FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 42
aprile/giugno 2016

Residenze

 

L'ULTIMA RESIDENZA

di Nina Smozine



Eccole che cominciano ad arrivare: non potevano mancare alle grandi manovre di ottobre, ed è adesso che mostrano il loro vero volto. Certamente più ora che non nell’occasione formale del 2 novembre, commemorazione dei Defunti, in cui assisteremo alla solita parata di teste grigio argento, biondo cenere, rosso ramato, tutte fresche di messa in piega domestica.

Ora invece arrivano in abiti dimessi, con il loro bravo corredo di vasetti di latta, lumini e fiori finti. Tutte cose che noi detestiamo, e che odiavamo anche prima, quando ci facevano vivere tra centrini di pizzo e copriletti di raso lucido. Ma chi è mai riuscito a fermarle? Chi ha mai resistito alla loro implacabile volontà di metter tutto in ordine? Neppure noi abbiamo resistito.

Cominciano a lucidare lapidi ed ottoni, gesto preliminare a qualunque altra cosa. Poi, trovata una vicina di tomba, ecco che attaccano a raccontare le loro storie, cioè le nostre storie, senza pudore: umilianti colpi apoplettici, stomaci in cancrena, prostate giganti spiattellate in giro come fossero avvenimenti di pubblico interesse. E poi la cronaca delle loro battaglie a colpi di pillole, iniezioni, radiografie: con la proprietà di linguaggio di un primario ospedaliero illustrano la loro devota precisione nel monitorare il disfacimento dei nostri corpi. Munite di padelle e pappagalli hanno presidiato il nostro giaciglio finale fino all’ultimo respiro, lì a raccogliere il nostro ultimo fiato, il nostro ultimo balbettio demente.

Siamo stati deboli, e troppo lo eravamo per spiegare loro che il momento della morte è un'esperienza intima – ed unica – che molti vorrebbero vivere con se stessi, o che l’ultimo sguardo sul mondo lo avremmo voluto sgombro dalle orride cose che assicurano l’igiene.

Perché lo avete fatto, e soprattutto per chi?

E cosa sono quelle ridicole foto, vecchie di trent’anni, che avete messo sulle nostre tombe? Sono la prova fotografica di quella che per voi era una sicura felicità coniugale, fondata su solide competenze: “Un pezzo d’uomo, signora... e pensi che alla fine si era ridotto a 45 chili”.

È così che ci vogliono esibire: nella versione florida, prova documentata della loro capacità di nutrirci e rimbambirci con overdose di bucatini, polpette e zuppe inglesi, cioè il presunto universo dei nostri bisogni che sono certe di aver saputo individuare e soddisfare.

Le nostre vedove: ci hanno gestito come un bene di famiglia, con lo stesso zelo che dedicavano alla casa, ai figli, al giardino, al pollaio. Le nostre tombe sono per loro una dependance del domicilio coniugale, i nostri corpi erano e sono ancora sotto la loro giurisdizione. Sono state le signore della nostra vita e della nostra morte. Sono longeve, robuste, instancabili, mai sfiorate dal dubbio. Sono una maggioranza compatta, silenziosa e trasversale: troppo tardi ci siamo accorti di quanto fosse inarrestabile, e devastante, la loro presenza nelle nostre vite.


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