FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 33
gennaio/marzo 2014

Perdóno?

 

IO HO UCCISO MIO FIGLIO

di Armando Santarelli



Mi sono chiesto più volte quale sia il peggior dramma che possa capitare a un essere umano. Interrogativo che può sembrare assurdo, inutile, persino retorico, tante sono le tragedie che lacerano ogni giorno il cuore del mondo. Eppure, io sento di avere la risposta a una domanda così complessa. Comincerò dicendo che la morte di un figlio è, a mio parere, l’evento più doloroso che un uomo possa sperimentare. Ma se questo è vero, come considerare la morte di un figlio provocata da un genitore per negligenza? Sì, per una distrazione, uno di quegli episodi quotidiani che si risolvono per molti di noi con la perdita delle chiavi di casa, il rubinetto dell’acqua lasciato aperto, il caffè che si versa sul gas. Ma in un caso su milioni di altri, succede che la distrazione riguarda un bambino, il bambino che un genitore dimentica nell’abitacolo della macchina; il più delle volte, una negligenza fatale, e di conseguenza – e ho risposto alla mia domanda – la più orribile tragedia che possa investire un essere umano.

Se pensate che un fatto così assurdo debba necessariamente riguardare persone disturbate, strane, folli, o toccare solo chi ha la testa piena di incombenze sin da quando suona la sveglia – ebbene, state sbagliando; la disattenzione umanamente più drammatica riguarda tutti i caratteri e tutte le categorie professionali, i distratti cronici come i tipi più precisi e scrupolosi, gli uomini di cultura come i semianalfabeti, i dirigenti come gli impiegati, i manager super efficienti come gli operai. Ma la conseguenza è uguale per tutti: essere schiacciati per il resto della propria esistenza dal più insopportabile dei rimorsi: quello di chi ha ucciso il proprio figlio.
Ma come può accadere una cosa così mostruosa? Come si fa a dimenticare il proprio figlio nella macchina per un’intera giornata, condannandolo alla morte per asfissia, o per l’ipertermia che fa salire la temperatura corporea sino a 43 gradi centigradi?

Le spiegazioni, purtroppo, sono drammaticamente semplici. “Il cervello umano”, spiega David Diamond, Professore di Biologia Molecolare, “è una macchina meravigliosa, ma la memoria è uno strumento imperfetto, che non sempre riesce ad assegnare le dovute priorità. Se ti capita di dimenticare il tuo telefonino, ti può capitare di dimenticare tuo figlio”.
Una notte insonne, una giornata lavorativa che si annuncia difficile, un ritardo in ufficio che vogliamo assolutamente evitare, e accade quello che “non può” accadere. È evidente come la memoria e l’attenzione non possano funzionare nel dovuto modo quando devono concentrarsi sui mille problemi che agitano ogni giorno le nostre vite. Nella modalità esistenziale che impone l’universo in cui siamo immersi – quello della tecnica – abbiamo smarrito molti doni preziosi: la tranquillità, la serenità, gli spazi per il riposo fisico e mentale. Insieme – osserva in modo splendido la mia amica e studiosa Diana Milos – abbiamo smarrito un’altra memoria, quella delle cose dell’anima, del pensiero rivolto al bene interiore, della riflessione sulle cose ultime.

È una critica, la mia, diretta alla società tecno-consumistica, non ai genitori che rimangono vittime di una tale alterazione del normale equilibrio psichico. Forse possiamo immaginare gli interrogativi che lacereranno per tutta la vita la loro coscienza, interrogativi che si piantano come chiodi nello stesso, fatale punto nevralgico, ovvero quel lasso di tempo in cui una persona si è trovata a svolgere un compito elementare, che però ha ignorato: quale urgenza, quale impegno ha potuto distruggere il pensiero che avevo mio figlio nella macchina? Perché non ho gettato neppure uno sguardo nel sedile posteriore? Come ho fatto a non realizzare che all’asilo non lo avevo portato, che le mie mani non lo avevano affidato ad altre mani?

Ma il dramma del genitore colpevole di una tale disattenzione può spingersi oltre. Robert Reid, uomo d’affari di Chattanooga, Tennessee, ricevette in qualche modo i disperati segnali del suo Timothy, che si agitava nella macchina. Per ben tre volte il manager udì l’allarme sonoro che rivela un movimento dell’automobile, e tutte e tre le volte si affacciò alla finestra dell’ufficio; pensando che si trattasse di un tentativo di furto, ma non vedendo mai nessuno aggirarsi intorno alla vettura, si decise infine a disattivare l’allarme, decretando così la morte del suo piccolo.
Nel giugno 2013, il piacentino Andrea Albanese, brillante manager della Copra, azienda leader nel settore della ristorazione, dimentica nella sua automobile il figlio Luca, di due anni. “Quando si è reso conto di quello che aveva fatto”, ha dichiarato il Capitano dei Carabinieri di Piacenza, “ci siamo messi in sette a tenerlo fermo”.
E come deve essersi sentito il genitore della piccola abbandonata nell’auto che, prima di morire, si strappò tutti i capelli?

Il giudizio penale conseguente alla distrazione che ha causato la morte di un figlio non conta nulla per queste persone, che spesso si augurano di venir condannate, di scontare una pena esemplare, che seguono il processo che li riguarda inebetiti, assenti, persi in una colpa infinitamente più grande di quella che può essere decisa da un Tribunale. E in effetti, nella metà circa dei casi, i giudici si convincono che una tale negligenza sia attribuibile a un blackout involontario e perciò non punibile; oppure, si convincono che la colpa, pur esistente, abbia comportato conseguenze così tragiche e penose da non meritare una punizione che, stricto iure, dovrebbe essere comminata.

