FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 25
gennaio/marzo 2012

Grumi & Nodi

 

BAMBINI ESCLUSI

di Federico Platania



Pubblichiamo, per gentile concessione della casa editrice Fernandel, i primi due capitoli del nuovo romanzo di Federico Platania, in uscita a febbraio.


Capitolo 1

Mi chiamo Alvise Mariani e sono il direttore marketing di una catena alberghiera. Ma è di Dafne Delirio che voglio parlarvi.

Voi sapete chi è Dafne Delirio, vero? Ve lo chiedo perché ormai ci sono così tante celebrità in giro che è possibile che qualcuna ci sfugga. L’altro giorno, per esempio, un mio amico ha pronunciato il nome di un cantante, e io ho detto: «Chi?». E lui ha fatto: «Ma come? Non sai chi è?». E così mi ha spiegato che questo cantante è molto famoso. E nonostante ciò io non lo avevo mai sentito nominare. O magari sì, ma lo avevo dimenticato subito. Quando sono andato su internet a cercare informazioni su di lui è venuto fuori che questo cantante ha venduto, solo con il primo album, tre milioni di cd. Non so se rendo l’idea. Tre milioni.

Ricordo ancora la cifra perché mi ha colpito. Ora, io non mi intendo molto di contratti discografici, ma penso che dopo aver venduto tre milioni di copie, e solo del primo album, uno possa non dico vivere di rendita ma quasi. Supponiamo anche un euro a copia, un dollaro a copia. Fa una somma non indifferente.

Comunque. Tre milioni di copie solo del primo album, e io non lo avevo mai sentito nominare. Così non mi stupirei se ora voi mi diceste che non sapete chi diavolo è Dafne Delirio. Ma davvero non posso credere che non abbiate mai sentito una sua canzone alla radio, o che non l’abbiate mai vista in tv, o su quei meravigliosi manifesti stradali che pubblicizzano la sua linea di biancheria intima. Partiamo dai manifesti, perché in fondo è da lì che è cominciato tutto. Per via del lavoro che faccio viaggio in continuazione, così sono abituato da anni a non dare troppo peso alla casa in cui abito. Fatti i conti è il luogo dove trascorro meno notti al mese. Qualche anno fa, quando il lavoro ha cominciato a ingranare e mi è stata affidata la responsabilità della direzione marketing della Next Hotel (sapete, quella catena di alberghi che ha per logo una grande N incorniciata da due rami d’alloro) ho pensato che non valesse la pena investire in un grande appartamento, considerato che sono single e passo più tempo fra treni, aerei e stanze d’albergo che a casa. Così ho comprato un monolocale alla periferia sudovest di Roma, un posticino tranquillo, vicino all’aeroporto e relativamente ben collegato con la stazione Termini, e ho stabilito lì il mio bivacco fra una trasferta e l’altra.

Era il 2006, cioè l’anno in cui Dafne Delirio lanciava “Disperazione”, la nuova linea di lingerie del suo marchio di intimo e abbigliamento. Sì, perché Dafne è stata una showgirl, ha iniziato così, come tutte, ma poi è diventata una star della musica pop e ora è anche un’imprenditrice. Qualcuno l’ha definita la Madonna italiana, ma a me questo paragone non convince del tutto. Madonna dà sempre l’idea di avere un estremo controllo di quello che fa, è bravissima per carità, piace anche a me, ma ogni volta che vedo un suo concerto o ascolto i suoi dischi mi sembra quasi di sentire le vibrazioni nervose, lo stress che scarica su tutti i suoi collaboratori. Insomma, mi piace ma alla fine mi sfianca.

Con Dafne invece è tutto diverso. Dafne Delirio è una vera forza primordiale, sembra che tutto le venga naturale, non c’è stress in lei, non c’è controllo, soltanto abbandono.

Ma non voglio divagare. Era il 2006, dicevo, ed era molto facile vedere le pubblicità della biancheria intima “Disperazione”. Me lo ricordo bene, intanto perché ricordo facilmente quasi tutto ciò che ha a che fare con Dafne Delirio, e poi perché il 2006 è l’anno in cui è uscito il cd Disperazione (febbraio) e in cui è partito il relativo “Disperazione Tour” (maggio, prima data Forum di Assago, io ovviamente ero lì, tra la folla). Insomma il 2006 era l’anno della Disperazione, un album, un tour, una nuova linea di lingerie. E oggi posso dire che è stato anche l’anno della mia, di disperazione.

