FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 23
luglio/settembre 2011

Vulcani

 

IN DIRETTA DAL VESUVIO
Cronaca di una eruzione

di Oscar Palamenga



Al giorno d’oggi, attraverso la televisione, abbiamo la possibilità di assistere quasi in diretta ai più importanti avvenimenti storici del nostro tempo. La spettacolarità di certe drammatiche situazioni, come ad esempio l’attentato alle torri gemelle di New York o l’allunaggio degli astronauti americani, ha avuto nel mezzo televisivo il più valido supporto per la diffusione della notizia.
La realtà passa attraverso il filtraggio della televisione, tutto è reale solo se appare in video, e gli storici hanno a disposizione delle fonti visive e documentarie come mai hanno avuto nel passato. Se gli storici antichi ricostruivano gli avvenimenti attraverso testimonianze, anche non dirette, e quindi rischiavano spesso di sbagliare o quantomeno di scrivere una versione dei fatti che “imponevano” i vincitori, oggi le testimonianze dirette rendono estremamente difficile taroccare gli eventi. Un esempio fra tutti potrebbe essere il filmato dell’omicidio del presidente Kennedy: c’è la dimostrazione evidente che non può essere stato solo Oswald dall’alto di un palazzo ad averlo ucciso; si possono notare altri colpi che provengono da una collinetta vicino al percorso dell’auto presidenziale.
La drammaticità delle immagini, inoltre, rende più gravi e significativi gli atti terroristici dei nostri tempi. Senza le immagini choc degli aerei sulle torri gemelle il panico che i terroristi volevano suscitare sarebbe stato significativamente inferiore!

In pratica, quindi, la nostra epoca ha nei mass media un’arma a doppio taglio che, se da una parte rende più obbiettivo il racconto, dall’altra alimenta fobie e paure spesso ingiustificate.
Viene da pensare al passato, a tutte quelle tragedie che, se registrate dalla telecamera, avrebbero forse cambiato il corso della storia. Pensate all’omicidio di Giulio Cesare, alle storiche battaglie dei Greci o dei Romani, agli scandali della Firenze rinascimentale: pensate a cosa ci avrebbero potuto lasciare geni come Leonardo o Michelangelo. E immaginate cosa ci avrebbero mostrato le immagini di alcune storiche catastrofi, come ad esempio l’eruzione del Vesuvio del 24 agosto del 79 d.C.
Ad essere sinceri una cronaca degli avvenimenti la possiamo trarre da alcuni testimoni diretti. I quali, come gli odierni cronisti di guerra, ci fanno un resoconto chiaro e dettagliato di quanto accaduto durante quella drammatica giornata.

Il più famoso tra questi fu Plinio il Giovane, nipote di quel Plinio il vecchio che fu tra le più illustri vittime di quell’eruzione. E proprio della morte dello zio il giovane Plinio parla in due lettere inviate allo storico Tacito. Sono la testimonianza diretta di quello che successe da quelle parti quando il Vesuvio si svegliò. Nella prima lettera ci parla delle ultime ore dello zio; nella seconda racconta invece ciò che vide e subì lui direttamente in quelle ore. Ecco il testo tradotto di quelle due famosissime lettere.




LETTERE DI PLINIO IL GIOVANE A TACITO
Da Lettere a Tacito, 104 d.C.


