaria” della piccola isola dell’arcipelago pontino.
È secondo questo concetto che le autorità fasciste dell’isola cercano di incanalare l’inchiesta del giornalista. Il quale però è troppo giovane e curioso per non provare insofferenza verso l’interessata tutela dei suoi mentori, e nei rari momenti in cui riesce a sfuggirvi finisce per intuire verità ben diverse. È tenendo conto anche di questo che scrive il suo articolo.
Ma sulla nave che sta per ricondurlo in terraferma, Dalmasso viene arrestato e trattenuto sull’isola: simile al protagonista del Processo kafkiano, inutilmente attenderà di conoscere il motivo della sua detenzione.
Attenderà a lungo, fino a quel 25 luglio del ’43 che con la caduta del fascismo produce la fine delle colonie confinarie. Ma mentre arrivano a Ventotene, ben presto sotto l’incubo degli aerei inglesi e americani, le liste dei confinati da rimettere in libertà, per Amedeo Dalmasso, detenuto per cinque anni senza esplicita accusa, non ci sarà alcuna disposizione. Come se non fosse mai esistito, di lui si perde da quel momento ogni traccia.
Eppure un segno è rimasto dei suoi anni sull’isola. Da quel lavoro destinato al giornale era nata infatti in Dalmasso la scelta di assumersi il ruolo di osservatore e testimone, continuando a scrivere. Le cose che ha visto, che ha capito, che ha vissuto, le ha raccontate, facendosi egli stesso protagonista del proprio racconto.
Tutta questa vicenda potrebbe essere emersa da una cronaca ripescata nella raccolta di un giornale; o da un manoscritto risorto da qualche archivio o biblioteca per sottrarre all’oscurità il nome di Amedeo Dalmasso, aggiungendolo alla fila dei cronisti e degli studiosi che sul confino e sull’isola hanno scritto saggi e testimonianze.
Invano, tuttavia, si cercherebbe quel nome nelle bibliografie.
Amedeo Dalmasso è personaggio d’invenzione, creato dallo scrittore ligure Giacomo Revelli quale protagonista del romanzo Confini senza frontiere, pubblicato nel 2015 dalla casa editrice ultima spiaggia.
In quei confini sono rinchiusi antifascisti di varia ispirazione, comunisti, socialisti, anarchici, repubblicani, esponenti del movimento Giustizia e Libertà. Molti di loro saranno tra i maggiori protagonisti della storia italiana dalla lotta antifascista alla Resistenza e alla democrazia, da Sandro Pertini ad Altiero Spinelli e a tantissimi altri. Insieme a loro anche Testimoni di Geova, stranieri di varie nazionalità soggette all’Italia e, infine, numerosi criminali comuni.
La loro vita soggiace a regole strette, spesso assurde e dettate dal puro intento di minare la loro stessa umanità, e la cui osservanza è garantita dall’arbitrio e dalla violenza dei carcerieri. Tuttavia essi sono in apparenza liberi di muoversi, sia pure in una ristretta parte della minuscola isola. E questa apparente libertà di movimento si rivelerà come il punto debole del sistema.
Tutto questo narra il romanzo di Giacomo Revelli, il cui maggior merito è quello di aver impresso nel racconto in prima persona la forma della cronaca reale di un destino, al punto che Dalmasso si fa reale allo stesso modo dei personaggi reali, evocati con sapiente forza narrativa in Confini senza frontiere.
Un titolo, questo, che invita a riflettere, per il suo modo di separare e contrapporre due termini che nell’automatismo della percezione sono strettamente legati. Ma nel titolo è già espressa appunto la vicenda che nel libro si narra come il senso che essa genera, o dal quale viene generata.
