Stando a quanto dice Giuseppe Gioachino Belli, i «popolani non hanno arte alcuna» e non possiedono «le risorse della cultura». Li considera degli «idioti» perché «nulla sanno o quasi nulla; e quel pochissimo che gli viene dall’imprinting della tradizione conferma ancor più «la loro ignoranza». Sono dei primitivi «sterili d’idee: le forme del dire» sono «limitate e scarsi i vocaboli».{2} Basterebbero simili dichiarazioni per leggere tra le righe la seguente frase: «Quegli animali sanno emettere soltanto suoni zoomorfi e guaiti immondi. Molto di quanto si legge nei sonetti è roba mia. La loro langue diventa la mia parole che passa necessariamente attraverso il mio laboratorio per la messa a punto e per la rielaborazione».
Ma è vero quello che dice Belli a proposito del popolo di Roma? Erano realmente così come il poeta intellettuale ce le descrive le condizioni di vita e d’istruzione dei Romani?
Per tentare di vederci meglio mi sono recato presso l’Archivio di Stato di Roma per indagare sulla questione e tentare di fare luce sulle scuole e sugli istituti dediti alla alfabetizzazione nel periodo in cui visse e scrisse Belli.
Nell’Archivio è conservato il Fondo Congregazione degli Studi, un organo dello Stato Pontificio deputato all’organizzazione dell’istruzione delle classi sociali.{3} L’attività della congregazione «abbraccia un arco temporale che va dal 1824, anno della sua istituzione formale, al 1870».{4} Esistevano a Roma degli istituti deputati all’insegnamento di base primaria e media, anche se i controlli da parte dello stato erano quasi inesistenti. L’istruzione elementare era in mano al clero regolare e secolare, ma esistevano anche scuole private a pagamento e gratuite.
Tra questi istituti si ricordano le Scuole Pie degli Scolopi, in San Pantaleo e in San Lorenzo in Borgo; le Scuole dei Lasalliani in Trinità de’ Monti e in San Salvatore in Lauro; le Scuole dei Padri Dottrinali, in Santa Maria in Monticelli e in Sant’Agata in Trastevere; le Scuole Parrocchiali; le Scuole Pontificie; le Scuole Regionarie, sottoposte al Rettore dell’Università di Roma; le Scuole Femminili delle Maestre Pie. Vi erano poi gli ospizi che fornivano agli orfani e ai poveri l’istruzione elementare di base: quello di San Michele; l’ospizio degli Esposti nell’Ospedale di Santo Spirito; l’ospizio di Tata Giovanni;{5} l’orfanotrofio di Santa Maria in Aquiro e l’ospizio dei Catecumeni e Neofiti.{6}
Analizzando il Fondo Congregazione degli Studi è possibile delineare un quadro abbastanza ampio degli istituti deputati all’istruzione delle classi medio-basse del periodo in esame. Nella prima metà dell’Ottocento la città era abitata da circa 150.000 persone. Nella seconda metà del secolo il nucleo abitativo dello spazio urbano occupava meno di 400 ettari, con circa 240.000 abitanti. Il comune di Roma si estendeva fuori le mura per 203.420 ettari popolati da appena tremila abitanti.{7} Gli istituti di istruzione non erano dunque pochi rispetto agli abitanti e alla estensione della città. La gratuità di alcune scuole consentiva inoltre alle famiglie non agiate o povere di alfabetizzare i propri figli, per poi, magari, inserirli nella bottega di famiglia e avviarli al lavoro.
Tra le buste che fanno parte dei documenti della Congregazione si trovano cartigli che attestano la presenza di altri istituti dediti all’istruzione elementare e media: Il Collegio Nazareno; San Lorenzo in Piscibus; San Pantaleo; i Chierici Regolari Teatini in Sant’Andrea della Valle; l’Istituto Pallotta. Vi erano poi accademie di vario interesse culturale e le Università.{8}
Difficile dunque pensare ad un popolo totalmente analfabeta e in grado di emettere soltanto suoni zoomorfi. Altro discorso riguarda l’analfabetismo di ritorno che caratterizza, generalmente, le classi lontane dalla cultura ufficiale.
