Cadael
O mio cadente Cadael, angelo delle cadute e dei capitomboli banali e terrestri, non principe degli abissi ma piumato putto dei canali: sei tu il mio angelo guardiano distratto, mai più che pubere, inesperto; o sei l’alato genio della scrittura che in eterno cade e precipita sulla terra e fatto volare dalla finestra irrompe dalla porta con la sua muta scorta di affanni, e le fanfare dell’eternità? L’indiscutibile editto di quell’anima doppia ha deciso il tuo volo: lo negano ma ti vogliono annegato, angelo ingenuo e di fuoco: chiuso in gabbia o annegato – tu, scafo inaffondabile che ondeggia sulle acque col suo carico ardente. Come una scritta sacra, su una sacra benda, un’infula, rifulgeva il tuo nome di dèmone o di stella, incendiato astro cadente: Cadael.
Il poeta e la morte
Morte che mi scorporerai, pure sgombra di me quanto resterà da ogni umana nostalgia e brama, dismemora dei mondani amori la mente – o annientami compiutamente! Per rispetto di questo almeno ultimatum solenne
LA MORTE
Che insolita tirata: eroica e insolente, ma col solito sbaffo d’ironia. Un altro del coro: perdutamente in cerca d’immortalità ma sulla punta dei piedi, con ironici voli e svolazzi e saltelli. Saltellare non vi salva – tutti siete, fringuelli e usignoli, nelle reti del ridicolo
IL POETA
Seria e sacra ti so, e scriverei per te odi e inni per toglierti lo smacco di somigliare ormai a un trasloco un po’ losco e a uno sgombro – ma dei figli del secolo immagina gli odi, i sogghigni...
LA MORTE
Il secolo è nel sacco. Ancora non scegli fra il tuo cuore e gli stolti? O poeti, ipocriti agiati, solo capaci di arroganza e ironia: coi vostri lagni o le smorfie allo specchio – da nessuno di voi vorrei celebrato il mio Trionfo!
IL POETA
Però, tu pure che spocchia. E come sempre di tutto dimentica. Ricorda per quale potere zampillò da questa lingua mortale e arida la magia incantatoria del linguaggio: fu virtù della mia specie il paziente furore che contrastò il tuo oltraggio vorace… Vicino a me non vedi l’ombre amorose dei poeti morti immortali – i miei mani?
LA MORTE
Le illusioni tue vedo e della tua razza vanesia in estinzione… Trastulli di condannati questi intrugli di rime, meri rimasugli d’uno spuntato orgoglio d’arcangeli putacaso spennati – e non sento che fragore d’ossa e silenzio
IL POETA
Conosco questi veleni. Ma vedi che sei tu maestra d’ogni sarcasmo
LA MORTE
Ma cosa vuoi da me che mi provochi con le tue invocazioni e questa fatua disputa avvocatesca… Aspetta il tuo turno! Il mio è un lavoro di confine, io raccolgo il balzello e non do notizie e garanzie sul dopo: se avrai un corpo di luce senza postume voglie o il nulla in dotazione, non so nulla… E poi che cosa temi: nei tuoi alteri lamenti, non ti sei sbandierato già in vita spogliato d’ogni ardore e sordo alle sirene del mondo?
Carte celesti
È finita allora la sarabanda, i colpi di spillo e di pugnale, il fuoco il sangue la danza ossessa, sacrificale... Il vento rotea nella stanza vuota, alza polvere e fogli ingialliti o ancora candidi: quanti fitti di versi mai finiti! Cifre cimmerie, d’intricate carte celesti tracciati indecifrabili per stelle ormai spente, crollate costellazioni della mente: di nascosto se n’è andata via, ha lasciato la camera alta deserta la poesia.
