FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 23
luglio/settembre 2011

Vulcani

 

GFP

di Annelisa Alleva



Compassioni della mente è il nuovo titolo che si aggiunge all’opera poetica, fin qui articolata in undici libri, di Gianfranco Palmery. È difficile dare una sigla alle parole di un poeta, e in modo particolare a questo poeta nel quale vita e poesia da sempre coincidono. Un appartamento in un quartiere di Roma che ha una sigla per nome: EUR. Attraversato da una strada di grande, veloce scorrimento, Viale Cristoforo Colombo, che per un caso del destino porta al mare, in direzione dell’antico porto di Ostia. E, neanche a farlo apposta, una moglie americana: Nancy Watkins, artista cresciuta sulle rive del lago Michigan, alta, spirituale come lui. Una gatta nera pettinata ogni giorno con cura come se fosse una bambina, e che di una bambina ha il nome, Marzia. Selvaggia, ardimentosa e guerriera. Amici distillati che visitano la casa, che fanno squillare il telefono di tanto in tanto. Il mistero intorno alla sua età, svelato da pochi. Due grandi baffi rossicci venati di bianco. I capelli sottili arruffati. Gli occhiali severi. Gambe lunghe che hanno molto camminato. Ascendenze transalpine e siciliane, cioè un maledettismo romantico francese e una demonìa barocca manierista siciliana, succulenta quanto amara.

In “1970”:

                         (…) scampanando
      cercavo scampo, mallarmeando a-
      mare marmellate di rimpianto.

Un amore grande per i libri, per la letteratura in genere. La ribellione come gesto estetico della giovinezza ai tempi del liceo, al Visconti. Anni di “viaggiatore da camera”, e di città (biblioteche, palestre di boxe, mescite). Poi un soggiorno lungo e avventuroso in California, con letture di poesia tenute in varie università: Pomona, Scripps, San Francisco… Poi la critica militante a “Il Messaggero”. La direzione di una rivista molto raffinata nella veste e nella sostanza, “Arsenale”. Poi una casa editrice con tanti piccoli libri color pastello, e illustrati: “Il Labirinto”. Traduzioni, articoli affilati sulla rivista “Pagine”, con una propria rubrica, “Appunti e disappunti”. E i disegni, marcati con tratti decisi, di se stesso e dei suoi animali totemici. Direi incisi, come incise sono le parole, graffiate, infierendo sulla carta, che poi è la sua stessa pelle. Versioni dal francese, dall’inglese, dal latino verso il romanesco. Libri pubblicati quasi sempre con la sua casa editrice, qualche volta celandosi dietro uno pseudonimo. Scrittore di feroci, acuti aforismi, ne Il poeta in 100 pezzi del 2004, per esempio. Una selezione di poesie tradotta ultimamente in inglese, Garden of Delights, da Barbara Carle, e uscita per le edizioni Gradiva Publications nel 2010. Un talento speciale, vorrei ancora dire, da poeta, da editore, ma anche da scopritore di talenti nuovi, per i titoli. Rabdomante esperto per tutti e due, titoli e talenti, che sono un po’ la stessa cosa. Un collocare la testa sulle spalle di qualcuno o qualcosa.

Gianfranco è sempre stato molto alto e magro, ma ultimamente è ancora più scarno. È sempre lui, certo: affettuoso a suo modo e curioso del mondo esterno, coltissimo, interlocutore veloce e ironico, pronto al calembour. Ma è anche stanco, come chi sia esausto di lottare. E, se si va a scavare, si scopre, proprio dalle sue poesie, e non solo da queste ultime, che la lotta ingaggiata da lungo tempo è con se stesso. Un se stesso che lo ha pungolato per tanti anni – e allora veniva chiamato “caro despota” – e poi ha infierito proprio quando lo ha visto indebolire, e a quel punto si è fatto via via più crudele, indecentemente crudele.