Dalla situazione esposta risulta una distribuzione piuttosto capillare sul territorio cittadino di istituti e scuole deputati all’insegnamento, sovente anche di grammatica latina.{9}
Belli guarda, dunque, alla plebe con una prospettiva straniata, anche se si impossessa totalmente della lingua romanesca e plebea, spesso infarcendola di locuzioni, costruzioni sintattiche e lessicali proprie.{10} Il suo allontanamento è proporzionalmente inverso alla sua retrocessione nel dialetto e al procedimento di supplenza che diventa negazione-finzione.{11}
Gli artigiani, i servitori e i bottegai di Roma della prima metà del secolo XIX erano sicuramente ignoranti, anche se avevano imparato a leggere, scrivere e fare di conto. Bisognerà aspettare la Legge Casati del 1859 per avere un’istruzione obbligatoria (almeno in teoria) di due anni e successivamente la Legge Coppino del 1877 per la durata di tre anni. Ma non è molto convincente il modo in cui Belli ci presenta il popolo romano nella sua Introduzione; degli idioti in grado soltanto di emettere suoni animaleschi (che non meritano nemmeno di essere definiti “popolo”, bensì “plebe”).
Si rimane perplessi quando si riflette sul bisticcio linguistico e sul metamorfismo lessicale che il poeta impiega costantemente nella produzione romanesca. Le deformazioni morfologiche del tipo treato, crapa, groria, grolia, frabbica, crompato, crompi, embrema, Prutone, crima, crasse, prico, frauti, affritto e simili, in luogo di teatro, capra, gloria, fabbrica, comprato, compri, emblema, Plutone, clima, classe, plico, flauti, afflitto oppure i metamorfismi quali immriaco, descemmre, innico, ammra, per ubriaco, dicembre, indaco, ambra (e altri) potrebbero essere più adatti ad una volontà di deformazione linguistica operata da uno scrittore che gioca col proprio dialetto, piuttosto che ad errori dovuti all’ignoranza dei parlanti (che comunque era molto forte all’epoca, anche a livello linguistico).
È quanto meno un tentativo di calcare la mano e sporcare ulteriormente quanto, per sua natura, risulta non proprio pulitissimo.{12} Una dilatazione semantica che scivola nel ridicolo e che soltanto un addetto ai lavori può usare con tale maestria. Tali geometrie lessicali entrano a far parte di un campo semiotico adatto al vocabolarista-collezionista di significanti possibili. È insomma un gioco da semiologo della lingua a caccia del segno.
Stesso discorso vale per gli esiti comici ottenuti con alterazioni linguistiche, come le formule latine che diventano espressioni latinesche da battuta teatrale, per le varianti di carattere fonetico-morfologico contenute in alcuni lessemi, per l’uso deformante del francese in bocca romana. Il romanesco è usato dal poeta per produrre deformazioni, alterazioni, rigonfiamenti semantici e scomposizioni che non avrebbe potuto ottenere con la lingua italiana, almeno non con gli stessi esiti.
L’alterazione-deformazione della langue romanesca diventa la parole del poeta, che si concreta come proprio idioletto vernacolo, fuso e confuso col diàlektos storico. Non disponiamo, naturalmente di documenti scritti dell’epoca che possano, con certezza, dirci come scrivevano quei popolani (quelli che erano in grado di farlo, naturalmente, ma nemmeno, è possibile dire con certezza come si esprimevano, visto che non possono esistere registrazioni dell’oralità) anche perché chi aveva imparato i rudimenti dell’alfabetizzazione non scriveva in dialetto, ma in una lingua più toscana che locale (o, comunque, in una forma mista lontana da quella utilizzata da Belli per i sonetti, in quanto non pensata per la poesia). Il dialetto storico rappresenta la base sulla quale il poeta va ad erigere il monumento della plebe, che si sviluppa sia in conseguenza dell’uso del romanesco storico-naturale, sia in conseguenza del riuso e dell’abuso di tale lingua. Egli pesca dentro la langue e sceglie se usare, scartare, adattare, elaborare, modificare e riformulare. Belli usa, dunque, la langue come base per il rimpasto e per l’estensione della sua parole.
{1}Questo articolo è una rielaborazione eseguita appositamente per la rivista «Fili d'aquilone» con modifiche e aggiornamenti, del mio saggio La fontana di Belli, in «Il 996», anno II, n. 3, 2004.