Avevo visto il making of di quella campagna pubblicitaria in anteprima su dd.com (il sito ufficiale del fan club di Dafne Delirio) e su altri siti di gossip e celebrità, e già l’effetto era stato sconvolgente. In quelle immagini Dafne Delirio era più bella che mai, perfetta nel suo modo di porgere il corpo all’osservatore, nella potenza consapevole del suo sguardo. Ma quando quella mattina del 2006 sono uscito di casa e ho visto di fronte a me la grazia estetica di Dafne Delirio splendere su una superficie otto metri per tre, be’, la tentazione è stata quella di cadere in ginocchio e piangere per la commozione.

Mi rendo conto che non faccio testo. Per me Dafne Delirio è un essere soprannaturale, ma mi piacerebbe comunque che voi ricordaste, ora, quel manifesto di cui sto parlando. Chissà, molti di voi potrebbero averlo visto e dimenticato, avrete magari dedicato a quell’immagine un pensiero fugace, la sensualità di Dafne è fuori discussione del resto, e poi avrete subito pensato ad altro. È probabile che siano diverse dalle mie le immagini che portano voi alla disperazione. Ognuno ha il suo inferno, questo lo so.

Ma quel manifesto, lo scatto fotografico ufficiale della campagna pubblicitaria per la lingerie “Disperazione”, be’ io non riesco a pensare a niente di più devastante, niente che possa più di quell’immagine generare desiderio nella mia anima. Esco di casa e sono Ulisse di fronte alla Maga Circe.

Il problema è proprio questo. Il manifesto è ancora lì. Sono passati anni, e il manifesto è ancora lì. Contro ogni logica commerciale, contro ogni buon senso. I cartelloni intorno hanno ceduto la loro superficie alle pubblicità più diverse, offerte stagionali dei supermercati, pacchetti di programmi della tv via satellite, marche di abbigliamento, nuovi modelli di automobili. Solo il cartellone numero 1678-45291-1, cornice di legno, la vernice rossa mangiata dall’umidità e dal sole, sorretto dalle zampe d’acciaio che emergono dal terreno erboso che si stende oltre la strada a due corsie di fronte a casa mia, solo quel maledetto cartellone offre da cinque anni la stessa luminosa immagine di Dafne sdraiata su un letto color perla mentre indossa mutandine e reggiseno “Disperazione”.

L’anno scorso, per togliermi la curiosità, ho chiamato la ditta responsabile dello spazio pubblicitario di quel cartellone. Ho fornito il numero e ho detto che ero interessato ad affittare quello spazio per un’affissione pubblicitaria della Next Hotel. Una ragazza dal forte accento romanesco all’altro capo del filo mi ha detto che quello spazio era già occupato. «Ah», ho fatto io fingendo di apprenderlo solo in quel momento, «peccato, era in una buona posizione secondo i nostri calcoli. Sa, sulla strada per l’aeroporto e per la stazione, per una catena di hotel è l’ideale». La ragazza sembrava tutt’altro che interessata alle mie analisi di marketing. «E potrei sapere fino a quando è affittato quello spazio?», ho buttato lì con il tono più naturale possibile. «Mi dispiace signore, è strano ma il sistema non mi fa accedere a questo dato», ha detto lei calcando le “c” e facendo sibilare tutte le “s”.

E così, niente. Sono condannato a vivere con la sublime Dafne per sempre di fronte a casa mia. Meno male che, come dicevo, mi capita raramente di pernottare da me. Perché ogni volta che esco, credetemi, è un colpo al cuore. Se le finestre del mio appartamento avessero dato sulla strada sarei già impazzito, ne sono certo (e sì che Dafne Delirio è, in sostanza, la donna su cui più spesso poso lo sguardo. La mia casa è piena dei suoi poster, il mio portatile ha come sfondo per il desktop una sua foto, il salvaschermo idem, e ho tutti i suoi concerti e le sue video-collection su dvd, quindi dovrei essere abituato a vederla. Ma quella foto, quella foto…). Già verso la fine del 2006 tutti i manifesti della campagna “Disperazione” erano gradualmente scomparsi. Girando per Roma non se ne vedeva più uno (il più longevo, credo, è stato quello della stazione ferroviaria di Ponte Galeria, che però è scomparso a gennaio, massimo febbraio del 2007).