Prima Lettera

Caro Tacito,
mi chiedi di narrarti la morte di mio zio per poterla tramandare ai posteri con maggiore esattezza. Te ne sono grato giacché prevedo che la sua fine, se narrata da te, è destinata a gloria eterna. Benché infatti egli sia perito in mezzo alla devastazione di bellissime contrade assieme ad intere popolazioni e città, in una memorabile circostanza, quasi per sopravvivere sempre nella memoria, e benché egli stesso abbia composto molte e durevoli opere, tuttavia alla durata della sua fama molto aggiungerà l’immortalità dei tuoi scritti. Ben io stimo fortunati coloro ai quali per dono divino è dato di fare cose degne di essere narrate o di scriverne degne di essere lette. Fortunatissimi poi coloro ai quali è concesso l’uno e l’altro. Fra costoro sarà mio zio in grazia delle sue opere e delle tue. Perciò tanto più volentieri imprendo a compiere ciò che desideri, anzi lo chiedo come un favore. Egli si trovava a Miseno e comandava la flotta. Il nono giorno prima delle calende di Settembre verso l’ora settima (24 Agosto ore 13), mia madre gli indicò una nube insolita per grandezza ed aspetto. Egli, dopo avere preso un bagno di sole e poi di acqua fredda, aveva preso a letto un piccolo pasto a stava ora studiando; chiese i calzari e salì ad un luogo dal quale si poteva veder bene quel fenomeno. Una nube si innalzava (non appariva bene da quale monte avesse origine, si seppe poi dal Vesuvio), il cui aspetto e la cui forma nessun albero avrebbe meglio espressi di un pino. Giacché, protesasi verso l’alto con un altissimo tronco, si allargava a guisa di rami perché ritengo, sollevata dapprima da una corrente d’aria e poi abbandonata a se stessa per il cessare di quella o cedendo al proprio peso, si allargava pigramente. Talora bianca, talora sporca e chiazzata a causa del terriccio e della cenere trasportata. Il fenomeno apparve all’eruditissimo uomo, grande e degno di essere osservato più da vicino. Ordinò quindi di allestire un battello liburnico: mi permette, se lo voglio, di andare con lui; gli rispondo che preferisco rimanere a studiare, anzi per avventura lui stesso mi aveva affidato un compito. Stava uscendo di casa quando riceve un biglietto da Retina, moglie di Casco, spaventata dal pericolo che la minacciava (giacché la sua villa era ai piedi del monte e non vi era altro scampo che per nave). supplicava di essere strappata da una così terribile situazione. Lo zio cambiò i propri piani e ciò che aveva intrapreso per amor di scienza, condusse a termine per spirito di dovere. Mette in mare le quadriremi e si imbarca lui stesso per recare aiuto non solo a Retina, ma a molti altri, giacché per l’amenità del lido, la zona era molto abitata. Si affretta là dove gli altri fuggono, va diritto, rivolto il timone verso il luogo del pericolo, così privo di paura da dettare e descrivere ogni fenomeno di quel terribile flagello, ogni aspetto, come si presenta ai suoi occhi. Già la cenere cadeva sulle navi, tanto più calda e densa quanto più si approssimava; già della pomice ed anche dei ciottoli anneriti , cotti e frantumati dal fuoco; poi ecco un inatteso bassofondo e la spiaggia ostruita da massi proiettati dal monte. Esita un attimo, se deve rientrare, ma poi al pilota che lo esorta a far ciò esclama: ”la fortuna aiuta gli audaci, punta verso Pompoiano, un suo vecchio amico!”