FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 37
gennaio/marzo 2015

D'aria e di terra

 

D'ARIA E DI TERRA

di Viviane Ciampi




Foto di Lino Cannizzaro


            Se ti arrampichi su un vecchio cipresso / e t’inerpichi tra i suoi rami, / vedrai che la terra / non è lontana dal cielo

            Humberto Ak’abal

            Tra questa mela e la mano che la raccoglie vi è l’abisso dove questa cade e quella s’invola

            Pierre Ouellet


Tuttavia mille zampe fuoriescono dall’ingranaggio, un’elica spunta di sorpresa. La terra ha un ventre dentro il ventre, vortica il dedalo panico. Tu hai in mano un arco, una freccia, tutto l’occorrente. Che cos’è il tempo senza la traccia di ciò che ne facciamo? Non vuoi accelerare, tenti un’attesa diversa, la pazienza può essere questa belva.


Tu abbandoni la Terra per una notte molto pura. E tu l’abbandoni per una città di cui non ricordi né il nome né le nobili origini quindi ecco il tossico andare tra martirio e fastidio tra file urbane. Indossi il nuovo abito mentale. E se ci fosse anche qui bisogno di uno sguardo?


Sfida del suolo, sfida di sguardi, onde dei passanti infreddoliti nel mattino col maglione ancora sgualcito della notte. Quella ruffiana passione di vivere con il cuore che si fa rapace. Hai sulla lingua odor di cappuccino, permane il tepore delle sue cedevoli cosce come dono estremo, ti aggiudichi le strade guardando sempre in aria, conosci i cieli laboriosi il sudore che sorprende. Allora – se ben ricordi – veneravi il tempo delle semine con la grandine e la volpe sottintese ogni notte.


Non ci sarà un solo angolo del pianeta senza un nome di guerra sorrideranno con le nostre dentiere con le nostre teste mozzate alzate a stendardo, l’angelo del tedio sarà l’unico a invitarci al ballo. Lo si mormora da tempo. Un giorno verranno la maga il griot lo stregone il rabdomante l’agopuntore la vecchia del malocchio la guaritrice con le erbe. Fare pane sarà ancora la cosa più importante?


La città vista dalla torre di cemento – camion giostre scabbia e giardini operai – controlla i ricchi annaspa svende e mai riposa perché s’impregna ovunque dei respiri affannati, della fragilità dell’ostia. Lei. Maestosa. Clangore di motori. Senza carta assorbente.


La terra tenta di guarire. A chi la consegneremo? Lunghe piaghe incrostate stanno accanto alle immondizie e concentrate nubi vi ci planano come un guanto. Allora qui noi proprio tutti noi – ma noi chi? – a chiederci se nello spazio c’è silenzio o se almeno i rumori del corpo vengono a visitarci e se un po’ ci rassicurano avendoci fatto l’abitudine. Noi col dubbio in tasca a chiedere voi che di tutto avete la chiave, davvero c’è una vita che si possa dire?


L’umanità così distratta. Coltelli e zufoli in ogni tasca al posto dei fazzoletti. Non smette di scalpitare dice tutto è perduto nei dintorni. Non vede dietro gli alberi ciò che fa sorridere. I bambini collezionano portachiavi e uccelli di paglia orchi e fate e sotto le coperte prima del bacio della buona notte spezzano la pioggia. S’addormentano immettendo sillabe dentro l’istante posando la mano rosa e bianca più su – esagerando – vicinissimo alla luna.


Lui non guarda resta assorto ma invade i tuoi giochi. Ci sono fiumi parlanti balene mangiatrici di bambini terre senz’aria le bocche del vivente le foreste grondanti humus le erbe fittissime ricolme di fruscii che fanno le sue veci. Vi è il rullare della mente l’autunno più viola di un lunedì. Forse siamo entrati nel sogno di Pinocchio, chi ha detto che potremmo uscirne?


