FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 39
luglio/settembre 2015

Svaghi & Feste

 

COME FARSI FARE LA FESTA

di Armando Santarelli



Non esiste rito collettivo più antico; non esiste altro fenomeno che possa mettere insieme sacro e profano, sublime e ridicolo, tristezza e allegria, cerimonialità e disordine: è la festa, più universale dello sport, delle guerre, dell’arte, uno dei pochi eventi umani dove si abbattono tabù secolari, dove si rovescia l’ordine sociale, dove alla consacrazione ritualizzata può seguire lo sfogo irrazionale e la violenza.
Le feste: antichissime, sì, ma con una data di nascita: quando uno dei nostri antenati prende coscienza del tempo interiore; è allora che il rito primitivo diventa l’evento che separa il tempo del lavoro da quello del riposo, la fatica terrena dal culto, la quotidianità dall’eccezionalità. Dalle Dionisie greche ai Saturnalia romani, dalle Feste della Dodicesima Notte dell’Europa settentrionale al Carnevale di Rio: è il tempo che esce fuori dal tempo, lo straordinario che subentra e respinge l’ordinario, è la strana socialità di un fenomeno che si svolge quasi sempre in modo eccessivo, emotivo o esibizionistico.



Achille Pinelli, Carnevale romano


Ma le feste non sono tutte uguali: possono essere un qualcosa di molto esclusivo, o all’opposto il più democratico degli eventi, uno dei pochi dove gli spettatori sono in grado trasformarsi in attori senza aver studiato alcun copione. Possono diventare un qualcosa di globalizzato, come Halloween, o rimanere nell’ambito di una comunità che le custodisce e le perpetua gelosamente, perché legate alla sua fondazione, a un particolare evento, al culto, a una precisa identità. Ovunque, però, festeggiare è un’arte; piccola o grande che sia, è la comunità riunita a celebrare, a decidere come interrompere il presente, a quali storie, miti, ricordi ispirarsi per vivere il tempo della liberazione, dell’euforia, della dissipazione, della condivisione.
Nella nostra cultura, una è la festa per eccellenza, quella capace di richiamare nello stesso giorno persone sparse in tutto il mondo, e di scatenare sino allo spasimo le forze della fede, del campanilismo, della passione: è la festa del Santo Patrono. Ottomila centri in Italia, ottomila feste patronali, e un carattere comune: il fanatismo insopprimibile, quasi ontologico, che le contraddistingue.

A Cerreto Laziale, il mio paese natale, la festa patronale è quella della Madonna delle Grazie, che si celebra, come dispone lo statuto della Confraternita, la prima domenica dopo l’otto settembre. La devozione, il fervore, l’orgoglio per la nostra Patrona: li conosco bene, perché a soli 16 anni ero già “festarolo”, cioè uno dei membri della Confraternita incaricati di organizzare annualmente la solennità.
La Confraternita della Madonna delle Grazie ha sempre contato su una media di un centinaio di iscritti; a rotazione, quindici ogni anno (i festaroli, appunto, riuniti in un Comitato) hanno il compito di occuparsi della festa, per cui ogni 6-7 anni si è coinvolti in prima persona nei preparativi. E non si parla solo dell’aspetto religioso, perché il festarolo deve curare l’addobbo del paese, la preparazione delle ciammelle (il dolce tipico della festa), i giochi popolari, la lotteria, la serata canora, lo spettacolo pirotecnico, il concorso di poesia dialettale, il torneo di briscola e cento altre iniziative.



La processione della Madonna delle Grazie


Una volta nominati, i quindici del Comitato dei Festeggiamenti eleggono subito un Presidente, “il Signore”, che dunque ha in primis la responsabilità del buon andamento di tutte le operazioni. Quando, nel 1972, divenni festarolo per la prima volta, come “Signore” eleggemmo all’unanimità Vittorio Rosetta, di professione infermiere, uomo pacato e affabile, il quale, appena dopo la votazione ci guardò uno per uno, e con un sorriso bonario, ma velato da un’impercettibile malizia, sentenziò: “Va be’, ié ve ringrazio. So’ contentu, però vedo tante facce giovani… Ahò, non me ficiate fa’ ‘na brutta figura, eh! No, perché ci sta un proverbiu: Chi se va a lettu cogli pupi, se reviglia scommerdatu”.

