FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 35
luglio/settembre 2014

Soste & Percorsi

 

IL FICO DI GIACOMO

di Patrizia Passarelli



La prima volta che Giacomo e Marta s’incontrarono, per Marta era già “un’altra” prima volta: la prima volta che andava a correre. O meglio correre lo aveva fatto tante volte da ragazzina quando il padre la portava con l’autobus allo stadio delle Tre Fontane. Crescendo però aveva preferito l’acqua e da tanto tempo passava un’ora o poco più delle mattine libere che le capitavano a “fare vasche”.

In quell’inizio di anno, il collega che organizzava i turni in ospedale - Marta era infermiera - le aveva assegnato per quel periodo, una mattina in cui finiva presto di lavorare e un’altra in cui iniziava tardi e, scherzando, le disse “L’ho fatto apposta per tenerti allenata, così il martedì vai a nuotare e il giovedì a correre. Mi raccomando voglio vedere i risultati!”

Lei rise e poi si disse perché no?

Nuotare le conciliava il pensiero, i rumori sparivano e, nella sua testa, faceva dei gran discorsi con tutti, sistemava le faccende irrisolte recitando, come fosse a delle prove di teatro, parte e controparte. I pensieri e le parole, si adattavano all’acqua, scorrevano via fluidi, si scioglievano e si ricomponevano.

Quasi sempre in piscina c’erano altre persone che si allenavano e allora si divertiva a nuotare a rana solo per andare con la testa dentro e fuori, dentro e fuori e sentire i rumori, le musiche e le voci spezzarsi per poi provare a ricomporle a piacimento come in un puzzle: il fischio di una partenza prendeva il ritmo della musica dell’acqua-gym o le parole tronche dell’insegnante diventavano il testo di una canzone, magari rap, che accompagnava quel ritmo.

Altre volte invece mentre “faceva vasche” scriveva cose che – al momento - le sembravano bellissime. Poi si rendeva conto di quanto quegli “scritti” - che tali erano solo nella sua testa - somigliassero a dei sogni: appena smetteva di nuotare quello che poco prima le era sembrato perfetto e completo, ora lo ritrovava solo in immagini intermittenti, sfocate, come se la mente fuori dall’acqua vedesse le cose attraverso i suoi occhi astigmatici e riuscisse con difficoltà a ridefinirne il perimetro.

In quel ritorno alla corsa dopo tanti anni di abitudine all’acqua, fu subito colpita da quello che incontrava sulla strada. In piscina, nella corsia non c’era altro che lei, l’acqua, i suoi pensieri e qualche volta una persona con cui dividere lo spazio che così da sufficiente diventava un po’ stretto. Poco a poco imparò a capire com’era diverso nuotare da correre. L’acqua avvolgeva e isolava, il peso, il freddo, i suoni quasi svanivano. L’aria avvolgeva e coinvolgeva. D’inverno sferzava col freddo mentre nei giorni di sole, uscendo dall’ombra di un viale alberato, la luce accecava e si sentiva la differenza della temperatura sulla pelle sudata. Nell’acqua non sudava. Forse per quello le piaceva nuotare: per allentare la forza di gravità che la teneva sempre saldamente legata a terra.

Eppure la corsa assumeva per lei un significato che si distingueva dal solo esercizio fisico: coll’avvicinarsi della stagione più calda cioè quando la maggior parte delle persone cerca il refrigerio dell’acqua, lei sentiva arrivare nel corpo la stanchezza per il nuoto; le veniva a noia il bozzolo protettivo della piscina e preferiva “tuffarsi” in una dimensione di spazio più aperto. Nell’acqua è vero, la sua mente vagava libera ma il fisico seguiva più strettamente la disciplina.

Al contrario, nella corsa la mente era più concentrata a misurare la distanza, lo sforzo, il tempo, a misurarsi. Si sentiva in dovere – come quando camminava nei sentieri di montagna – di salutare quelli che incontrava o riservava solo un cenno con la testa, per risparmiare fiato, a quelli che come lei correvano.

Il corpo invece restava più contagiato dall’intorno: era irrinunciabile fermarsi ogni tanto, quando scorgeva qualche pianta odorosa, per metterne in tasca poche foglie o per guardare più da vicino un fiore selvatico che richiamava la sua curiosità.

In quel primo giorno di corsa, soleggiato ma fresco, Marta ebbe un ricordo, la sintesi perfetta tra la corsa e il nuoto.