In “Spavento puro”:

      Mi spaventa la pace e anche il furore
      nemico con cui mi tolgo la pace
      mi spaventa – (…)

Stando alle date che accompagnano il titolo all’interno del libro, queste poesie sono state scritte fra il 1997 e il 2002. Caratteristica importante di tutto quello che esce dalle sue mani e viene stampato: Palmery pone in mezzo, sempre, un tempo per la gestazione/digestione della sua opera, prevede sempre un tempo “da cassetto”, di silenzio, per tutto quello che fa. Un tempo di oscurità prima di consegnare alla luce il manufatto. E cita in epigrafe una frase di Hedayàt significativa in questo senso: “L’origine della bellezza è nella paura e nell’oscurità”.

Tenebroso, inutile dirlo, è il carattere di chi estrapola sapientemente e pazientemente questa citazione dalle letture di una vita. Una vita segnata dalle pietre miliari dei versi, che sono anche i sassolini lasciati per ritrovare la strada di casa. Del suo citofono, sul quale sono incise a caratteri gotici tre lettere enigmatiche che ne riassumono il nome e il cognome, e allo stesso tempo l’identità: GFP.
Il percorso di Palmery è coerente; fedele, fedelissimo è stato il suo servizio alle lettere. Coerente il suo stile molto curato, il suo modo personalissimo di giocare con le assonanze, in un verso che a tratti cede alla tentazione di un perfetto endecasillabo, a tratti lo rifugge.
Questo l’esempio di una chiusa bellissima tratta da “Veglia”, nell’ultima raccolta:

      nuvole luminose come lune
Dopo non segue un punto; nessuna di queste poesie, infatti, si conclude con un punto. La mancanza del punto è una spia della sua angoscia esistenziale. Hanno, invece, quasi tutte, un titolo, come una nascita, una partenza, una direzione, un punto cardinale, un orientamento. Una indicazione di percorso.
E descrivono la lacerazione di chi non ha mai raggiunto un equilibrio con l’esterno, perché ha esagerato con l’interiore e l’interno inteso come vita chiusa, prigioniera delle pareti domestiche. Una scelta estrema, in parte voluta, in parte no. Una posa romantica solitaria, misantropica, eremitica condotta agli estremi. Uno sdegno regale, orgoglioso, implica, purtroppo, una forma di sudditanza al proprio ruolo.
Così scrive Palmery in una poesia all’interno della sequenza “Vulnerario”:
      Se sceglierai il silenzio ora sai
      che porterai nel capo il suo frastuono:
      l’insegna invisibile micidiale
      di Medusa: i suoi fischi i fruscii i colpi
      di frusta che saettano all’orecchio.
      Ah il rombo del silenzio, il sibilo
      della solitudine! Da solo solo faccio
      un silenzioso fracasso

Ci troviamo nella cripta umida, buia, di una chiesa dell’ordine dei Cappuccini, piena di ossa sistemate ad arte, intrecciate, così che il corpo umano, massimamente scabro, non sia più riconducibile a uno scheletro, non sia più umano, né corpo, ma disegno, ornamento infiorettato. Abbiamo davanti un disperato, pieno di rimpianto per la vita, ma anche perseguito, ricreato ad arte, sofisticato, macabro trofeo. Qui sta la bellezza, e qui l’ossimoro: “silenzioso fracasso”. Le ossa possono anche assumere paradossalmente le fattezze di una tromba, di un organo, di un’arpa… e fare così fracasso in un silenzio di tomba, un silenzio assordante. Uno spiffero, “il sibilo”, può passare attraverso due grandi orbite oculari nere e vuote, proprio come quelle raffigurate da Palmery nel dipinto “Mutazioni” sulla copertina della raccolta L’io non esiste del 2003, o essere più direttamente il sibilo di una serpe come quella riprodotta sul retro dello stesso volume, in posa acciambellata come il disegno del gatto sulla copertina della raccolta poetica Gatti e prodigi, nella collana “Tarsie”, uscita nel 1997. La posa acciambellata ricorda le circonvoluzioni cerebrali, qualcosa di molto rannicchiato, aggrovigliato, inestricabile, labirintico.

In “Anni serpenti”:

                              (…) anni serpenti
      che mi rientrate da vene e giunture!