. Questi era a Stabia, dall’altra parte del golfo (giacché ivi il mare si addentra disegnando una curva). Quivi Pompoiano, benché il pericolo non fosse prossimo, visto che con il crescere poteva farsi imminente, aveva trasportato le sue cose su alcune navi, deciso a fuggire se il vento contrario si fosse acquietato. Questo, infatti, era del tutto favorevole a mio zio che arriva, abbraccia l’amico trepidante, lo rincuora, lo conforta e per calmare la paura di lui con la propria sicurezza, vuole essere portato al bagno; lavatosi, cena tutto allegro o, ciò che è ancor più, fingendo allegria. Frattanto dal monte Vesuvio in parecchi punti risplendevano larghissime fiamme e vasti incendi, il cui chiarore e la cui luce erano resi più vivi dalle tenebre notturne. Lo zio andava dicendo, per calmare le paure, esser case che bruciavano abbandonate e lasciate deserte dalla fuga dei contadini. Poi andò a riposare e dormì un autentico sonno. Giacché la sua respirazione, resa più pesante e rumorosa dalla vasta corporatura, fu udita da coloro che adocchiavano sulla soglia. Ma il livello del cortile, attraverso il quale si accedeva a quell’appartamento, era già talmente alzato, perché ricoperto dalla cenere mista a lapilli che, se egli si fosse più a lungo indugiato nella camera, non avrebbe più potuto uscirne. Svegliato, raggiunge Pompoiano e gli altri che non avevano chiuso occhio. Si consultano tra loro se debbano rimanere in luogo coperto o uscire all’aperto. Ma se in lui prevalse ragione a ragione, negli altri timore a timore. Messi dei guanciali sulla testa, li assicurarono con lenzuoli; fu questo il loro riparo contro la pioggia. Già faceva giorno ovunque ma colà regnava una notte più scura e fonda di ogni altra, ancor che rotta da molti fuochi e varie luci. Egli volle uscire sulla spiaggia e veder da vicino se fosse possibile mettersi in mare, ma questo era ancora agitato ed impraticabile. Quivi, riposando sopra un lenzuolo disteso, chiese dell’acqua fresca e la bevve avidamente. Ma poi, le fiamme ed il puzzo di zolfo che le annunciava mettono in fuga taluni e riscuotono lo zio. Sostenuto da due schiavi si alzò in piedi, ma subito ricadde perché, io suppongo, l’aria ispessita dalla cenere aveva ostruita la respirazione e bloccata la trachea che egli aveva per natura delicata e stretta e frequentemente infiammata. Il terzo giorno (il terzo dopo quello che aveva visto per ultimo), il suo corpo fu trovato intatto ed illeso, coperto dai panni che aveva indosso, l'aspetto più simile ad un uomo che dorme, che ad un morto. Frattanto a Miseno io e la mamma…ma ciò non importa alla storia, e tu non volevi conoscere altro che il racconto della sua morte. Faccio dunque punto. Una cosa sola voglio aggiungere: ti ho esposto tutto ciò a cui assistetti o che seppi subito, quando i ricordi sono più veritieri. Tu cavane ciò che più importa. Altra cosa infatti è una lettera, altra una storia; altra cosa scrivere per un amico, altra per il pubblico.
Addio.