Miles Harrison, uomo d’affari di Purcellville, Virginia, aveva fatto tre viaggi a Mosca per avere il bambino che lui e sua moglie Carol non riuscivano a concepire. Alla fine, ebbero la gioia di accogliere in casa un meraviglioso bambino di 18 mesi, Dmitry Yakovlev, adottato dagli Harrison col nome di Chase. Miles era innamorato del figlio adottivo, e nonostante gli impegni professionali passava ore intere a giocare con lui. Ma in una maledetta mattina del luglio 2008, la fretta per raggiungere il posto di lavoro e le continue chiamate al cellulare (ben tredici durante il tragitto) provocarono nella sua testa il corto circuito che costò a Chase la vita, dopo nove ore trascorse nella macchina infuocata dal torrido sole estivo della Virginia. Il Giudice della Contea di Fairfax, concludendo il processo per omicidio colposo, si decise per la non colpevolezza dell’imputato. Ma Miles, alla lettura del verdetto, si disperò, barcollò, crollò sulle ginocchia; era, ed è rimasto nella sua coscienza, un colpevole, come dimostra la dichiarazione resa più tardi nel corso di una straziante intervista: “Ho fatto tanto male a mia moglie, eppure mi ha perdonato, e questo mi fa stare ancora peggio. Perché io non riesco a perdonarmi”.

Già. È possibile perdonarsi una simile negligenza? È qui l’altro dato tragico, secondo solo all’evento stesso, la morte di un bambino in un modo così assurdo; perché nessuno dei genitori responsabili di un evento del genere riesce mai a perdonarsi. C’è chi, dopo aver fatto la macabra scoperta, ha cercato di strappare ai poliziotti la pistola, per farla finita immediatamente; chi ha dovuto essere sedato e piantonato per giorni, per evitare un suicidio annunciato e più che probabile; chi si è semplicemente lasciato andare e vive come una larva, come un vegetale umano.
Ma c’è anche chi trova il coraggio di sfidare un destino così terribile. Il nome di Lyn Balfour, impiegata di Charlottesville, è noto in tutta l’America perché questa mamma non vuole dimenticare. Il 30 marzo 2007, Lyn lasciò nella macchina il figlio Bryce, di soli nove mesi, provocandone la morte per asfissia. “Vorrei sparire” – ha dichiarato nel corso di una drammatica intervista – “in un posto dove nessuno sappia chi sono e che cosa ho fatto, ma non posso. Io sono la donna che ha ucciso suo figlio, e devo continuare ad esserlo. L’ho promesso a Bryce”.

La storia di questi genitori è una storia di uomini il cui cuore non ha più futuro, perché involontariamente se lo sono strappati dal petto insieme a quello della creatura di cui hanno causato la morte. Non si può non provare per essi un’immensa pietà, e perdonare la negligenza di cui si sono resi responsabili. Credo sia giusto assisterli con una vera e propria compagnia della comprensione e della solidarietà, cercando di difendere le loro vite dalla disperazione assoluta, che forse, in questi casi, è peggio della morte stessa.
Non tutti, però, la pensano così. “Nessun errore umano mette altrettanto in crisi le opinioni della nostra società sulla colpa e sul perdono”, ha scritto Gene Weingarten, giornalista del Washington Post, nell’articolo sui piccoli abbandonati in auto che gli è valso il Premio Pulitzer 2013. In effetti, accanto a coloro che riescono a perdonare, ci sono quelli che – dinanzi all’enormità dell’errore che questi genitori hanno commesso – pensano che non si possa perdonare, che essi debbano scontare in modo esemplare la loro orribile colpa, essere messi nella stessa situazione dei loro figli, ovvero lasciati morire nello stesso modo in cui sono morti i loro bambini.

Ma questo modo di pensare è più orribile di una colpa che grava in modo insostenibile su chi ha sbagliato. Il dolore di questi genitori non tacerà più, perché non tacerà più la vocina che avevano udito tante volte con la gioia nel cuore, e che solo in quei maledetti minuti è rimasta in silenzio, come se già i suoni della vita non le appartenessero più. Un dolore che prende il posto dell’amore, non nel senso che lo scacci, ma che lo soverchierà per giorni, settimane, mesi, anni, perché l’amore che rimane nell’animo degli sfortunati genitori non potrà mai più concretizzarsi nei gesti che lo rendono vivo e palpitante, perché non sarà mai più possibile abbracciare, baciare, guardare negli occhi, veder crescere la creatura amata.

Forse, insieme al rimorso e all’amore, ciò che resta in questi casi è la fedeltà verso il bambino che non c’è più, la disperata e umana percezione di averlo ancora vicino, il modo con cui i genitori accarezzano il suo pelouche preferito, il lettino ormai vuoto, l’ultimo pigiama indossato. L’alternativa è il nulla: o la fedeltà al sincero amore che si è avuto e si continua ad avere per la creatura amata, oppure – nell’impossibilità di rimuovere il ricordo e il senso di colpa – la disgregazione di ogni cosa, il desiderio di abbandonarsi all’unico evento capace di risolvere ogni cosa, la morte. Perché forse solo la morte ha il potere di convincere questi genitori che rivedranno il bambino amato, o che smetteranno per sempre di essere devastati dal dolore più profondo che il destino abbia riservato a un essere umano.


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