Scoppiammo tutti a ridere, lui compreso; aggiunse subito che stava scherzando, e cominciammo a pianificare l’organizzazione della festa. Non ci volle molto a capire che Vittorio, in seguito alla nomina a “Signore”, era diventato un’altra persona: teso, ansioso, preoccupato che la festa riuscisse in ogni minimo dettaglio. Io ne ero rimasto sorpreso, i veterani del Comitato no: “La festa te leva la pelle, nun lo sai?” In particolare, due erano le fonti di maggior apprensione per il “Signore”: le ciammelle e la buona riuscita della serata musicale.
“Oh”, ci aveva detto sin dalla prima riunione, “aimo da fa bene tuttu, tuttu. Alla processione e agli addobbi ci penso ié, agli giochi popolari ci dà ‘na mano la Pro-Loco, pe’ i fochi d’artificio chiamimo la ditta de Cutullè. Ma se le ciammelle non so’ bone e gli cantanti non fau ‘na bella serata, ci massacranu, ié v’avverto”.

Per fare le ciambelle, Vittorio arruolò un piccolo, ma invincibile esercito femminile, scegliendo le più brave massaie di Cerreto. Inoltre, comprò personalmente gli ingredienti necessari per preparare il dolce: limoni siciliani, uova nostrane, ricotta dei pastori locali, farina dell’antico molino di Ciciliano e il miglior anice sul mercato; insomma, le ciambelle non potevano tradirci.
“Agli cantanti però ci pinsite vui”, fece indicando Agostino, Sandro e Mario (tutti intorno ai trent’anni), aggiungendo poi anche me al gruppo. “Ho sentitu un po’ in giro”, continuò, “la gente volarria Edoardo Vianello e la moglie, i Vianella. Cantanu a Bellegra domenica prossima, iate loco e parlate co’ issi, o cogl’impresario, ficiate vui. Oh, ‘ite da chiude l’affare, ho saputu che ari cantanti so già impegnati, perciò dateve da fa’”.

Due sere dopo, i quattro dell’Ave Vianella partono da Cerreto con la ferma convinzione di accontentare il “Signore”. Arriviamo a Bellegra alle 20.30, in anticipo rispetto allo spettacolo, il cui inizio è fissato alle 21. Dopo aver girovagato un po’ per il paese, un certo languore nello stomaco di Agostino e Mario (che non avevano cenato) suggerisce loro di chiedere dove poter fare uno spuntino. Un signore in giacca e cravatta sorride compiaciuto: “Venti metri più avanti c’è una trattoria che ha aperto da poco. Si mangia benissimo. Credo che un panino ve lo facciano, o potete chiedere degli antipasti, è tutta roba casereccia”.
Entriamo, e abbandoniamo subito l’idea del panino. Alcuni degli antipasti sono in bella mostra, promettono molto bene, perciò ci sediamo e li ordiniamo, avvertendo il proprietario che dobbiamo fare in fretta, perché siamo in missione esplorativa. Gli antipasti sono serviti subito; il condimento è semplice, ma le verdure sono davvero genuine e saporite: melanzane grigliate, peperoni arrostiti, fagiolini all’agro, zucchine marinate; non richiesti, arrivano poi un formaggio d’altri tempi e un prosciutto che potrebbe competere col miglior San Daniele.

Spazzoliamo tutto in fretta, e chiediamo il conto, ma quando facciamo per alzarci, Agostino, il più ganzo del gruppo, fa cenno di stare calmi: “Sentite, non è che noi dobbiamo vede’ i Vianella pe’ forza, se conoscono, so’ bravi. Noi dobbiamo parlà col manager a fine spettacolo, punto e basta. Qui se magna troppo bene, perciò io un piatto de fettuccine fatte in casa me le farei”.
Tutti d’accordo, ordiniamo le fettuccine e l’immancabile vino cesanese locale. È rosso rubino, morbido e lievemente amarognolo, con una discreta gradazione alcoolica, e si accompagna in modo splendido con le fettuccine, che si rivelano straordinarie: si squagliano in bocca, e sono condite con un sugo di carne profumato e gustoso. Ovviamente, chiediamo di assaggiare la carne, che è davvero squisita, e che viene servita insieme a verdure “mischie” ripassate in padella. Non è finita: il proprietario ci convince che non è possibile alzarsi da tavola senza aver gustato i dolci della moglie, cotti nel forno a legna; sono ottimi, specialmente i ciambelletti al vino, che gustiamo con calma intingendoli in un cesanese amabile che inebria i sensi; per chiudere, macedonia di frutta, caffè e ammazzacaffè. I complimenti al proprietario e alla cuoca si sprecano, parliamo a lungo della sorpresa di aver mangiato come non ci capitava da tempo, e promettiamo solennemente di tornare quanto prima con l’intero Comitato, per celebrare la chiusura delle festività.