Lui che vive fuori da sé alla piegatura d’ogni nostra pulsazione – oh sì qualcosa di lui resta negli occhi – prende a nascondersi: tombini di ghisa cave d’ardesia grotte fossati gusci di chiocciola affiancati a viuzze di campagna. È ovunque ovunque nell’oscurità nel chiarore. Ecco l’enigma entra di slancio nella stanza – il silenzio presto inciso – la punta delle sue dita traversa le lenzuola.


Fa freddo vicino alla paura. La terra ha tremato ancora – crollo del tunnel alla stazione – ha lanciato pietre sui passanti ma nessun gioiello degno di quel nome. Che cosa pensava? Chi voleva colpire? Fino a ieri fino all’altro ieri scoppiettava dell’amore fulvo. Oh le pesanti palpebre che ci ospitano.


Gli amanti adesso intrappolati nudi sgusciati da vestiti di novembre – pelle sfiorata dall’ala dei gufi – lui un piede sulla coscia come un albero di mele molto complicato. Lei non distoglie il volto dal sesso eretto. Solo quell’attimo esiste perché la gioia nell’aria è rimasta.


Giorno per giorno il male feconda il bene, nelle case hanno coperto gli occhi con le mani gli atomi di polvere danzano inseguendosi e ancora si mette in dubbio l’onestà dei costruttori. L’imperfezione aumenta, nessuno si dà la colpa ma la colpa sempre puntuale incendia i muri del giorno così teatrali. Sarebbe bello potercene andare da qualche parte al sicuro. Sarebbe bello a volte piangere sapendo di essere sani di mente. Eppure si nasce con degli ideali. Con i grandi fiori degli ideali che sbiadiscono nelle mani.


Come il fiato appanna gli specchi, come i bicchieri si svuotano di bollicine, come smettono di odorare datteri e mandarini, come seccano le cascate, come i petali si sovrappongono sull’elmo dei soldati morti: pare un libro fatto di visioni! La casualità s’infila di soppiatto sotto le grondaie al comando dell’armata della mestizia, i lamenti svernano sulle travi passando dalla diga del tempo che resta.


Nell’aria invernale forse coperta elettrica per il calore. Appena squilibrato il consueto canto della sera. L’erba più alta s’incammina su sentieri calibrati. I corpi scaldano il suolo con molli movimenti grazie al loro meccanismo invisibile. Thanatos sorride dal gradino di una scala recitando dentro sé la sua formula mortale ma per oggi non la scaglierà.


Il rosso scommette sul rosso le braccia intrecciate stringono strumenti da lavoro – rastrelli vanghe – le mani vivaci – vivaci ancora quel tanto da disegnare gli anelli delle querce – i volti ormai sempre più assorti. Oggi erra l’ombra delle vacche come anime delle generazioni. Dice il contadino a fronte molto bassa – tutto ha tonalità della terra e delle pietre – sono queste le mie meraviglie sono queste le mie mogli anche se quassù qualcosa se ne va. La sua voce di zinco, eroica, non era prevista. Porta loro l’acqua e il fieno gettando la stirpe avida dei sogni i bronchi morti degli alberi le schiume gialle e litigiose della rabbia.


Quel tritacarne d’un mattino di gennaio rubato al disordine dell’aria. Tanti nelle piazze con cartelli a lutto con matite alzate dopo verrà il futuro e tutti i draghi negli occhi, l’abbaglio del possibile ancora dentro la rugiada. Chissà dove andiamo chi credere chissà dove ci siamo perduti. Scopriamo quanto presto liquidiamo la nave del sonno e l’infinitamente blu del mare. Forse la gente morirà non più d’infarto o di cancro ma perché ha perso il treno dell’ironia.


Nascita del reale. Da tempo lo inseguivi. C’è sempre quel pensiero fisso di come definirlo.


A levante s’innalza la collina. S’intravvede il bagliore d’un antico incendio. In calda notte senza una predica prima di dormire, l’allocco dell’ulivo lancia le sue premonizioni ma non sai al mattino dove si ritira.