Solo quello davanti a casa mia resiste ancora, è lì, e temo che vi resterà per sempre. Una notte, ve lo confesso, ho sentito l’impulso di prendere la bottiglia d’alcol che ho nell’armadietto del bagno, un accendino, scendere in strada e dare fuoco al cartellone. Non l’ho fatto perché avevo paura che qualcuno mi vedesse, ma soprattutto perché quel gesto avrebbe sancito definitivamente la mia pazzia, e io voglio continuare a credere, invece, di aver conservato un minimo di controllo su me stesso. È vero, sono un fan, anzi sono il fan, sono un ammiratore, un appassionato, un adoratore, ma resto pur sempre un uomo, e di fronte a un manifesto pubblicitario questo conterà qualcosa. Altre notti invece, senza pensare ad atti vandalici, mi rassegno all’idea che la mia è davvero una maledizione e che non c’è scampo. Bisogna andare fino in fondo, se un fondo c’è. Ed è così che va avanti la mia vita, fra la tentazione di dare fuoco a quell’immagine e la voglia di lasciarsi andare del tutto e precipitare verso la luce. E se gli estremi tra cui oscilli sono questi è chiaro che, gira e rigira, la malsana idea alla fine viene fuori.


Capitolo 2

Mi chiamo Gabriele Rossetti, lavoro come operatore nel centro prenotazioni di un grande ospedale di Roma e non voglio avere figli. A parte questo credo di essere una persona normale.

Voglio dire, penso di essere più o meno uguale a tutti quelli che conosco, ho poca voglia di andare al lavoro e poi mi annoio nel tempo libero. Però, ecco, non ci penso neanche a riprodurmi. Non so quando è cominciata, ma con il passare del tempo il mio proposito di non avere figli si è radicato in me, è diventato la mia caratteristica principale. Una specie di ossessione. Quando mi stanco di stare dove sto o di fare quello che faccio, cosa che capita spessissimo, non riesco più a concentrarmi e i miei pensieri seguono la scia nebbiosa delle mie fissazioni.

Questa sera, per esempio, sono uscito con due colleghi, alla fine del turno pomeridiano. L’idea è quella di passare insieme il resto della serata, dunque la parte più sostanziosa del nostro legittimo tempo libero. Scartati subito un paio di wine bar troppo costosi per le nostre tasche, ci riduciamo a ripiegare sull’Underground, uno dei posti più anonimi in cui potessi augurarmi di finire. La stessa birreria in cui andavo ai tempi delle superiori. Senza entusiasmo ci andavo allora, forse perché era la più vicina a casa mia e dunque non mi sembrava neanche di aver passato davvero una serata fuori.

Senza entusiasmo ci torno stasera. Coi miei colleghi del lavoro. Non mi diverte per niente uscire coi miei colleghi del lavoro. Ma per noia, o per l’incapacità di dire di no, si fanno le cose più assurde.

La grande sala sotterranea è pressoché vuota, se non si contano un ragazzo con la camicia attillata indaffarato dietro il bancone del bar e una ragazzetta grassa che si aggira tra i tavoli disabitati, con un grembiule che le strizza i rotolini della pancia che fuoriescono dai leggins neri. Sullo schermo al plasma che pende da un angolo del soffitto passano immagini mute di video musicali.

«Siamo i primi», fa la montanara guardandosi intorno.

«O gli ultimi» le rispondo io.

Mentalmente non chiamo mai i miei colleghi con i loro nomi di battesimo. Senza rendermene conto, nel tempo ho trovato per ognuno un soprannome. Non si tratta di nomignoli offensivi o canzonatori. Semplicemente per me queste persone esistono solo come forme traslate di vita. Come rappresentazioni di se stesse. E così Silvia Fossini, operatrice di primo livello, mia pari grado ma a differenza mia lanciatissima verso la promozione a supervisore, è, nel mio pantheon mentale, la montanara. Per via dell’abitudine di raccontare, tutti i santi lunedì mattina, i suoi fine settimana escursionistici tra La Maiella e il Terminillo, storie di ferrate e notti al bivacco. Così: la montanara.

E Mirko Selva, mio dirimpettaio di open space, arrivato nel gruppo molto dopo di me e per questo automaticamente considerato un subordinato, è il lirico, perché una volta, al baretto dove pranziamo insieme, mentre io sbuffavo per via della lagna che promanava dalla radio, lui aveva esclamato: «Ma come? È l’Italiana in Algeri! È Rossini!», svelando così un’insospettabile conoscenza della musica operistica, insospettabile almeno per me che lo vedo sempre navigare su siti internet pecorecci e parlare nient’altro che di calcio alla macchinetta del caffè.