Mezzo ubriachi, usciamo dal ristorante che è quasi mezzanotte e ci dirigiamo barcollanti verso la piazza centrale di Bellegra. E qui ci aspetta la tremenda sorpresa: la piazza è vuota, lo spettacolo musicale è finito da un pezzo, e dei Vianella, e dell’intera troupe, non c’è più traccia. Io e Agostino scoppiamo a ridere, Sandro si gratta nervosamente la testa; Mario, il più responsabile del gruppo, si mette le mani sul viso, impreca due o tre volte, poi grida senza ritegno: “Madonna, che cazzata grossa! E che gli raccontiamo a Vittorio?!”.
Agostino sorride ironico: “Ma vaffanculo pure i Vianella, ma chi so’? Hanno fatto un disco sì e no, so’ pallosi... Sentite, a Vittorio ie diciamo che c’ianno chiesto troppo. Quattro milioni pe’ strimpellà du’ ore, ohhh! A me pe’ arrivà a 130.000 lire me ce vo’ un mese de lavoro, ma che so’ matti? Cerchiamo quarcun antro, mica cantano solo loro!”.

È quanto riferiamo al buon Vittorio, che tuttavia sbianca in viso, e implora di metterci subito in contatto con gli impresari di altri cantanti. Fa i nomi di Little Tony, Mino Reitano e Rita Pavone, e dice che pur di averli è disposto a rimetterci di tasca propria. Grazie ad amici comuni riusciamo a incontrare i loro impresari; ahimè, per la seconda domenica di settembre sono già sotto contratto, e Vittorio non vuol saperne di un paio di nuovi complessi pop che vanno alla grande, e che sarebbero disponibili: “I soldi pe’ la festa”, dice un po’ ingrugnito, “li mettanu i’adulti, no i ragazzi, m’ite capitu?”
Il tempo incalza, ma il nome giusto non si trova, finché uno degli impresari ci propone una soubrette, Isabella Biagini. Rimaniamo un po’ interdetti, ma lui appare sicuro: “È vero, è più un’attrice e ‘na showgirl, ma sa pure cantà, e poi è bella, e diciamolo pure, è bbona, è spettacolo pure quello, ahò! Er complesso che l’accompagna so’ ragazzi, ma so’ bravi, faremo ‘na bella serata, e risparmierete pure un bel po’ de soldi”.

Quando riferiamo la cosa a Vittorio, non ci pare molto convinto, ma infine la popolarità e l’avvenenza della soubrette, in quegli anni sulla cresta dell’onda, lo fa capitolare. Così, arriva la sera dell’esibizione della Biagini.
Noi del Comitato dei Festeggiamenti accogliamo con cordialità la nostra ospite, che in effetti è bella e prosperosa, un animale da palcoscenico, pensiamo convinti.
“È fatta”, afferma tronfio Agostino, “qui quarcuno cercherà de salì sul palco, colle curve che se ritrova questa”.
La piazza Guglielmo Marconi è gremita, la Biagini si presenta con movenze eleganti e sensuali, saluta la folla, si produce in moine e battute ammiccanti che farebbero resuscitare una mummia. Urla, applausi, fischi, entusiasmo, una baraonda che non si era mai vista nelle serate canore degli anni precedenti, a base di Jimmy Fontana, Bobby Solo e Orietta Berti.