Qualche estate prima, in preda a un desiderio di cambiamento che rasentava la fuga, aveva deciso di fare un viaggio dall’altra parte del “suo” mondo e scelse la California. Arrivò nella città di San Diego con indosso una sensazione di sperdimento che la dimensione enorme di ogni cosa rendeva anche più acuta. Uscì a fare una passeggiata verso il mare e sentì che l’emozione e la curiosità crescevano quanto più si avvicinava all’oceano. La vista del lungomare pieno di gente non le trasmise una sensazione di affollamento anzi pattini, biciclette, passeggini, skate-board, le sembrarono attività praticate senza alcuno sforzo né fatica. Ebbe l’immagine della leggerezza che da sola bastò a dare un senso compiuto al suo viaggio-fuga. Sorrise e pensò “Ecco realizzata la mia personalissima legge della gravitazione universale: aumentato lo spazio di separazione dalla mia tristezza ho diminuito la forza che questa esercitava su di me”. Fu una gran conquista.

Poi arrivò la spiaggia, lunghissima e il mare di cui non trovava la fine in qualunque direzione volgesse lo sguardo. Continuò a camminare talmente assorta da non vedere un ragazzo che di lato veniva correndo: aveva al collo una corona di fiori, l’apostrofò con un “Hi, darling!” e proseguì. Lo stupore della sorpresa e il desiderio di farsi portare via da lui, che invece nel frattempo era quasi scomparso, la travolsero quasi quanto uno scontro fisico. E allora prese anche lei a correre su quella spiaggia lunghissima e corse fino a incontrare il mare e lì nuotò e nuotò tra i surf e le alghe finché tutti i suoi pesi andarono giù e si posarono sul fondo di quell’oceano.

Quella volta invece, nella sua prima volta in cui ritornava a correre, fu lei a essere fermata. Aveva rallentato e stava camminando perché il passo e il fiato non bastavano ancora a sopportare corse lunghe; già vedeva avvicinarsi il punto stabilito per invertire il cammino e tornare indietro quando sentì una voce che inequivocabilmente si rivolgeva a lei ma che per qualche istante restò solo una voce. Veniva da un albero di fico che costeggiava il bordo erboso del marciapiede e di fronte al quale, appoggiata a un palo della luce, stava una bicicletta.



“Signora! Vede com’è cresciuto strano! Questa parte ha solo foglie” - disse un signore che di colpo sbucò facendosi largo tra i rami flessuosi mentre indicava con la mano verso destra - “e solo di qua (e indicò a sinistra) crescono i fichi.”

Marta smise di camminare perché proprio non aveva percepito la presenza di qualcuno e non afferrò subito quello che stava succedendo.

“Io – continuò l’uomo con gli occhi che brillavano e la voce infervorata, a sottolineare la stranezza dell’albero cresciuto in quel modo – ho piantato qui un getto di una pianta che ho nell’orto. Vede quel terreno laggiù: è il mio orto.”

Continuava a parlare ma il senso di quello che veramente volesse dire, rimaneva ancora misterioso. Il tizio uscì definitivamente dal groviglio di rami, foglie e frutti e si scrollò di dosso qualche pezzetto di quelle foglie di fico un po’ raspose e appiccicose che gli era rimasto sulla camicia e sui pantaloni. Dritto impalato puntò le mani sui fianchi e continuò il suo racconto.

“Mia moglie va a lavorare con l’autobus. Una volta, in un inverno più freddo del solito, si prende un brutto raffreddore cosa che capita a tanti. La mattina (ma che c’entra la moglie ora? E che vuole da me questo qui?) si alza, prepara la colazione e mi chiede se posso accompagnarla con la macchina al lavoro perché non si sentiva tanto bene.”

Marta era interdetta: che modo di rivolgersi sfacciato e insolente; non arrivava a capire se una qualche ragione profonda motivasse il comportamento di quel tipo o se solo uno sfogo di ciò che lo agitava, gli faceva dare fiato alle parole e continuava a chiedersi perché mai avesse scelto lei come interlocutrice. Quel risentimento nella voce poi: neanche fosse colpa sua se l’albero era cresciuto storto! L’esuberanza nel porsi e quel fare invadente, non l’avevano certo ben disposta benché per il suo lavoro, fosse abituata alle bizzarrie dei pazienti. A un contegno così stravagante si univa l’aspetto di uomo d’altri tempi: una magrezza asciutta, persino ossuta nelle mani nodose, che lasciava intuire la forza e la tenacia della sua muscolatura; un viso antico appena scavato su cui risaltavano due occhi chiari, labbra sottili in nessun modo atteggiate a un sorriso che avrebbe potuto stemperare la sua diffidenza e sarebbe certo stato opportuno in quella situazione non fosse altro che per semplice cortesia.

Quando parlava separava i pensieri con una breve pausa come per mettere a fuoco qualcosa nella memoria; scandiva le parole per dargli un peso, con un’inconfondibile cadenza siciliana che aveva però perso la familiarità col dialetto. I suoi occhi oltre a essere chiari erano vivaci, intelligenti: aveva uno sguardo da gatto, ora fisso ora sfuggente che usava però in modo distratto per mascherare o mescolare il disagio e l’intraprendenza di quel gesto che nascondeva un disegno niente affatto leggibile.