E dunque il lirico, la montanara. Io li chiamo per nome, quando mi rivolgo a loro a voce alta, e dico «Silvia, mi copri dieci minuti che vado in pausa?», oppure «Hai letto la nuova policy di risposta, Mirko?», ma dentro di me, poi, penso, «Grazie montanara», oppure «Occhio, lirico, che queste cose le controllano». Un sistema di comunicazione su due piani. Il primo chiaro e condiviso, dove il nome pronunciato è quello noto a tutti, il secondo iniziatico e privato.

«Ma voi dovete mangiare o beviamo solo qualcosa?» Chiede il lirico sfogliando le pagine di un menu rivestite di plastica dura e appiccicosa.

«Magari qualcosa da sgranocchiare» risponde la montanara.

«Io prendo una spina media. Se prendete qualcosa da sgranocchiare spizzico un po’ da voi» dico io.

E con questo sancisco la suprema nullità della serata. Cecilia impegnata in una riunione di lavoro fino a tardi, troppo stanca o nervosa per fare l’amore con me quando tornerò. E io qui con le stesse facce che ho visto per tutto il giorno e che rivedrò per tutto il giorno successivo. Un locale vuoto (il fatto che per caso siamo capitati nello stesso locale che frequentavo ai tempi della scuola non fa che peggiorare la situazione), una birra e qualcosa che non può neanche lontanamente definirsi una cena (comunque non ho fame). Un mercoledì sera all’Underground. Su di me sento scendere accordi funebri. Altro che Rossini.

«Avete sentito che ha detto oggi la Anselmi?» Chiede la montanara dopo che abbiamo ordinato.

«Che palle Silvia, avevamo detto che non parlavamo di lavoro».

«Solo questo, solo questo, giuro, e poi parliamo d’altro» fa la montanara ridendo.

Parleremo solamente di lavoro, questo è pacifico. E solo un ingenuo come il lirico, forse perché ancora di primo pelo, può pensare che si parlerà anche d’altro. E così la montanara si avventura nell’esposizione dell’ennesimo aneddoto della tungstena, ovvero quella che nel piano condiviso della comunicazione chiamerei Patrizia Anselmi.

Non avendo più voglia di stare qui insieme ai miei colleghi, la mia testa si stacca come una mongolfiera e comincia ad andare da altre parti. Ecco, io guardo il lirico, la montanara, ma anche la ragazza grassottella che ora accoglie i nuovi arrivati, guardo i nuovi arrivati stessi, un gruppo di ragazzetti chiassosi, e poi il ragazzo dietro al bancone che da quando siamo entrati non ha smesso un attimo di lucidare bicchieri e guardarli in controluce. Insomma, guardo tutti loro e penso che tutti loro, quasi sicuramente, faranno dei figli. È inevitabile, prima o poi, pochi o tanti, ma alla fine tutti fanno dei figli. Vedere queste persone intorno a me come future madri e futuri padri mi fa venire l’ansia.

Ma possibile che solo io, adesso, qui, veda nel futuro? Possibile che solo io mi abbandoni a simili visioni? Immagino di sollevare lo sguardo da me e di spostarlo indietro lungo un asse di allontanamenti progressivi, tanto da vedermi lì seduto al tavolo coi colleghi e gli altri ragazzi intorno, e poi vedo la pianta catastale dell’Underground e la planimetria del quartiere (da questa altezza piazzale della Radio e viale Marconi brillano di una luce spettrale) e il reticolo luminoso di Roma vicino alle sponde del Tirreno e le terre emerse circondate dalle nere acque dell’Atlantico, e allontanandomi sempre di più, risucchiato verso l’alto, mentre la montanara continua a parlare, vedo la grumosa palla della Terra e gli spazi siderali e l’impossibile vuoto che circonda ogni cosa.

E, sempre da solo, mi vedo precipitare giù di nuovo, di colpo, senza rumore e senza dolore, sulla sedia di legno del pub, con una spina media tra le mani, rendendomi finalmente conto del destino di ognuno di loro intorno a me. Vedo i figli del lirico, i figli della montanara, i figli della cameriera e del barista, i figli dei ragazzetti al tavolo accanto e mi viene voglia di scappare.

La montanara parla e io da tempo non l’ascolto più, perso come sono a contare questa discendenza più numerosa delle stelle del cielo, quando ecco che i display dei nostri cellulari, il mio quello della montanara e quello del lirico, si accendono contemporaneamente, come i congegni sincronizzati dei film d’azione. Dopo un rapido confronto capiamo di aver ricevuto tutti e tre lo stesso sms.

Lo leggo io per tutti, mentre gli altri seguono la lettura sui loro dispositivi: «Ciao, sono Fantoni. Come ti vanno le cose? Spero bene. Lo stesso purtroppo non posso dire di me. Richiamami se ti va».