Arriva il momento in cui la soubrette deve cantare, perché è soprattutto per questo che l’abbiamo ingaggiata. Inizia, e subito qualcosa ci suona storto. Non ci vuole molto a capirlo: dannazione, sta cantando in playback! Non è possibile, non crediamo ai nostri occhi, è un fatto mai verificatosi in una festa paesana!
La folla rumoreggia, i fischi coprono la musica, e sette-otto scalmanati si avvicinano alle scale e tentano di salire sul palco, con intenzioni non proprio ortodosse. Aveva ragione Agostino a pensare che qualcuno avrebbe cercato di salire sul palco, ma per riempire tutti di botte, noi festaroli compresi! Il manager, e noi del Comitato, capiamo subito la gravità della situazione, e mentre alcuni tengono a bada i più facinorosi, Agostino, Vittorio, Sandro e io stesso afferriamo la Biagini, la caliamo giù dal palco e ci rifugiamo insieme a lei nella barberia, locale adibito da sempre a camerino per i cantanti ospiti, perché vicinissimo al palco.

Asserragliati nel locale, ci scopriamo a vivere stati d’animo diversi, accomunati però, dalla fifa per la folla che urla e martella la porta con calci e pugni. La Biagini piange, Vittorio sacramenta e ripete che non doveva fidarsi, che la merda addosso gli è arrivata sul serio, Agostino arriva a bestemmiare la festeggiata (la Madonna), il manager ripete come un automa “Ma Isabella c’ià mal de gola, che potevamo fa’, ‘nse po’ ave’ tutto, ammazza come so’ cattivi”, Sandro gli fa vedere il pugno e sussurra “te lo farei vede’ io come se po’ esse cattivi”. Io siedo su una sedia maledicendo gli antipasti, le fettuccine, il castrato e il cesanese; tuttavia, mi sento più tranquillo degli altri, perché sono il più giovane della compagnia, e mi convinco che con me saranno tutti più clementi. La smentita arriva immediatamente: oltre la porta, la folla comincia a fare dei nomi: “Agostì, Sandro, resciate fori, ve dovemo dì due cosette. Pure tu, Armandì, che stavi tanto a fa’ il bulletto e il fanatico, vieni fori”.

Furono minuti di vero panico, che scemò solo quando udimmo la voce del Comandante della Stazione dei Carabinieri di Gerano, che ci rassicurò e ci convinse ad aprire la porta e a farlo entrare. Dopo altre discussioni, scuse e rassicurazioni, la Biagini e la sua troupe furono scortati sino alle loro macchine e si dileguarono in fretta, insalutati ospiti. Noi invece dovemmo aspettare nella barberia ancora una buona mezz’ora, durante la quale una voce che riconoscemmo subito – era il terribile Mariano ‘Ncazzusu – ci suggerì un paio di volte come avremmo potuto risolvere la situazione: “Agostì, Sandro, Armandì, mo ci ite vui sopra agliu palco, ce la ficite vui ‘na mezz’oretta de spettacolo. E po’ ve dimo i voti e ve paghimo”.

Francamente, mi venne da ridere; ma più tardi, tornando a casa (ormai era passata da un pezzo la mezzanotte), giravo continuamente la testa da tutte le parti, per vedere se qualcuno avesse ancora voglia di vendicarsi dei festaroli traditori.
Finalmente, guadagnai la porta di casa, ed entrai cercando di evitare ogni rumore. Ma mio padre era sveglio, mi aspettava nella sala da pranzo.
Strano, non sembrava troppo arrabbiato: “Che bella figura! Non era mai successo, vergognatevi!”.
“Papà, ma che ne sapevamo che avrebbe fatto così? Il manager ci ha detto che aveva il mal di gola, a noi non ci aveva avvertito che avrebbe cantato in playback”.
“Ma statti zitto, so pure quello che avete combinato a Bellegra… abbiamo mandato i buffoni, a contrattare”.
“Va be’, papà, con la cantante abbiamo sbagliato, ma il resto è andato tutto bene. Gli addobbi, la processione, i giochi, le ciambelle… “
“Meno male, sennò… Senti, fa’ un favore a tuo padre, cancellati immediatamente dalla Confraternita, è più dignitoso”.
“Papà, ma in fondo la festa è riuscita, perché dovrei cancellarmi?”
“Perché… perché… avete disonorato… avete disonorato il palco, capito?”


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