Vivo in un condominio tranquillo, in una via residenziale ai margini della nostra piccola città. La mia è una palazzina discretamente signorile costruita più di quarant’anni fa. Si è mantenuta bene nel corso del tempo, la cortina che la riveste è ora di un bell’arancione sbiadito, i balconi lunghi e stretti sono tutti adornati da piante e fiori, con tende a rullo tinte di un quieto marrone che assicurano privacy a tutti i condomini. Tre piani, sette appartamenti: sono dispari perché l’attico occupa tutto l’ultimo livello.
Il professor Ettore Macrì, primo piano interno 3, docente di matematica in pensione, amministratore del palazzo e tuttofare a tempo perso (ha trasformato la sua cantina in un vero e proprio laboratorio di falegnameria, elettricità e idraulica) dice che ormai è un condominio di vedove. In rappresentanza degli uomini infatti, sono rimasti solo lui e il signor Faranda, primo piano interno 4, suo dirimpettaio di pianerottolo. Per il resto, le famiglie che occupano gli altri appartamenti sono ormai mononucleari: nel corso degli anni, sono venuti a mancare tutti gli uomini e sono rimaste soltanto le loro mogli. Da sole, visto che i figli di ciascuna sono andati via da tempo, ognuno per la propria strada.
L’eccezione siamo mia sorella Marta ed io, che occupiamo l’appartamento che fu dei nostri genitori, al piano terra interno 1, giusto sotto il professore e sua moglie. Single ambedue – io di ritorno, lei per scelta – condividiamo uno spazio di un centinaio di metri quadrati con annesso giardino, abbastanza grande da contenere un gazebo in gesso ricoperto di edera, un pruno e due alberi di limone.
La moglie del professor Macrì passa ogni tanto a prendere i limoni, quando sono maturi. È una donna silenziosa, dalla carnagione olivastra e gli occhi cerchiati da occhiaie profonde. Ha spesso un’espressione dolente, poco incline al sorriso. Parla sommessamente, usando parole misurate. A noi sta simpatica: è una delle poche signore del palazzo che non ci tormenta di domande sulla nostra vita privata, quando ci incontra. La vedova dell’ingegner Teroldo, pianoterra interno 2, nostra dirimpettaia di pianerottolo, invece ci sfinisce.
- Due così belle donne, giovani, socievoli, educate, piene di vita e ancora da sole…
Socievoli e piene di vita, d’accordo. Che siamo anche educate, è da vedere. Da nostra madre abbiamo ereditato l’arte silenziosa di buttare occhiate da dietro le tende ogni qualvolta sentiamo scattare la serratura elettrica del portone del palazzo, oppure quando sentiamo la basculante del garage condominiale aprirsi e richiudersi. Così come, con passo felpato, ci avviciniamo allo spioncino della porta d’ingresso per osservare, non viste, chi sale e chi scende con l’ascensore. Il nostro appartamento al piano terra è in una posizione strategica: della vita del caseggiato, non ci sfugge nulla.
Ieri sera sono salita in ascensore dal garage col signor Faranda. È un uomo magro che si diverte a fare battute senza guardare negli occhi.
- Povero Macrì, si è dovuto rifugiare in cantina ieri notte, per sfuggire alle ire della moglie…-
L’ho osservato con un’espressione interrogativa.
- Donna iraconda, mare senza sponda! - ha proseguito esagerando con il tono misterioso, mentre fissava la pulsantiera attraverso le spesse lenti fumé degli occhiali.
Il viaggio in verticale è stato breve, non sono riuscita ad aggiungere nulla. Appena sono entrata in casa, ho interpellato mia sorella, che era tornata prima di me ed era alle prese con le patate arrosto, quasi pronte per la cena.
- Cos’è questa storia del professor Macrì che vive in cantina per sfuggire alla moglie?