Dopo la tempesta
Spogliato ti spegnerai del dispotico potere della poesia: deposta la bacchetta magica come Prospero, lo scettro della sua regalità invisibile, di esiliato, usurpato, per le sue aeree prodezze alla fine placato, senza più incanti e incandescenti brame di rivalsa – ti risveglierai umano all’umile epilogo arrivato, pregando assolto di lasciarti partire poi che i tuoi stessi artifici e incantesimi avrai sciolto, sapendo il dono reso il nuovo dono; e dunque qui incidi l’enigmatica sentenza che non sarà intesa, la divaricata divisa, l’impresa che predica: “Ho desideri diversi dai miei”. Poi comporrai la perdita e il perdono.
Dove ritrovo i pensieri che pensavo
Dove ritrovo i pensieri che pensavo stanotte o solo un momento fa: aria fumo – questi stessi pensieri sul pensiero che svanisce svaniscono non lasciano di sé che un segno di secco inchiostro sulla carta – come il nero del fumo sul muro: la funerea traccia che dice solo il passaggio, la scomparsa. Ah pienezza del pensiero che va inafferrabile e vivo, evanescente- mente estraneo alla sua vanità: quieto e rapido respiro della mente che si espande, ritrae: aria fumo: finché scompare, spiritale niente.
Fino a che punto posso chiudere fuori
Fino a che punto posso chiudere fuori l’inferno, tenendo tutte le finestre chiuse, spenti per sempre il televisore, la radio, niente giornali, mai porte aperte al mondo – per dire: a parte i forzatori eterni di porte, che portano disdette, scadenze e tutte le oppressioni: orrore medio che mette la vita alle strette –; se poi può penetrare attraverso un condotto o un muro interno, in casa – fin nel letto – ahinoi! senti come battono al piano di sotto in un’apoteosi di misteri e squallori condominiali: disseppelliscono un morto murato vivo o cambiano vasca e accessori?
Quella poesia raggiante, stellare
Quella poesia raggiante, stellare che balenava in sogno, ora non la sogno più – forse appare ad altri, forse sfolgora per altri occhi, stella gemma come è stata per me di notti incantate; ma nella flemma di giorni torpidi smorti c’è solo una poesia planetaria che conosce la fatica e pena sotto una legge suntuaria, senza altra luce che quella delle lampade, la notte, a schiena curva – perduto il cielo, in cella.
Tra una poesia e l’altra si distende
Tra una poesia e l’altra si distende la prosa dei giorni – il prigioniero andirivieni tra le stanze in sonnolente cerimonie consumato, nello zelo vano del quotidiano: quello che resta fuori dalle poesie, segreto, come mettere il latte a bollire e aperta la credenza disporre per la colazione sul tavolo il pane tagliato nel piatto, il cucchiaio il coltello la tazza per il latte, aprire il barattolo del miele, il burro, lentamente spalmando il pane – ed ecco, accolta la gatta sulle gambe, si comincia, sbriciolando.
Poesia, mia paziente giardiniera
Poesia, mia paziente giardiniera, taglia sfoltisci metti ordine nel groviglio dei pensieri, in questo gran disordine dove ogni pensiero si ripete si perde come in un assedio di erbe che si fanno presto sterpi tra loro soffocandosi serpentine e solo il dispetto, tra serpi e spine, velenoso verdeggia; anche nei sogni le ortiche invadono la casa, i ragni fanno il nido nel mio letto: e tu, presto, riprendi tutto – ragni erbe serpi, sotto la tua paziente tutela, mia poesia, perfetta giardiniera.