«Chi cazzo è Fantoni?» Chiede il lirico.

«Ma dai, Fantoni» dice la montanara, «quello che ha lavorato con noi neanche tre mesi e poi se ne è andato».

Il galoppante, penso io.

«Ah sì sì» fa il lirico stringendo gli occhi. «E che vuole?».

Io alzo le spalle, ma è chiaro cosa vuole il galoppante. Cerca un’altra opportunità. Ci ha mollato perché il lavoro non gli piaceva (e a chi potrebbe piacere il nostro lavoro, del resto?) e perché lui, così diceva, aveva altri progetti per la sua vita. Se ne è andato ed è finito peggio di prima.

«Vuole rientrare» dice la montanara con un sorriso incredulo. Faccio segno di sì con la testa. «Ha sparato lo stesso sms a tutta la rubrica» dice il lirico rigirandosi il cellulare nel palmo della mano destra.

«Fantoni! mi ero addirittura dimenticato di avergli dato il mio numero…»

Per un po’ la conversazione cade nel nulla. Del galoppante e del suo sms ci dimentichiamo presto, almeno gli altri. Io continuo a pensarci. Immagino i futuri figli del galoppante, perché è chiaro che anche il galoppante avrà dei figli. E immagino il modo in cui le sue attuali sorti, direi non buone, influiranno sul proposito di diventare padre.

Le voci dei ragazzi chiassosi accanto al nostro tavolo dominano la scena. Indicano, sul video che pende dal soffitto, le immagini di una cantante che si dimena.

«Oddio, come si chiama questa?» Chiede la montanara. «L’ultima canzone era carina».

Il lirico fa una torsione sulla sua sedia e fissa con gli occhi socchiusi lo schermo. «Boh…» dice poi. «Aspetta… è cosa…»

Il galoppante. Da non crederci. Il galoppante che si rifà vivo con un sms così patetico. Per carità, per lui mi spiace, ma quel messaggio è davvero umiliante. Eppure. Neanche un anno fa, l’azienda per la quale lavoriamo aveva annunciato dei tagli. Per alcuni mesi siamo stati sulle spine, da un momento all’altro sapevamo che avrebbero potuto chiamarci per liquidarci senza tanti giri di parole. Era una sensazione strana. Sembrava di essere appesi.

L’idea di venire licenziato per certi versi mi eccitava un po’, lo confesso, ma credo di aver maturato abbastanza buon senso, nel tempo, per rendermi conto che quella novità mi avrebbe sprofondato in una serie di problemi pratici non indifferenti.

«Dafne Delirio» dice improvvisamente il lirico schioccando le dita.

«Bravo, Dafne Delirio» gli fa eco la montanara.

In quei pochi mesi avevo passato un bel po’ di tempo a pensare a cosa avrei fatto se davvero avessi perso il lavoro. Da qualche parte ho conservato una serie di nomi e numeri di telefono di persone che volevo contattare qualora mi avessero licenziato. In un certo senso mi sentivo piuttosto sicuro. C’erano un paio di amici che avevano messo su una piccola ditta e pensavo, come prima cosa, di sentire loro. E poi c’era il mio precedente datore di lavoro. Non ci eravamo lasciati benissimo, ma secondo me se fossi tornato gli avrebbe fatto piacere. Certo, sarebbe stato un po’ umiliante per me, ma la necessità avrebbe prevalso sull’orgoglio.

«Ma Delirio è un nome d’arte o è il suo cognome vero?» Chiede il lirico.

«Ma dai, come fa a essere vero?»

Fantasie. L’sms del galoppante mi ha dimostrato di colpo il modo in cui sarebbero andate davvero le cose. Ed era un modo terribile. Se davvero fossi stato licenziato, avrei sì contattato le persone che mi ero ripromesso di contattare, ma quelle non mi avrebbero offerto nessuna soluzione concreta. La mia richiesta di aiuto sarebbe caduta nel vuoto, tra qualche risata e qualche battuta su una cantante pop della televisione. Nessuna soluzione veloce. La mia condizione di licenziato sarebbe rimasta tale per chissà quanto tempo, e chissà come ne sarei uscito.

Cose come questa potrebbero servire come giustificazione razionale al mio proposito di non avere figli, se non fosse che questo proposito non ha bisogno di alcuna giustificazione.



la quarta di copertina


Da: Federico Platania, Bambini esclusi, Fernandel, 2011, pagg. 160, € 13,00


federico.platania@samuelbeckett.it