Marta non è stata affatto turbata dalle mie parole. Ha chiuso lo sportello del forno, ha abbassato un po’ la temperatura e mi ha risposto:
- Non li hai sentiti litigare, la scorsa notte? Dovevano essere le tre, tre e mezzo. Discutevano a voce alta, li avranno sentiti tutti, i Faranda sicuramente. Lei era molto alterata, lui invece aveva un tono remissivo. Lei alla fine lo ha cacciato. Ho sentito l’ascensore fermarsi al piano di sopra e poi discendere di nuovo.
- Ne hai sentite, di cose – le ho detto. – Motivo della discussione?
- Alba – ha replicato lei, asciutta.
Alba è la vedova del dottor Marinetti, attico all’ultimo piano. Bellissima donna da giovane, è ancora una signora affascinante nonostante gli anni: ha conservato il portamento elegante, i capelli raccolti morbidamente sulla nuca, gli zigomi alti, la pelle sorprendentemente liscia. Nei primi tempi del loro matrimonio, fece impazzire di gelosia il marito, indossando minigonne dai colori pastello e magliette in tinta; arrampicata sugli zatteroni dalla suola di sughero come voleva la moda di quegli anni, usciva al piccolo trotto dal palazzo trascinandosi dietro il carrello della spesa. Le signore del quartiere malignavano ogni volta che la vedevano comparire in latteria o dal macellaio.
A cena, le nostre chiacchiere si sono concentrate tutte su questa inaspettata liaison condominiale.
- Che vuoi, – ha detto Marta – Macrì è sempre lì che traffica a tutte le ore, col giardino condominiale, le serrature che non vanno, l’autoclave. Alba è sola da diversi anni, ha quella casa spropositata e quel terrazzo pieno di piante, avrà chiamato sicuramente il professore per farsi dare una mano. È ancora una donna molto bella…-
- Alba mi piace, è sempre stata un’anticonformista. Certo, mi dispiace proprio per la moglie di Macrì: è brutto da giovani essere tradite, figuriamoci quando l’età avanza! – ho replicato, mentre ripensavo ai trascorsi del mio breve e disastroso matrimonio.
Durante la notte ho fatto sogni complicati. Come se non bastasse, quando il cielo iniziava a schiarire ed io finalmente riposavo un sonno tranquillo, un rumore insistente mi ha svegliato. Mi sono alzata di umore nero. Mentre preparavo il caffè, ho detto a mia sorella:
- Hai sentito stamattina prestissimo? C’era un sibilo modulato, un suono insistente di un orologio, una sveglia, come qualcosa di elettronico a cui si stanno scaricando le batterie, hai presente? Non saranno mica quelle del termostato? Il suono veniva da oltre il muro della mia stanza.
-Tu, le batterie scariche ce le hai in testa! – ha ribattuto senza ironia.
Stasera, quando sono rientrata, ho trovato il garage aperto. Ho parcheggiato nello spazio riservato alla mia auto e ho visto filtrare dalla porta della cantina dell’interno 3 un filo di luce. “Allora è vero” ho pensato, “il professore si è trasferito, baracca e burattini, nel suo laboratorio.” Il rumore improvviso della sega elettrica mi ha smentito, così come quello successivo del martello che picchiava sul legno: Macrì era semplicemente alle prese con qualche suo manufatto. Mentre mi stavo avviando verso l’ascensore, ho visto spuntare la sua testa rotonda ed i suoi piccoli occhiali in bilico sul naso, un po’ sbilenchi. Aveva un’espressione indecifrabile, è stato come se mi guardasse senza identificarmi, e sì che mi conosce da sempre: in questo palazzo ci abito da quando sono nata, fatta eccezione per la breve parentesi coniugale. È durata un attimo, poi ha ripreso la sua aria gioviale di sempre in tempo per dirmi:
- Ciao Flora, scusami, ho sentito un’auto, non avevo capito chi fosse… - e si è infilato di nuovo nel suo sancta sanctorum sotterraneo.
La sveglia segna le quattro del mattino passate da pochi minuti, ed io non ne posso più di questo cicalino insistente che rompe il silenzio della notte e mi perfora l’apparato auricolare. Mi alzo, faccio il giro di tutte le stanze della casa, mi avvicino a sveglie, orologi, microonde, telecomandi.