In quei ristretti confini, fa narrare Revelli a Dalmasso, si svolge una storia di incontri, di relazioni, di discussioni, di conflitti, di progetti e visioni: destinati secondo la convinzione dei fascisti a costituire nient’altro che un passatempo, utile a tenere la gente occupata ma destinato a non produrre mai alcun effetto fuori dell’isola. “L’unico modo per andare via da qui è distesi”, afferma infatti con cinico e miope sarcasmo il direttore del confino. In effetti sotto lo sguardo dei carcerieri appannato dalla boria del potere, Ventotene si fa scuola, si fa laboratorio politico in cui si mettono a confronto idee ed esperienze spesso conflittuali, e nel quale il giovane Dalmasso vive personalmente, con sofferenza e passione, una profonda crescita civile e politica.
Può così dichiarare, in una sorta di bilancio, che “Non c’è un luogo come un’isola che detti confini. E non c’è mai stata un’isola come Ventotene che abbattesse le frontiere”.
Tutto questo Revelli narra con calorosa adesione in una lingua asciutta e chiara, facendo maturare e crescere l’emozione attraverso lo sguardo e l’esperienza che il suo Dalmasso va gradualmente facendo tra anarchici e comunisti, per approdare più tardi a quel capolavoro del pensiero politico novecentesco che è il Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni: il progetto di un’Europa unita e senza guerre, concepito in quegli anni di umiliazione su un minuscolo scoglio vulcanico che sembra perso nel cuore del Tirreno. “Una ciabatta sul mare”, come lo definiva Camilla Ravera, che vi fu confinata.
Insieme alla storia del confino Revelli racconta l’isola nello sguardo del protagonista, l’isola la cui solitudine ispira stupore e timore e assume quasi il senso di una distanza metafisica. L’isola riflessa, la definisce la scrittrice Fabrizia Ramondino.“Perduta, sola, sconsolata”, come si offre alla prima occhiata del giovane giornalista; “non pareva essere nemmeno un’isola, ma uno scoglio, un sasso ocra oppure, meglio, un osso, imbiancato dai voli di sterne e di fregate. Che sorpresa vedervi comparire, una alla volta, le case, gli edifici, una chiesa, il porto”.
L’isola nella sua doppia natura di luogo che rinchiude e di luogo appartato, protetto, dove anche la sofferenza può sublimarsi. Come sembra mostrare il personaggio dell’anarchico Libero Ginestra, che riesce a realizzare su quel “sasso ocra” una sorta di paradiso primitivo in cui fa crescere ortaggi, frutta, fiori: simile a quelle figure tra il divino e l’umano che in epoche arcaiche scendevano a insegnare la coltivazione della terra.
Ed è proprio la natura “arcaica” primigenia, luogo dell’anima, dell’isola che Revelli sembra far emergere, come luogo ben radicato nell’inconscio umano. In fondo, ogni isola è anche un archetipo: ogni isola, anche la confinaria Ventotene, sembra dire Revelli, è un’Itaca. È dunque giusto che la biografia dello stralunato e saggio Libero Ginestra, figura immaginaria ispirata al giardiniere di Italo Calvino, compaia insieme a quella dell’immaginario Amedeo Dalmasso tra le biografie “reali” poste in coda al romanzo.
Ho letto Confini senza frontiere a Ventotene. Il confino è ancora presente nella memoria dell’isola, in tracce, o cicatrici, discrete ma esplicite: il resto di muro con la grata e le lapidi, un avanzo delle baracche, le targhe che indicano luoghi dell’epoca, come una mensa di cui fu responsabile Pertini, le botteghe tenute da alcuni confinati… Iniziative culturali e politiche tengono desto il ricordo di quegli anni e il luminoso appello europeista.
C’è una libreria, sulla piazza, proprio di fronte alla antica fortezza borbonica. Una libreria fornita e vivace, da molti anni frequentatissimo punto di incontro. Si chiama, con irriducibile romanticismo, ultima spiaggia. Così, in minuscole. E, sempre in minuscole, è anche casa editrice. Anima di entrambe è un signore dagli occhi azzurri e più giovane della sua chioma bianca, Fabio Masi: uno dei tanti capitani coraggiosi dell’editoria indipendente in Italia. È appunto da lui, con il marchio di ultima spiaggia, che ho trovato questo libro.