Seconda lettera

Mi dici che, messo in curiosità dalla lettera che io ti scrissi a tua richiesta intorno alla morte di mio zio, ti è venuto il desiderio (come avevo cominciato ma poi interrotto) quali ansie e quali pericoli io patissi a Miseno dove ero rimasto. Benché l’animo rifugga dai funesti ricordi, inorridito comincerò. Partito lo zio dedicai tutto il mio tempo allo studio (con questo proposito ero rimasto): poi al bagno, alla cena, ad un sonno inquieto e breve. Molti giorni innanzi v’erano state, come preliminari, delle scosse di terremoto, senza però che vi ci facesse gran caso, perché in Campania sono frequenti; ma quella notte crebbero talmente da far sembrare che tutto pareva non già muoversi ma crollare. Mia madre si precipita nella mia camera; io stavo alzandomi a mia volta, per risvegliarla nel caso dormisse. Ci mettemmo a sedere nel cortile; un breve spazio separava l’abitazione dalla spiaggia. Non so se debbo definire coraggio od incoscienza (non avevo infatti che diciassette anni): mi faccio dare un volume di Tito Livio e come per passare il tempo leggo e anche, come avevo incominciato, ne traggo degli estratti. Ecco un amico dello zio, che da poco era arrivato dalla Spagna per incontrarlo; come vede me e la mamma seduti nel cortile, io per di più che sto leggendo, rimprovera lei per la propria indolenza e me per la spensieratezza. Non per questo io sospesi la lettura. Era già la prima ora del giorno, eppure la luce era ancora incerta e languida. Gli edifici attorno erano squassati e benché fossimo in luogo aperto, angusto però, il timore di un crollo era grande ed imminente. Solo allora ci decidemmo ad uscire dall’abitato; ci vien dietro la popolazione sbigottita e, ciò che il terrore fa sembrare cosa prudente, adotta il partito altrui invece del proprio, e in colonna preme ed incalza il nostro cammino. Giunti fuori dell’abitato ci fermiamo. Là molti prodigi, molti terrori ci sorprendono. I carri che avevamo fatto predisporre, benché il terreno fosse piano, rinculavano e neppure con il sostegno di pietre rimanevano al loro posto. Pareva inoltre che il mare si ripiegasse su se stesso, quasi respinto dal tremare della terra. Certamente la spiaggia s’era allargata e molti animali marini giacevano sulle sabbie rimaste in secco. Dal lato opposto una nube nera e terribile, squarciata da guizzi serpeggianti di fuoco si apriva in vasti bagliori d’incendio: erano essi simili a folgori ma più estesi. Allora quello stesso amico venuto dalla Spagna con più forza ed insistenza esclamò: “se tuo fratello, tuo zio è vivo, vuole che voi vi traiate in salvo; se è perito vuole che gli sopravviviate. Perché dunque indugiate a fuggire?”. Rispondemmo che non ce la sentivamo, nell’incertezza della sorte di lui, di pensare alla nostra. Non attese altro, subito ci lasciò e di gran carriera si sottrasse al pericolo. Dopo non molto quella nube si abbassò verso terra e coprì il mare: avvolse e nascose Capri, tolse di vista il promontorio di Miseno. Allora mia madre si mise a pregarmi, a scongiurarmi, a ordinarmi che in qualche modo trovassi scampo: io lo potevo perché giovane, non essa, per gli anni e la pesantezza del corpo, ma era ben contenta di morire, pur di non essere cagione di mia morte. Mi opposi, non mi sarei messo in salvo senza di lei; poi, prendendola per mano, la costrinsi ad affrettare il passo. Essa vi riesce a stento e si lagna perché mi ritarda. Cadeva già della cenere, ma ancora non fitta. Mi volgo: una densa caligine ci sovrastava alle spalle e simile ad un torrente che si rovesciasse sul terreno ci incalzava. “Tiriamoci da banda” dissi “finché ci si vede, perché se cadessimo per via, non finiamo schiacciati al buio dalla folla che ci segue”. Ci eravamo appena seduti, che, scese la notte, non come quando non v’è luna o il cielo è nuvoloso, ma come quando ci si trova in un locale chiuso a lumi spenti. Udivi i gemiti delle donne, i gridi dei fanciulli, il clamore degli uomini: gli uni cercavano a gran voce i genitori, altri i figli, altri i consorti riconoscendoli dalle voci; chi commiserava la propria sorte, chi quella dei propri cari. Vi era chi per timore della morte invocava la morte. Molti levavano le braccia verso gli dei; moltissimi affermavano che non c’erano più dei, che quella notte sarebbe stata eterna, l’ultima del mondo. Né mancarono alcuni che con finti e mentiti terrori accrebbero i pericoli reali. Sopraggiungevano taluni annunziando che a Miseno il tale edificio era crollato, il tal altro era in fiamme: notizie false ma che trovavano credito. Poi si fece un po’ più chiaro; ma quello non ci parve luce diurna, benché indizio del fuoco vicino. Il fuoco però si fermò alquanto lontano; poi fu di nuovo tenebra e di nuovo cenere, fitta e pesante. Alzandoci a quando a quando in piedi ce la scuotevamo di dosso; senza di che ne saremmo stati coperti e oppressi dal suo peso. Io potrei gloriarmi di non essermi lasciato sfuggire in mezzo a sì grandi pericoli né un lamento né un grido poco animoso, se non avessi pensato ch’io morivo con tutti e tutti con me; misera ma pur grande consolazione per la morte! Alla fine quella caligine si diradò e si dileguò in fumo e in nube. Poi si fece veramente il giorno e brillò il sole, ma pallido, qual suole essere durante un’eclisse. E ai suoi occhi ancora incerti tutto apparve mutato e coperto da uno strato di cenere come da neve. Tornati a Miseno, ristorammo alla meglio le nostre membra, trascorrendo poi la notte sospesa ed incerta fra timori e speranze. Prevalevano i timori che il terremoto continuava, e i più, impazziti, con terrificanti presagi si burlavano dei propri e degli altrui mali. Noi però neppure allora, sebbene avessimo corso pericoli e altri ne attendessimo, pensammo ad allontanarci fino a quando non avessimo avuto notizie dello zio. Leggi tutto ciò come non degno di essere scritto in una storia; e incolpa te stesso che me ne hai chiesto, se non ti parrà degno neppure di una lettera.
Ti saluto.


o.palamenga@tin.it