I sogni dei gatti
Dove vanno i sogni dei gatti, dove evaporano? Alle porte di quale felice paradiso felino si affollano a volo portando i loro volubili desideri? Da quei gracili crani si levano in volute invisibili come dalla sua lampada il genio che in lieve evanescente flutto fumoso si agita nell’aria – oh i gatti sono davvero calde lucerne di carne dove abita uno spirito possente e serpentino che solo il sonno libera e librandosi sui loro corpi anellati nelle mutevoli forme del sogno ha il suo solo destino
Gatti e prodigi
Soltanto i gatti delle favole fanno prodigi? Voi siete i gatti della fera realtà, i miei gatti feriali e quotidiani e vi aggirate accidiosi per le stanze in attesa che mi prodighi io per voi – e sapete come esigerli, ben guardati guardiani, i miei tentennanti prodigi di tutti i giorni; o forse ci stringe tutti una catena di grigi incanti? La famosa felina libertà è vera solo nei sogni: eccoci qua assonnati asserragliati in casa tra letti e poltrone, sempre fermi a metà della storia, incantati: la gatta bianca dalle orecchie mozzate, il gatto senza stivali e lo spiantato Carabas
Di tenacia necessità
L’ostinazione è un’anti-virtù – o una virtù destituita, declinata: come fare di tenacia necessità; della perseveranza l’invelenita perversione; eppure, o santa, santa e dissennata ostinazione! Tu hai sostenuto Baudelaire nel suo disastro, nella derelizione, spenti la speranza e il coraggio; contro il silenzio, le decimazioni, Rolfe, Poe; St. Malcolm Lowry nel suo ilare naufragio – e tutti, tutti gli ostinati della terra nelle loro discese agli inferi, nell’infernale strazio di testimoniare l’inferno, logorati dal glorioso smacco, lasciati all’inedia, assediati. Pietà per gli ostinati, se osano smentire il mondo, sforzare il rifiuto di un ordine che non li prevede e ostile li aspetta – oscuri stemma e stella, facendosi un destino della disdetta... Prego per voi, miei intemperanti spettri, qui convocati, tutelari numi e mani di apostati e spostati, di irregolari alla fine aureolati – voi, irriconciliata consorteria di ex reietti: quali tesori, o sfortunati capitani: forse sete e ori avevate da portare in porto – per pretendere ascolto, conforto? Troppo poco o troppo: un nome, un sepolcro – e dentro una disincarnata voce che incanti dall’oltretomba nei secoli
La tacenza
Tu sei avanzato solo nella tacenza, che non è la virtù alta assoluta del silenzio, della mente che si fa muta, ma è come una perdita o un’indigenza dell’anima, il disanimato tener chiusa la bocca – se nella mente la veemenza dei pensieri smentisce quelle labbra serrate, alternandosi eternamente in te furore e accidia, inerzia e rabbia. E come al monacale «fuge, tace quiesce» potresti mai rispondere tu mutevolmente muto e loquace, infervorato e spento, pronto a spendere parole opache profane così fatuamente o a celare tacendo l’inferno o il niente?
La gloria ferita Ode per John Keats
«Se dovessi morire – rifletteva nella lettera a Fanny – non avrei lasciato nessuna opera immortale dietro di me... se avessi avuto tempo sarei riuscito a farmi ricordare». Eppure l’anno prima aveva scritto a George «penso che sarò tra i poeti inglesi dopo la mia morte». Ecco cos’è disperare e sapere: un conflitto tra umore e giudizio, un perenne allarme e altalenare dell’idea di sé: meritare memoria e dubitarne – se la mente è ormai lesa, poiché il silenzio e i veleni del mondo corrompono l’umore e sanno come alterare il giudizio, come spegnere sete d’amore e fama con la feccia dell’odio. «Qui giace uno il cui nome è scritto nell’acqua» – tutto secondo il fatale copione Morte in vita –, e quanto duole l’implacata epigrafe – ah la buia sconfitta, il fallimento! – da una voce indelebile smentita col suo disincarnato incanto nei secoli. Quella fragile stele al Campo Cestio che ancora dice la tua pena e intreccia durata e sparizione è un monumento ma così in vano alla Gloria Ferita.
Alza gli occhi all’azzurro, guarda le nuvole
Alza gli occhi all’azzurro, guarda le nuvole, guarda le belle nuvole nubiane che in carovana nei cieli di Roma passano, sostano, sospinte dal vento negriero, nere e luminose: da loro prendi lezioni di docilità e splendore guardale transitare nel loro fulgore fuggevole incuranti di restare
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