{2}L'Introduzione belliana è conservata nella Biblioteca Vittorio Emanuele di Roma. La bella copia dell’ultima stesura è in ms. 681. La prima stesura, la seconda e le aggiunte sono in ms. 689, ff. 2-7 e 14. Com’è noto, l’abbozzo dell'Introduzione nasce a Terni durante il viaggio di ritorno da Morrovalle; in forma di epistola fu poi inviata all’Onorevole sig. Francesco Spada, Orologiaio al Corso presso le convertite a Roma. Fu pubblicata da Morandi nel 1886 (Cinque lettere e due note di viaggio di G.G. Belli, per nozze Osio-Scanzi, Perugia, 1886) e in seguito – oltre che in G.G. Belli, Le lettere, cit., pp. 239-41 e in Lettere Giornali Zibaldone, cit., pp. 374-75 – in facsimile e trascrizione nella Strenna dei Romanisti, 1963, pp. 46-47. La lettera autografa all’amico Francesco Spada fu donata da Giacomo Belli a Luigi Morandi, che la inserì e la utilizzò in parte nella prefazione ai Sonetti romaneschi, I, Città di Castello, Lapi, 1886; ma è riprodotta in tutte le edizioni successive dei Sonetti. In Poesie romanesche, cit., I, pp. 12-39, Roberto Vighi ha riproposto i tre momenti della composizione che portano all’Introduzione definitiva, peraltro ancora incompleta, e cioè: l’abbozzo nella lettera allo Spada, data 5 ottobre 1831; una prima stesura quasi completa, del 1° dicembre 1831; l’ultima redazione riveduta databile dicembre 1839.
{3}Roma, Archivio di Stato, Fondo Congregazione degli Studi, fasc. inv. n. 164 (per gli anni dal 1824 al 1870). Per le scuole ed istituti d’istruzione nelle varie diocesi dello stato (periodo 1833) cfr. cod. busta 25, f. 168. Per le scuole statali di pubblica istruzione (periodo 1828) cfr. le buste 21-22-23, ff. 164-165-166. Ringrazio la dott.ssa Manola Ida Venzo dell’Archivio di Stato di Roma e i cortesi funzionari per il contributo offertomi durante lo studio e le ricerche effettuate nell’Archivio.
{4}M.I. VENZO, Roma fra la restaurazione e l’elezione di Pio IX. Amministrazione, economia, società e cultura, Roma-Freiburg-Wien, Herder, 1997, p. 179. Per quanto riguarda gli studi più significativi al riguardo si veda C. L. MORICHINI, Degli istituti di pubblica carità ed istruzione primaria e delle prigioni in Roma, Roma, Tip. Marini e C., 1842; L. GRIFI, Breve ragguaglio delle opere pie di carità e beneficenza ospizi e i luoghi di istruzione della città di Roma, Roma, tipografia della RCA, 1862; G. PELLICCIA, La scuola primaria. Roma dal secolo XVI al XIX, Roma Edizioni dell’Ateneo, 1985.
{5}Belli scrisse il dialogo bilingue Marco e il poeta, un dialogo per la premiazione all’Ospizio di Tata Giovanni in agosto 1841, ma datato 17 luglio 1841. Il componimento, in minuta con correzioni, è conservato nella Biblioteca Vittorio Emanuele, ms. 689, ff. 21-23. Stampato per la prima volta nell’edizione Salviucci Poesie inedite di G.G.Belli, curata dal figlio Ciro (e dagli amici Ferretti, Spada e Tizzani), è stato riproposto da G. HUETTER, in «Palatino», 1963, I, pp. 78-80; e, ripetutamente, da R. VIGHI, in Belli romanesco, cit., pp. 575-583; in Belli italiano. Le poesie italiane del Belli, Roma, Colombo, 1975, pp. 573-75 e pp. 794-97; infine in Poesie romanesche, cit., VIII, pp. 333-41. In questa poesia la schizofrenia linguistica del poeta si distribuisce dentro uno stesso testo. Vi sono due interlocutori: Marco, che parla romanesco, e il poeta che si esprime in lingua.
