*
parola che rasenti l’Assoluto impalpabile riverbero, eleusina sentinella del dicibile, del detto, eco, pars pro toto, liminale deità, Caronte o Hermes che presidi la soglia che separa il vuoto mistico dalla forma e rendi umano ciò che umano non è, e dall’umano ancora riconduci all’inumano, rivolgiti a sondare il mio dolore – estasi nel centro della vita, aspergi di sapienza i gesti scabri della spoliazione e della morte di chi ci diede vita, dio minore, e adesso sta per compiere il trapasso nel mondo non visibile, oscura nascita che squarcia e che rigenera
*
e si occulta nella tenebra anche il falco sguardo diritto, tragitto silenzioso, contro l’ultimo sole. Potente è vita, potente sarà morte, come fiume che scorre in piena luce e poi si ingorga in vertigini notturne, botri, abissi graditi a Kronos, agli dei della materia disfatta, che è riverbero della luce primigenia. Perfino la latrina del corpo marcescente è vasta musica di oboe barbarici, accordati al deforme, all’inumano. Ogni corpo vivente, infulgidito dalla linfa del sangue che trascorre ha meta nel vento che ne scortica l’involucro di carne, libera le ossa per lo sguardo calcinante della luna.
*
Si creano intensità, e si disfanno, che ne ridiamo forte di sera, in lungofiume, quando gli uccelli piegano le ali sotto le nubi basse, e le foglie vibrano al vento tiepido dell’est. Sprofonda nella quiete della notte, l’indomabile, il giorno e a miriadi ci siamo amati odiati complicati, in trame di infinito e tempo breve o eterno a seconda che l’anima si accorci o si dilati nell’aión. Ci siamo comunque inebriati della vita, la possente – caracolla a pelo d’acqua la carogna disfatta dell’animale, l’innocente straziato – e adesso contempliamo la quiete della sera, tutti umani e raccolti, bozzoli di cosmo. Fila via, silenzioso, l’airone, nella sera.
*
il fiume è generoso, il dio del fiume, che distilla una quiete da aurora primordiale quando il sole trionfa, nell’estate serena delle ali dispiegate in piena libertà tra acqua e cielo, azzurri, conciliati in perfezione di anima e di spirito, musica vivente di minuscole e maiuscole creature delle altezze e degli abissi. Il fiume è generoso, il dio del fiume, a contemplarne il flusso senza fine che trabocca, all’orizzonte, in altre acque. Guizzano uccelli blu cobalto in controsole. Già si placano le grida dei gabbiani, si avvicina dalle gole dei monti la notturna madre dei viventi, golfo sacro per il palpito lontano delle stelle.
*
il mare si allontana, si allontanano i giorni degli dei, sguardi che scatenano miriadi di misteri tra le cose di sempre, scintillanti al confine dei ricordi, petali in disuso, sciorinati a piene mani nella notte nera dell’anima. Vertebre di pterodattili nel deserto di sale: ciascuno ha raccolto messi bianche per troppo sole, e le nasconde. Cani abbaiano messaggeri di Ecate. Brilla una città di cristalli contorti, custode di sapienza distillata tra macerie e gigli, in controluce.
*
Sciorina vanamente i tuoi stendardi, natura naturata, fatti bella di foreste e città, di cieli e mari immensi, stellate volte… io resto fermo nel cuore non visibile del cosmo, nel regno del silenzio da cui nacqui e dove tornerò tra breve tempo o lungo. Oltre il Nulla lo specchio che rispecchia anche se stesso, l’Assoluto che tutto accoglie. E niente. I tuoi stendardi natura, sciorina, vanamente.
*
Vertigina regina della notte il segreto dei gigli e degli anemoni marini, delle vette appenniniche bianchissime. Vertigina il riverbero della luce sulla brina del mare sulla sponda, o mia regina. Dal sangue rifioriscono magnolie fiorisce dalla notte la voragine candida prima dell’aurora. Il mare accoglie il mare, la parola il silenzio, palpebra divina.
|