Il tuo orologio è indietro di un’ora, cambi la cartuccia alla penna come un’iniezione di vitalità – ricordarsi per quale verso tuttavia – spalmi inchiostro sulle dita. Ti dilunghi a pulire. Un tempo l’allodola ti nutriva ora tenti di fermarla mentre s’invola dimenticando a terra le briciole della tua angoscia. La terra – un dio femmina la sta allattando – stringe nelle sue mani la lingua di Ponzio Pilato. Poi gira sui tacchi e si allontana fino a scomparire.


Ogni volta che passa una nuvola sotto il sole emette una nota diversa. Lo dice l’ingegnere del suono mostrando le finissime apparecchiature al festival della scienza e aggiunge c’è un suono diverso in ogni crepa dei muri non udibile a orecchio nudo. In certe sere stai in ascolto incolli l’orecchio alle pareti dove intravvedi una venuzza. Ma che ne sai tu del linguaggio del sole e dei muri, del loro chiacchiericcio. Scagli ogni momento i tuoi sospiri assidui.


Altra polvere sollevata sulle strade di campagna intasa gli occhi che troppo hanno fissato l’entroterra. Gli elementi del disastro sono tutti sul sentiero. Avvampano i pini alla giostra degli errori l’ultimo ago nell’aria ha i secondi contati. Quell’imbuto della memoria è il fuoco che dorme nel pagliaio.


Non vedi quanto poco tempo per difendersi dal germe dell’accadere? Al contrario una vita per capire che la terra è una nave ancora bella per noi. Il pianto a dirotto modella una statua di sale marino. Mai e poi mai vincerà la tristezza, se la vita passa stringendo pietre tra le mani non è più la vita.


Quieto è il pianeta nonostante la denutrizione. La non saggezza corre nei tubi dei furori. Si consuma da sé il diario dei giorni. Pochi eremiti vi trovano rifugio, prima che accada l’impossibile le nubi si voltano e cambiano colore.


Un fardello alla volta per favore! Chi vuole abolire lo spleen da pioggia e le distanze? Del toccarci le mani non dobbiamo privarci, ucciderci l’un l’altro un poco per volta non serve. Gli assassini sono stanchi invecchiano in famiglia guardando gli astri i tetti le chiome d’alberi su poltrone del ricordo su panchine del parco vestiti d’ombra e di niente. Imparano a dire la vita è un’opera d’arte perché lo lessero da qualche parte forse alla biblioteca del carcere forse nel nido della loro pupilla.


Ci visita l’ansia nuda e disarmante. Per legittimarla non occorre cercarne i motivi nell’interno cortile a noi estraneo – per la strada soffusi scampanellii – può arrivare di colpo una mattina o nell’ora azzurra di un sabato pomeriggio senza strappi liberatori guardando la vetrina dei polli ove tutto appare naturale.


Se alzi gli occhi al cielo vedi un muto esercito di granturco e oltre molto oltre le stanze della musica. Prepari il leggio per poi cantare a non finire. In fondo il tuo grande sogno era proprio quello. Ci hai messo anni a trovare la nota che arriva ai piani superiori.


Fiore perplesso, anima verdognola perché non ti scolli dal tuo giaciglio? Hai fame hai sete sei meno che ghiaia meno che asino meno che chiodo arrugginito. Dove hai nascosto le azzurre folgorazioni i tamburi lontani dagli sciami del dolore? Ti paragono a quel giorno invernale, al fenicottero dello stagno con le zampe impigliate nel ghiaccio che luccicante varcava la soglia.


Ti sei mal protetto da quelle voci segrete e rauche dell’alba, che sussurrano in te le loro sentenze come torri o canti inediti della tua condanna. Spazi sacri hai aperto in mezzo all’inferno, al suicidio della bellezza. Costruisci una storia lontana dalle fiamme dai riverberi dal contro Padre Nostro dalle guerre tra cani. Qualcosa. La riparazione. Un’ipotesi.