Per tutto questo Marta provava insieme curiosità e circospezione: uno così non doveva essere del tutto strampalato, o forse chissà. Da una parte poi era seccata con il tizio che le impediva, chiacchierando, di trovare la sua cadenza, di calcolare, proprio nel primo giorno di corsa, i giusti tempi di alternanza tra passo e corsa, di trovare il ritmo del respiro. Dall’altra ce l’aveva con sé stessa perché non era capace di dire una cosa qualsiasi, salutarlo e rimettersi in moto ma si sentiva catturata, impossibilitata a salutarlo e andare via. Pensò che la famosa forza di gravità che la legava alla terra esercitasse in quel punto una concentrazione misteriosa.

L’uomo tirò fuori un fazzoletto ben piegato dalla tasca dei pantaloni, se lo passò sulla fronte appena sudata e riprese: “E che, potevo non accompagnarla? Saliamo in macchina, mi allaccio la cintura di sicurezza e mentre lei si volta per prendere il gancio della sua, una smorfia di dolore le attraversa il viso. Che succede?” le chiedo “E lei mi dice che voltandosi ha sentito una fitta sotto il braccio ma che ora è passata. La sera io ero già a letto e mentre lei si sta spogliando, mi chiede se posso aiutarla a slacciare il reggiseno perché di nuovo, mandando le braccia indietro, sente dolore. L’aiuto, si spoglia, e inizia a toccarsi lì sotto il braccio da dove il dolore arriva. Si ferma e mi dice “Per favore, senti anche tu qui: c’è una pallina.” “E si, c’era proprio, non troppo grossa ma c’era. Con la preoccupazione negli occhi cerco di rassicurarla e ci mettiamo a letto; dal giorno successivo iniziamo a fare tutti i giri di dottori, analisi, ipotesi, medicinali, finché arrivano a dirci che deve operarsi”.

Faceva gesti con le mani che mimavano le parole ma senza riempirne l’aria in modo scomposto; anche nei movimenti era asciutto benché lasciassero trapelare una certa emozione e un lieve nervosismo; l’espressione del viso si fece un po’ mesta, raccontava in maniera sintetica, senza dilungarsi nei particolari, come chi già troppo spesso aveva parlato di quei fatti. Marta intuì che quella era solo un’“introduzione” per arrivare a qualcos’altro ma che gli serviva a esorcizzare uno spavento ancora vivo, a allontanare da sé quella paura.

“Dopo l’operazione venne la biopsia e finalmente ci dicono che non era un nodulo maligno e che potevamo stare tranquilli” disse e si voltò a guardare l’albero per cercare conforto e conferme tra quelle foglie e in quei frutti.

“In quei giorni sa, mi informai con il computer perché volevo sapere cosa sono quelle cose lì, perché vengono, cosa può essere d’aiuto o cosa può far male. Così ho scoperto che soprattutto a voi donne fa bene la vitamina A. Possiede molte qualità e funziona anche da anti infiammatorio; i fichi ne contengono molta e perciò mi sono deciso a piantare quest’albero. Vede, io non sono una persona tanto istruita ma mi pareva che qualche cosa potevo comunque fare. Da allora porto sempre dei fichi a mia moglie e a mia figlia” disse compiaciuto “E a lei piacciono?”

Così c’era arrivato, il suo disegno era svelato.

D’un tratto Marta iniziò a guardare quell’uomo sotto una luce diversa, le sembrò determinato, sicuro che ciò che stava dicendo e facendo era giusto e sensato, esattamente quello che si era prefissato persino a costo di apparire bizzarro.

“Ma lei come si chiama?” Marta chiese.

“Giacomo” rispose – esitando appena per la sorpresa di essere lui ora a richiamare interesse – “E lei?”

“Marta. Giacomo, sa che i fichi sono i miei frutti preferiti insieme alle albicocche. Lei è siciliano, vero?”

“Si, ma oramai vivo a Roma da più di quarant’anni. Al paese lavoravo da falegname. Poi mia sorella è venuta a Roma e si è fidanzata. Un giorno mia madre mi dice che mia sorella ha bisogno del suo corredo e che io glielo devo portare. Così prendo il treno, le porto il corredo e mi fermo qualche giorno con lei”.

Marta lo ascoltava con l’impressione di essere trasportata indietro nel tempo: parlava di cose lontane ma usava il tempo presente, cosicché tutto pareva accaduto poco prima creando in lei una certa immedesimazione.