Oppure, in “Contro di sé”:

                             (…) – tesso
      e ritesso in un intreccio serpentino

Anche le copertine di Nancy Watkins parlano: il suo “Red Burst” (Combustione rossa), una tesa, violenta esplosione floreale sui toni del rosa e del rosso sulla copertina di Garden of Delights, appare come una risposta alla raccolta italiana, da cui il titolo dell’antologia americana deriva: Giardino di delizie e altre vanità, del 1999, e sulla quale il poeta aveva scelto di porre il suo “Gladioli”. Qui ne figura uno che, se non si può dire acciambellato come il gatto e il serpente, definirei ripiegato su se stesso. Il fiore – quasi un becco animale, sul punto di sfiorire.

Nella sezione “Grani e gocce”, che reca sotto il titolo una citazione da Lowry: “Ero sempre io quel velenoso scorpione / che si pungeva a morte sotto una pietra”, scrive a p. 36:

      Chi fermerà il furore circolare
      del cervello che s’inarca scorpionesco
      E ricade carnefice su se stesso, (…)

Nancy è anche la fotografa del marito, e lo ritrae in uno scatto ritagliato in forma di medaglione sulla copertina del volume Il poeta in 100 pezzi, mentre viene azzannato sul collo da un enorme muso leonino di marmo.

In “Artigli” Palmery scrive:

      Erano sempre belve – ma l’amore
      le faceva ammansiti leoni:

      di loro è rimasta in me la fame
      leonina: sono qui nel mio cranio, agitano
      i magri fianchi di fiere fameliche:

L’ossessione qui è nella ripetizione delle lettere “f”, “m” e “n”, che ricorrono in questi versi e che sembrano imitare il verso aggressivo, minaccioso delle belve.

Scrive Palmery nella IV delle “Antagonie”:

      lascialo fuori, il pensiero cane, al freddo
      della notte novembrina, con la sua fame
      fuori – che non si affacci alla cucina
      del cranio a crapulare: inedia e freddo

      lo conceranno – e addio alla sua smania canina:
      fiato e denti e zampe: sempre a zomparmi
      addosso! altro che cane: cuore e zanne
      di lupo che miravano al gozzo

      e fare il morto non era di aiuto

Qui la posa, il “fare il morto”, non è d’aiuto a questa zuffa, “la gran / baraonda della mente” tutta simbolica, ma non per questo meno disperata, e maledettamente zitta, fra il poeta e la sua ossessione.

Lo scrittore novecentesco persiano Sadègh Hedayàt citato in epigrafe, insieme con Rimbaud e Wittgenstein, dal poeta, fu anche l’autore di un romanzo intitolato La civetta cieca.
Forse aveva un’idea simile a quella di Palmery, come dimostra l’epigrafe: immaginava anche lui animali acquattati nell’ombra, nei quali si rispecchiava la sua immagine deformata di Narciso.

In “Meridiana”:

      Buona, mia belva, ritira gli artigli: lasciami
      quieto e illeso al sole – allontanati
      tutti i pensieri (…)

In “Il folle del diavolo”:

      (…)
      sono al giornaliero servizio in
      veste di buffone folle nano – il folle
      del diavolo, l’idiota che si volta
      e rivolta come un calzino il cervello
      per far ridere il suo assassino, dis-
      armargli la mano

Palmery sta descrivendo un gioco masochista con se stesso: perché quel “dis-“ prima di andare accapo? È troppo classico, il suo stile, per compiacersi delle scomposizioni di parole sul finire del verso. Lì è riprodotta graficamente l’immagine del rivoltarsi il cervello/calzino, nell’enjambement finale. Ho appena detto che Palmery ha gambe lunghe, e molto esercitate nel camminare. Qui ne usa la lunghezza per andare accapo. Immagino voglia sfilare l’arma al nemico, e nasconderla nel calzino, ottundendone così le asperità. E poi gettarla via, al vento o nel profondo del mare, e salvarsi, seppure scalzo e scervellato. E per questo usa il verso.


Gianfranco Palmery, Compassioni della mente, Passigli, Firenze 2011, pp. 88, prefazione di Sauro Albisani, euro 11,50


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