FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 22
aprile/giugno 2011

Miti & Leggende

 

STAGIONI DEL BASSO MONDO

di Francesco Dalessandro



Rappresentare il momento decisivo dei sentimenti con i soli termini del linguaggio è compito veramente impossibile. Le parole scritte non ne permettono che una specie di traduzione.
Il compito che mi spetta e che cerco di assolvere è di riuscire, col potere della parola scritta, a farvi udire, a farvi sentire – di riuscire, soprattutto, a farvi vedere.

                                                                                        Joseph Conrad

Onde poniam che di necessitate
surga ogne amor che dentro a voi s’accende,
di ritenerlo è in voi la podestate.

                      Purgatorio, XVIII, 70-72
 


Così, scesa la sera con le fragranti ombre                         marzo
lilla avvisaglie della prossima trionfante
primavera dietro il colle Vaticano tornati
con sollievo il bel tempo e l’avvenente luce
tardiva dell’ora legale, le reti di un altro
giorno della vita passato con fatica
nelle invernali e chiuse stanze con fili
di storie riparo e mentre a rinarrarmi
ore e freschi orizzonti tremuli d’ali e cirri
nel precipite sereno vaganti io riprendo,
sui chiari viali accecati di luce sui platani
frementi di piume vive foglie e i brevi
tornanti avvolgentisi in alto, dove pini
e cipressi incoronano la vetta e luminoso
l’Osservatorio al loro centro dominante
con l’oro delle cupole sul basso mondo
e le viventi sue stagioni ora si leva fermo
e fatidico emblema di sé, già il crepuscolo
si addensa

dopo cena – tornato il silenzio la casa
tranquilla addormentandosi la città,
bava di luci oltre le chiome al vento
del Pineto notturno gementi, lontana
preparata al riposo – le ragioni
della resa ritrovo, premessa ai versi
che l’io sentimentale secerne con ingenua
vena (canto stremato) nell’adagio della
fresca notte marzolina al compleanno
imminente promessa d’acqua e fuoco
che scaldi alla sua lingua il discorso
fatuo d’amore e morte, e doloroso errore…


uno sperpero di luce alle finestre                                     compleanno
aperte: l’alba, il chiarore nella stanza
più interna della casa si fa ombra
devota: ristoro al risveglio, prolunga
il torpore dona calore i sensi
già svegliandosi fervidi al risorto
affanno della colpa del pensiero,
pungolo al nuovo giorno poi che l’ora
beata e casta di perdizione e perdono
svanirà presto nel pigro e sensuale
prolungarsi di raggi fra tagli di persiane
scolorite, svolta rapida al mattino
in cui forma diversa potrà avere forse
la vita, non atteso e non temuto giorno
in cui migliore sembrerà l’avvenire,
svettante fiamma cremisi di speranza
e rimpianto –
                   pietà, pietà dell’ora, dèi
generosi e famigliari protettori
del compleanno, pietà del tempo e dei
miei passi drogati di sonno, sia pace
in questo giorno dell’anno
in cui l’amore non è eccesso ma fiorito
tabernacolo e vacanza
                               se in tanta
derelizione mattutina appiglio
di fede non c’è, né pentimento
che possa sacrificare ai quarantuno
anni di passione e morte, né cuore
o fiore da acquistare o conquistare
col solo merito di sguardi innamorati,
né giunto il tempo che su pascoli
amari ci strina la passione, tormento
dei sensi, potrò scegliere l’amore
che l’illusa speranza del sole
marzolino, estremo inganno, ai vetri
impolverati regala, se domani aprile
acqua sul fuoco getterà invernale
tornerà l’aria o l’umor nero i freschi
e nubilosi giorni opprimerà


quella lucente mattutina prima                                        aprile
stella il nascente giorno annuncia mentre
discendo e tralucente da vapori
lattescenti di smog Santa Maria
Maggiore sotto il cielo delle sette
e mezzo si mostra, però dietro
muri d’edera baluardi di siepi
incolte come pensieri una diffusa
bruma l’immagine occulta
della città la sua grazia il pallore
luminescente; dai belvedere – nell’aria
celeste o ancora livida come in tempo
di neve come aprile s’arrendesse
a un tardivo ritorno d’inverno –
dai belvedere ai Prati scendo mentre
il giorno ascende insieme al volo
che dall’oro di cupole e chiese spazia
con volute eleganti sopra Monte
Mario e le ville a mezza costa il fiume
lentissimo dei padri e l’ocra
                                   (assorto
dono di meraviglia, è un vascello
fantasma la città un errante clipper
spettrale nel biancore della bruma
del sogno – anche noi morsi
dal nostro desiderio siamo spettri
destinati a un errare da ripetersi
per sempre)
               sul mercato che colori
e profumi elargisce al mattutino
inganno, benessere e vita all’offuscato
quartiere borghese alle sue vie
squadrate ai vigorosi platani svettanti
verde e foglie novelle ai miei otto
lustri appena trascorsi all’avvenente
tentazione di un amore ai suoi
festini forse all’ansia controllata
riconosciuta a ogni passo per queste
vie chiare e dolenti dove la miope
rima raccoglie luce, concorde l’ora
l’andare tra questi nomi antichi
di nemici del papa-re, nemico io
di me