“Dopo un paio di settimane mio cognato, che ancora non era diventato mio cognato, mi dice che dove lavora lui – alle poste – hanno indetto un concorso per portalettere e mi chiede se voglio partecipare anch’io. Io non tanto volevo perché fare il falegname mi piaceva, però vivere a Roma voleva dire scoprire ogni giorno qualcosa di nuovo. Parlo con mia madre di questa cosa e mi consiglia di provare. Tanto a tornare indietro si fa sempre in tempo – dice. E così ho provato e indietro non sono tornato più.”

La moglie, la madre, la sorella, la figlia erano state appena un accenno nel suo racconto ma tanto era bastato a far sentire il legame forte con un universo femminile da cui i suoi sentimenti dipendevano, che aveva temuto di vedersi frantumare o di perdere e che dunque andava protetto. Quando narrava di sé al passato, lo sguardo si faceva meno concentrato, più imbarazzato e gli capitava di distoglierlo da Marta come se, allontanando il discorso dal suo obiettivo principale, prevalesse l’esigenza di farsi perdonare per quella stravagante invasione di campo.

Invece a lei piaceva starlo a sentire perché Giacomo aveva l’abilità di dare ai fatti l’immediatezza e la freschezza del presente, aveva un modo di raccontare il tempo che sfumava i toni del passato ma gli restituiva intensità.

Quando diceva “portalettere”, traspariva la grazia del ragazzo che con attenzione e garbo svolge il suo lavoro senza nulla rimandare dell’anonimato del postino.

Si capiva che le lettere quel ragazzo le consegnava a piedi o in bicicletta; e ancora oggi che accompagnava moglie, figlia o nipoti qua e là in macchina, andava in bicicletta perché farlo, per necessità o consuetudine, conservava per lui la stessa importanza.

Quando la moglie era incappata in quella malattia che non conosceva, aveva letto, si era modernamente informato al computer e aveva deciso a modo suo di andare oltre lo spavento, di superare quella sua esperienza pensando a altre donne perché, quanto gli era accaduto anni prima, potesse diventare una risposta di speranza e acquisire un senso di condivisione. Per questo, non si era accontentato di tenere per sé quanto “aveva scoperto” e, con dedizione, aveva piantato un getto di quell’albero in un luogo aperto a tutti. Aveva temuto la morte e quell’albero era il ritorno alla vita che lo spingeva, impaziente, verso il “suo” discorso.

“E allora se i fichi le piacciono possiamo raccoglierli insieme. Sa, voi donne dovete ricordare di prendervi cura di voi. Avete sempre tante di quelle cose da pensare che a volte lo dimenticate e invece può bastare poco. Venga, questi più bassi non sembrano pronti: sono dolci ma ancora un po’ duri. Né vuole assaggiare uno?” e porse un fico a Marta che iniziò a sbucciarlo mentre le mani si appiccicavano di quel latticello bianco che fuoriusciva dal picciolo. Lo assaggiò: la polpa era morbida, non troppo succosa, aveva un bel colore rosa screziato, un profumo intenso e un sapore dolce ma che doveva definirsi meglio. I due si guardarono e si sorrisero con un po’ di complicità.

“Non male” annuì Marta. Il suo consenso lo incoraggiò: “Se mi aiuta e tiene questo ramo provo a salire più su e a cogliere quei frutti in alto che sembrano più maturi.”

Marta finalmente lo vede: quel fico è un albero grande, bello e non ha importanza quando sia stato piantato perché adesso sa che è il simbolo di un dolore tramutato, di un gesto che conserva in sé la consapevolezza di scelte antiche, del rispetto della vita e dei suoi accadimenti.

Guarda Giacomo addentrarsi nell’albero, e ora che la diffidenza si è sciolta, vede con più chiarezza dentro di sé quello che era rimasto in ombra nascosto dalla cautela, ciò che l’attraeva: riconosce in lui la generosità che fu di suo padre, la stessa caparbia con cui in montagna la spronava a camminare ancora un po’, “un altro pezzetto” diceva “che poi lassù raccogliamo i mirtilli” e lei sentiva il fiato corto e le gambe dure ma continuava. A fine giornata quando tornava a casa con le labbra e la lingua viola, le gambe rosse per le punture d’ortica, sentiva i polmoni così ingrossati per tutta l’aria che avevano respirato da volerle uscire dal petto. Spesso si addormentava felice ma a volte era talmente stanca da imbronciarsi col padre per tutta la fatica cui l’aveva costretta e che oggi invece era per lei un ricordo prezioso.

Giacomo, taciturno e segaligno come il padre, le porge i fichi raccolti con la soddisfazione dipinta sul volto. Marta, con una simpatia appena nata, lo osserva, inconsueto e un po’ speciale come il suo primo “giovedì di corsa”.


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