FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 40
ottobre/dicembre 2015

Forza & Debolezza

 

FORZA E DEBOLEZZA
(cerca in te la rosa)

di Viviane Ciampi




Saperti debole fino a morirne questa è la tua forza.

Per tutta la vita l’hai rincorsa. La cercavi dentro di te, così come consiglia stupidamente la gente: “Cerca in te la forza”.

Parole inutili poiché dentro di te vigilava prima quella tenda opaca che tremando spostavi e dalle pareti a buccia d’arancia, cento occhi a guardarti, a giudicarti.

Li conoscevi bene, erano gli occhi degli assenti ai quali non avevi detto la tua gratitudine sia per distrazione sia perché non avevi fatto in tempo.

Il lavatoio, nel borgo marinaro vicino a casa tua era stato riempito di terra con tante rose e piante grasse ben curate. Qualcuno aveva posto una targa d’ottone per ricordare che un uomo, ora morto, le aveva curate per anni. Si chiedeva al viandante di avere un pensiero per quell’uomo e di continuarne l’opera in sua memoria di persona gentile e per non far morire quell’angolino di città.

Quell’uomo, folle della rosa con la peste attorno, pur abitando vicino a te, non lo avevi mai incontrato.

Sgombrava il grigio e le rovine. Tamponava l’erosione.

Passando per andare al mare rimuovevi la terra, sistemavi i fiori, li annaffiavi e tutta la strada con le barche sistemate ai lati diventava allegra, abitabile.

Eppure i giardini non erano il tuo forte. Nonostante la buona volontà, ogni volta che prendevi cura di un fiore arrivava sempre il momento in cui s’ammalava per qualche tua inesperienza. Ma li amavi, i fiori. Come no? Le rose specialmente. Li amavi a modo tuo come sempre avevi amato gli esseri che a un certo punto accanto a te perdevano i petali del vivere.

E Interrompevano il tuo silenzio. Ne secretavi la distanza.

E troppo saggi. La mania di guardarti dentro.

Oh cari: ti vivevano in gola, emanavano dal corpo con la televisione che lasciavano accesa o parlavano a voce alta e non ti lasciavano dormire. Alcuni morivano per dispetto.

Non dormire è male. Insonnia: schema che conosci, malessere inesorabile come mille vespe penetrate dalle narici, tutte insieme nel sentiero del cervello. Ti addormenti solo all’alba e al mattino devi svuotare tutto quel veleno versato nella testa dalle vespe.

Quando lo hai rovesciato senti ancora il ronzio con il temporale del caffè nello stomaco e le porte delle tempie che cominciano a sbattere per dirti che un nuovo giorno sta per cominciare, che devi andare all’Università degli Attimi.

L’occhio cancella quel poco della notte rimasta. Ti butti a capofitto dentro il giorno e se ti chiedono come stai rispondi bene e riesci a sorridere perché la verità è anche un po’ del tuo sorriso.

Da un lato hai la notte che ha messo radici nello stomaco e dall’altro hai il giorno a cui non chiedi se sarà degno della luce.

Ma questo non vorrebbe dire niente, davvero non vorrebbe dire niente.

Il giorno in te è l’ombra che conosci che fa pieghe quando provi a sistemarla.

Ascolti Bach prima di uscire, convinta che abbia ricevuto la facoltà di svelare tutta la bellezza del mondo. I leggii dell’universo si aprono. Poco importa che l’aria s’indurisca che il dolore ricopra sonni risicati.

L’occhio di un dio nascosto sta creando. Ah, gli dici, non mi spaventi con l’inferno. Lui posa il cielo sulla tua mano aperta, lo stringi nel pugno.

Ma il dolore non è un miraggio: è una forza. Rode dall’interno nel corridoio lungo, quasi avesse una marcia in più. Parte ma non va.

Tu vas, de toutes tes forces au-devant de la glace.

A quell’ora del mattino sotto gli alberi di Giuda, il dolore fa sempre l’occhiolino. Quel poco d’avvenire viola ha succhiato l’oscurità.

La neve sta ricoprendo il quartiere e le certezze. Se non è neve è segatura. Ma quale differenza?

Oggi – giorno di colombe – ogni parola ascoltata della gente che sfiori per la strada si fa comune mistero.

Il macellaio all’angolo sorride e taglia la bistecca. Cantando e fischiando all’angelo dell’abisso. Nessuno ascolta il grido della bestia. Lei non apriva a nessuno di notte e nessuno può dire che qualcuno abbia urlato.

Sonno e morte non si raccontano.

Parfois, le noir a du mal à se taire.

Sbuca il sole piano piano, un poco avaro di magia. Tu sai, noi sappiamo aspettare. Siamo forti e deboli insieme: affrontiamo l’arciere quando scocca la freccia.

Adesso puoi vedere la vita – a tratti repentina – ciò che si sottrae, ciò che si allontana, nero e bianco, croci e danze. Nulla più sarà smarrito.

Une voix murmure – à peine audible – qui a le pouvoir de séduire.

Sono qui, dici alla tua solitudine. Perché hai spento? Oh tenebrosa ho negli occhi steli d’ombra!

Avanzare brancolando, dominare il buio, questo risponde la solitudine.

Allora l’armonia? Poggia il piede dentro, nella vicinanza della meta!

Un fiore acuto cambia l’odore della morte, dovresti gioirne.

Ogni debolezza è vana, va’ cammina oltre il ghiaccio fino al lavatoio.

Sto nascendo, dice la rosa. Tu mi guardi e sorridi: è questa la mia forza.


(Foto di Lino Cannizzaro)

viviane.c@alice.it