Nulla.
Il suono continua insistente, mi sembra quasi di raggiungerlo, di smascherarlo finalmente, invece sfugge di nuovo dentro l’intonaco, si nasconde nei muri, scompare sotto il pavimento.
Mi sdraio a terra e poggio l’orecchio. Il sibilo ritmato è proprio lì sotto.
“Cosa c’è qui sotto?” penso mentre cerco di rappresentarmi la pianta del garage e delle cantine. “Il laboratorio del professore”, mi viene in mente.
Sono furiosa. “Ora vado giù e gliene dico quattro! Ma ti pare, non basta il frastuono da segheria a tutte le ore del giorno, ora anche la notte!” e scendo in garage decisa a fare una piazzata nonostante l’orario: quello che è troppo, è troppo.
La porta della cantina è chiusa, dall’interno non filtra alcuna luce. Si sarà dimenticato qualcosa acceso, un avvitatore, un trapano, che ne so.
La porta dell’ascensore si apre e si richiude alle mie spalle.
- Ah, professor Macrì – dico rivolgendomi decisa alla figura che sguscia fuori – proprio lei sono venuta a cercare. C’è qualcosa che sibila, fischia, insomma fa rumore nella sua cantina. È dall’altra notte, sa? Io non ho il sonno leggero, ma è veramente fastidioso. E io lavoro, ho bisogno di riposare!
Non mi ascolta. Si dirige trascinando le pantofole verso la cantina e apre la porta con la chiave.
- Vieni Flora, – mi invita – lo spegniamo insieme.
La luce al neon è accecante. Quando riprendo confidenza con la vista, osservo che è tutto ordinatamente appeso alle pareti: cacciaviti, chiavi inglesi, strumenti di cui non conosco il nome né l’utilizzo. Al centro della stanza, c’è un bancone da lavoro perfettamente sgombro.
Ci sono assi di legno ordinatamente ammucchiati in verticale sulla parete di fondo, quasi a formare un riparo appoggiato contro il muro. Il suono è forte ora, e sembra venire da lì.
Il professore mi precede. Scosta delicatamente un’asse, una di quelle al centro della fila. Sbuca fuori una mano dalle unghie laccate di rosa, il dorso coperto da qualche macchia bruna dovuta all’età. Al polso, è allacciato un orologio digitale dal cinturino grigio chiaro. Lo conosco, appartiene alla mano che tante volte ho visto stringere la busta con i limoni colti dall’albero del nostro giardino. Sul quadrante, campeggia ad intermittenza la scritta Low Batteries.
- Non ha voluto che cambiassi le batterie, l’altra sera. “Valle a cambiare alla tua amica dell’attico!”, mi ha detto. Abbiamo discusso per ore, lei non intendeva ragione. Mi ha cacciato. Dove potevo andare? Sono sceso qui. E poi non so cosa mi sia preso, ho preso la subbia, sono risalito su e…
Sono squassata dall’orrore. Vedo la sportina a rete dei limoni, le occhiaie scure sul viso desolato, le minigonne colorate, i capelli raccolti sulla nuca. Le immagini di due donne che conosco da sempre si mescolano nei miei pensieri, mi viene da vomitare, sento che sto per svenire.
Mi sollevano da terra le mani vigorose di Marta.
- Ho sentito che aprivi la porta di casa e prendevi l’ascensore. Prima ho pensato che fossi ammattita, poi ho creduto che avessi sentito un ladro o qualcosa di simile. Ho afferrato il cellulare e ti ho seguita.
Il professore è rincantucciato in un angolo, fissa l’orologio che continua a vibrare. Mi fanno una compassione infinita i suoi occhi senza più espressione.
Fermo anche io lo sguardo sulla scritta pulsante e mi accorgo che il ronzio non lo sento più, coperto dal suono delle sirene che si stanno avvicinando.
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