Lamiere copertoni banda larga o transenne camion frammenti dispersi calo degli zuccheri stridio del treno clacson fienili computer lingue bingo banche bistecchiere barilotti tremolio del catrame acqua a catinelle e tutto questo e ancora quello attorno nello sfaldamento di contorni e valori, tra paesi in rovina. Drizza la mente allunga il collo per capire che il mix tra rischio e rendimento è tutto sommato alquanto incoraggiante.


Terribile. Quell’entrare nel giorno in tresca notturna in vapori marini. L’indocilità. Come da manuale. La sua balaustra dove sporgersi e si respira appena e si vede quel che si decide di vedere. Si dice che il mattino ha l’oro in bocca, a malapena qualche sillaba attorno alle questioni.


La terra. Un caos: nascosta dalle tenebre in tutte le sue parti. Da un sogno autentico escono i mari. Per loro precisa inclinazione fioriscono di notte i cavalloni rotolano in avanti seminando spade sui tetti e l’erba fermenta col desiderio di crescere ancora. Gli alberi allungano le braccia hanno labbra sporgenti ma da sempre tacciono. Vulnerabili le foglie – ma saranno le foglie? – vorticano scendono lungo una rossa scala ma senza lamenti.


A volte in aria brilla un nome che in volo rotola. Quanto è vero iddio come brilla quel nome! Ma si tace. Fosse mai colpa degli occhiali.


Dalla finestra sale una voce che non è la tua – somiglia alla tua ma in tono meno acuto – è un mattino come gli altri – ma forse non del tutto? – il sole acceca più di sempre sopra il faro, stanco di chi non soffre. Si allineano le barche venute a morire lentamente sulla spiaggia, è scosso dalle risate un alberello di cui non ricordi il nome. Le ombre arrivano a una svolta. Il vestito del giorno. Addosso. Cucito.


Il peso delle nuvole a grandi linee nessuno può giudicarlo. Quei corpi mostruosi offerti allo sguardo si tramutano in statue di carne, si sciolgono, ritornano. Ogni tanto stillano sudore. Hanno gli occhi minacciosi di Damocle. La loro ballata sopra la terra è un trucco per distrarci.


E come quando oggi ventidue luglio scatti la fotografia ai due innamorati allungati sul muretto coi gomiti rialzati. Stessa saliva sulle labbra – desiderio che non inganna palpabile con mano – quando ombra e luce si mischiano e il mare lambisce ogni forma d’amore e nel parco i pavoni fanno la ruota. Forse.


Andiamo avanti benché non ancora pronti per la diagnosi. Ogni giorno lo diciamo e di nuovo in treno e il fischio fa battere il cuore più forte. Deraglia la chiacchiera. Il tunnel sboccia da dentro, difficile lasciare la mano sporgere fuori.


Mezzaluna sulle guance. Tra le rupi nidificano buoni e cattivi pensieri. È forse peccato credere ancora che il desiderio di respirare corrisponda al piegarsi silenzioso delle ginocchia a qualcosa che si dilata mentre il dubbio cade e si sfalda.


Vi è un aperto dolore nell’uccello cinguettante. Traversa le nuvole e conclude il cielo. La voce imprigionata nella mente si trasforma in canto. O forse un mantra? Una scheggia di follia penetra la radura. Era chiusa dentro una scatola prima? Ora ancora una volta quelle lame d’acqua dissolte nella bruma, alberi dal profetico stormire. Perfetti. Danno prova di sopravvivenza. I giunchi non si piegano neppure al grande vento, le piccole divinità dei boschi incutono timore. Qual è l’occhio che manovra? Qualcuno risponda! Un vulcano erutta la coda della bellezza.


Siamo nel paese dei presepi a cielo aperto con lo scampanellio del fine festa. Qui l’infermiere col carrello dei cateteri e delle iniezioni lascia cadere a terra l’ago della terapia, qui l’anestesista là il chirurgo – lunghe mani affilate – vicino alla mangiatoia sguardo burbero impenetrabile.