L'ARRIVO A VENTOTENE
di Giacomo Revelli
(da Confini senza frontiere)
Ventotene
Ma nei miei compagni di bordo la condanna non sembrava aver spento il coraggio. Li vedevo, appoggiati alla balaustra, lo sguardo perso al largo, tranquilli fuori e sconvolti dentro. Ma non arresi. Erano tutti vestiti bene, come nei giorni di festa, i pantaloni buoni e la camicia inamidata, vestiti che avrebbero tenuto a lungo e sarebbero rimasti stirati ancora per poco. Come se presentarsi ben vestiti ai confini del mondo servisse a legittimare i loro ideali controcorrente. Qualcuno, invece, ancora inconsapevole delle punizioni, affibbiate per motivi banali, era sempre all’erta e rispondeva alle provocazioni dei militari che li punzecchiavano ognora. Uno, in particolare, la giacca color vinaccia, una cravatta scura e la testa ondulata di riccioli, sembrava il più irrequieto: pareva un cane cui fa male il collare o un cavallo cui duole il morso. Si accaniva particolarmente contro uno dei militari schierati a cordone, uno solo, uno per tutti subiva le sue repliche.
«Maledetto, sei peggio di un servo, peggio dei cani» diceva, quasi con la bava alla bocca. A quelle parole il carabiniere lo respingeva con il fucile di traverso, esacerbandolo ancor di più.
«Presto finirà tutto... e vedremo allora...»
Insisteva. Non sapeva che così facendo sprecava energie. Avrebbe avuto tempo per capirlo. Tra tutti, sembrava il più disperato. Credo che solo l’acqua gelida del Tirreno gli impedisse di lanciarsi in mare.
L’alterco durò per quasi un’ora. Il militare mandava spintoni ma non reagiva, l’altro stava attento a non offendere il Duce: sapeva che erano almeno tre mesi di prigione; si capiva che proprio a questo il carabiniere voleva arrivare.
Un altro dei confinanti, con una giacca dozzinale e sdrucita, color cachi, non sembrava nemmeno troppo preoccupato, il suo volto era rassegnato. Forse tornava qui dopo una licenza speciale o un congedo.
Anche i più agitati si calmarono quando dalla nebbia comparvero i fianchi bianchi dell’Isola di Ventotene.
Se è la geografia ad aver ragione, da lontano quella non pareva essere nemmeno un’isola, ma uno scoglio, un sasso ocra oppure, meglio, un osso, imbiancato dai voli di sterne e fregate. Che sorpresa vedervi comparire, una alla volta, le case, gli edifici, una chiesa, il porto.
Più ci avvicinavamo e più i miei compagni scolorivano. Mantenevano la loro dignità di vittime della storia, accettavano malgrado tutto il loro purgatorio. Smessa la lotta con il carabiniere, il confinato con la giacca vinaccia s’era messo a piangere. Era rabbia, non sconfitta, si capiva, ma cominciò a singhiozzare. Il carabiniere a quel punto ripose il fucile in spalla. Eravamo quasi alla bocca del porto.
Già si vedevano le vie del paese. Molta gente stava lì, in piedi, a sventolare un fazzoletto bianco per salutare l’arrivo del piroscafo. Qualsiasi cosa avesse portato, posta, cibo, nuovi confinati, arrivava a infrangere un pochino la loro noia.
Pensai a come potevo raccontare tutto questo «in chiara prosa littoria». E qual era il mio mestiere, scrivere o raccontare la verità?
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Giacomo Revelli, Confini senza frontiere, edizioni ultima spiaggia, 2015, pagg. 272, euro 14.50.
Giacomo Revelli è nato a Sanremo nel 1975. Autore di racconti e romanzi, ha pubblicato A-10 (ennepilibri, 2006), Dell’approvvigionamento idrico della città di Genova (Fratelli Frilli, 2009), Nel tempo dei lupi. Una storia al confine (Pentagora, 2013) e Confini senza frontiere (ultima spiaggia, 2015). Con Andrea Ferraris ha realizzato il fumetto Bottecchia (Tunué, 2011).
tarquini.francesco@fastwebnet.it
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