{6}Si veda M. I. VENZO, cit., p. 180 sgg.; cfr. anche M. TEODONIO, Poi comincia er tormento della scola, Roma Newton Compton, 1994, pp. 7-8 sgg.
{7}Si veda in merito T. DE MAURO, Per una storia linguistica della città di Roma, in Il romanesco ieri e oggi, cit., p. XXI. Per un’analisi specifica, cfr. G. TOMASSETTI, La campagna romana antica, medievale e moderna, Roma, Loescher, 1910; R. DELLA SETA, I suoli di Roma, Roma, Ed. riuniti, 1988; L. BARTOLOTTI, Roma fuori le mura, Roma-Bari, Laterza, 1988.
{8}L’Università di Roma e l’Università Gregoriana del Collegio Romano. Per gli istituti citati si veda nel fascicolo inventari num. 164 della Congregazione degli Studi dell’Archivio di Stato di Roma: nello specifico buste 21-22-23, ff. 164-165-166; busta 25, f. 168. Per le accademie romane (periodo 1824-1870) si veda il codice 351, f. 1814/1.
{9}M.I. VENZO, cit., pp. 179 sgg.
{10}Per una definizione più articolata del rapporto fra il poeta e il suo “oggetto”, cfr. E. RAGNI, Belli e il suo popolaccio”. Un affresco dell’universo romano, in «Il 996», I, 2003, fasc. 1-2, pp. 23-36.
{11}Cfr. R. MEROLLA, Il laboratorio di Belli, cit., pp. 285-288.
{12}Alludo al classico della critica belliana, P. GIBELLINI, I panni in Tevere, Belli romano e altri romaneschi, Bulzoni, 1989.
Giuseppe Gioachino Belli nato a Roma nel 1791, grande protagonista, assieme a Carlo Porta, della poesia dialettale del primo Ottocento. Ebbe un’infanzia difficile, sia a Roma che a Napoli, dove fuggì dopo l’occupazione della città da parte dei francesi (1798). Con la restaurazione del potere pontificio tornò a Roma, ma le sue condizioni di vita non migliorarono perché perse prima il padre e poi la madre. Fu costretto a interrompere gli studi e a dedicarsi a diversi lavori, anche modesti. Solo nel 1816, grazie al matrimonio con una ricca vedova, le sue condizioni cambiarono sensibilmente. Viaggiò ed ebbe contatti con i romantici milanesi e con l’ambiente del Gabinetto Viesseux di Firenze. Alla morte della moglie, nel 1837, perdette molti privilegi economici e si impiegò nella pubblica amministrazione papalina, in cui ricoprì con scrupolo la funzione di censore della “morale politica”, facendosi sostenitore del più retrivo e bigotto conservatorismo, proprio negli anni in cui l’arretratissimo ambiente culturale dello Stato Pontificio veniva scosso da spiriti liberali e di riforma. Morì all’improvviso, nel 1863, dove aver chiesto all’amico Monsignor Tizzani la distruzione dei sonetti destinati a renderlo celebre.
Si tratta di oltre duemila componimenti in romanesco, i Sonetti, quasi tutti pubblicati postumi, mostrano l’altra faccia di Belli: non l’austero e poco fantasioso autore in lingua, non il politico reazionario, bensì il ribelle e violento accusatore, l’idealista, il contestatore, il cantore della plebe a cui dedica quello che chiama un “monumento” poetico. I suo testi, infatti, rappresentano scene di vita popolare, vivaci ritratti, invettive comiche sempre però accompagnate dall’amarezza di chi ha una visione profondamente pessimista e tragica della vita. Si tratta di una poesia a forti tinte, originalissima rispetto alla poesia italiana, come dimostra la scelta del dialetto. In questi sonetti, che non risparmiano neppure le tematiche religiose, i riti cattolici sono rappresentati come aridi copioni privi di significato. Anche la morte è beffeggiata, con un atteggiamento volutamente irrisorio. Risalta invece interamente la rappresentazione realistica del mondo popolare romano, ben identificato nelle sue effettive caratteristiche: le figure di popolani dalla risposta pronta, astuti, abili a maneggiare il coltello, sono caricate di un valore esemplare che le rende protagoniste di un’epica minore, modesta, eppure ricca di passioni, ironia e comicità.
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