Qualcuno dice la cosa migliore è non prendere decisioni stare in bilico sul dirupo non uscire dalla cornice lasciare che alla nostra vista qualcuno si distragga. Un altro risponde ecco i granuli di materia vulcanica – quanti cesti per raccoglierli? Oh meglio non contare – impazzire per il lampo, accendere la luce d’una boa delle percezioni e dei pensieri raccogliere la scaglia d’oro caduta dal vestito polveroso, della polvere fare frumento col frumento fare la semola portarla a chi sappiamo. Incamminarsi infine per le trame rigogliose del futuro.


Perché questo mestiere di vivere all’impazzata ma non troppo a lungo? Eri rondine di mestiere, rondine un po’ maldestra. In quell’universo perfetto inseguivi moscerini fuori portata senza troppi risultati ma il grido volava più in alto ancora.


La terra – in eterna pubertà – ha questi sussulti. I corpi dei suoi figli stanno in abiti ristretti fissati dall’occhio dell’ignoto e loro accettano e non chiedono niente. Fu mai detto che qualcuno volesse soffocare le sue radici senza morire soffocato egli stesso?


Immaginarsi non sottoposti alle influenze del previsto ma d’un tratto nati altrove in altra cultura in altra lingua dovesse anche costare un vago sgomento. Ciò comporta non riconoscersi nella propria fibra ed ecco un ordine disordine visioni disparate nuovi panni da vestire orecchi d’olifante per ascoltare. Ma il migliore della nuova concezione è il gioire per sentirsi estranei con pensieri estranei non levigati dall’educazione non formulati secondo abitudine. Magari è troppo grande questo dono? Un giorno, uno soltanto rinascere con la scommessa dell’alterità come moneta di scambio e che quel giorno ci venga regalato – la memoria lo ricordi – per non restare qui seduti nella vecchia mente provinciale definitiva con la piramide dei libri letti ma non digeriti mai piantati fino in fondo nella carne viva.


L’orizzonte è un frammento di poesia in eccedenza.                             

La terra gettata negli occhi di chi interroga la terra di chi d’un dolore lancinante cerca la ragione. Chi chiede all’aria d’interrogare le galassie?


Potrebbe qui ora cadere la neve nel momento stesso in cui scrivi la parola neve. Potrebbero le tue dita farsi spazio nel bianco diresti mio dio sono io quel bianco.


Compie quel gesto il boia col suo tremendo riso di lampone lanciato in aria ai quattro venti. Ottimo artigiano vuol essere all’altezza. Pesa il tutto sul bilancino come un orefice. Gentile preciso e malvagio. Con quel timbro trasparente della voce è il re dei corridoi. Generato da una maledizione in un inverno di gelo.


Delle cose che hai vicino, dell’istante che slitta smarrisci i contorni. Pensi di volare per qualche istante. Un cielo tutto chiodi e tenaglie ti fa ricadere dentro il grembo d’un giorno letale. Domani riproverai questo voler stare tra aria e terra.


Il libro lo stesso scritto da sempre con l’anima – mille vite concesse – che gorgheggia nel primo capitolo poi fragile consumata come un sogno di prigionieri. Tuttavia una colomba un’erba voglio in transito sulla piazza la gioia di domani. Il sapere che tutto ricomincia. Allora accarezzi il passaggio del tempo. Pensi alla dolcezza come a un fatto naturale. Pensi alla dolcezza che non ha fine. Al fatto che da stella, stella tornerai.


L’aria cova dentro le vertigini, ci allieta pensarlo. Abbiamo aperto gli occhi su quell’incidente. Si tuffa dentro i suoi secondi oggi ha il profumo che precede la pace, s’allontana l’opacità senza una spiegazione. Chi aveva digiunato della bellezza interrompendo la danza delle luci? Gli dei sempre spaventati dal pensiero che collassino le stelle s’infilano entro porte aperte e da qualche parte imprecano guardano il pavimento con le tuniche che sfiorano la terra dove ci inginocchiamo ebbri di sole e di libertà.



La silloge è inedita.




viviane.c@alice.it