         di un migliore avvenire fra loro                                pasqua
ora parlano sirene, di un’ostia d’amore
sciolta in bocca (o palma benedetta
come in chiesa vedevi da bambino
la domenica delle palme e non sapevi
il mistero terribile che il verde
rametto d’olivo rinnovava) un’emozione
antica spezzata degustata in piccoli
bocconi di un amore da mangiare,
amore-cibo tre volte rinnegato –
                                           il sole
sul quartiere della Vittoria e le ferventi
arterie dove regna indolente la nostra
quotidiana sconfitta (ma accanita fa quadrato
e si difende la voglia di vivere armata
solo di sogni o speranze di futura
fortuna, sfuggente e capricciosa, mai
ferma come si crede ad aspettarci
dietro l’angolo), il sole sparge oro,
su Monte Mario ha riflessi lancinanti
aculei di luce e gelo fitti tra folte
cime sempreverdi –
                         e il tempo scorre
come l’acqua come il traffico stordito
e lento mattutino come la mia vita
ogni giorno più grave e il dolore pungente
la nuca pensiero dominante come l’amorosa
sofferenza e lo sguardo sui capelli
neri o le nere pupille come l’ansia
e i suoi lievi sospiri presagi di fosca
sibilla come i versi –
                           io tutto che scorre
amo tutto che vola: candide nubi e bruni
uccelli nei cieli del Lazio migranti
fuggenti sui colli immortali, ragione
e cuore guidati da una remota o neo-
nata passione, poi che passando con
passo leggero l’ampia soglia scendendo
scale mobili e gente alla gran riva
acherontea appressarsi con smarrito
sguardo guardando, da lei divisi la cercano
i miei occhi, minuta figura tra la folla
ignava delle otto, martedì della mia
settimana –
                e Pasqua senza resurrezione
passa, passaggio annunciato da un volo
di pallidi uccelli albanelle minori del
mattino


a un approdo sereno nella sera di maggio                          maggio
le rondini – ascolto i loro gridi vedo i voli
rapidi virare oltre finestre e gronde
tra una selva d’antenne ai digradanti
attici verso via di Donna Olimpia
dal terrazzo di Sandro, mio solitario
ricovero porto di brume all’anima o luce
morente al cuore: come ieri un pensiero
nella mente mi ragiona e si smarrisce,
pensiero offuscato in cui il mondo
quattro piani più in basso è una calma
tentante attrattiva, un invito al riposo –
nella tiepida sera di maggio le rondini in estri
e facili correnti svolgendosi all’approdo
del sonno fanno ressa fanno piena, vespertina
prece tesa a svanire fino a perdersi
come i gerani amicali nel trascolorare
lento delle prime ombre notturne
oltre i vetri della porta-finestra, e confuso
nel pensiero di un mortale intenerirsi
sedimenta solitario il ricordo che affanna,
frana senza pudore né morale
civiltà un matto orgoglio nel pianto
del cuore quando torna leggerezza,
figlia pallida e frale di quest’amoroso
fantasticare, e il volto lo sguardo accigliato
scruta e chiede e non sa né forse vuole
sapere, che aguzza e dolente come spino
di rovo è l’ansia nell’elegia d’ogni sera,
un simulacro vuoto divorante il sogno
e se stesso, come un tarlo nel pensiero
nel legno cavo che è, mentre cova
e incombe il temporale: nel notturno
transito d’acqua puerilmente anche il giorno
avrà lacrime e pena; malinconica speranza
d’amore, il fuoco dell’assenza con cieca
illusione riaccende e domani il quotidiano
affanno spegnerà come la pioggia
violenta stanotte schianta i rami tenerelli
degli allori, vanagloria di un ritorno
nel grembo materno protettivo della nostra
comune ingloriosa abitudine a volerci
amare


del mattutino dolo stella, maligna                                     anniversario
e sola ancora brilli quando il primo
raggio invade la penombra e nella stanza
alligna come la vite che nell’imo suolo
alla nemica sua cugina edera viva acqua
d’amore e luce di speranza contende o rade
tardive rose nell’aiuola e nel giardino
al sole appena tiepido aperte proclive
alla passione dei sereni ultimi giorni
di maggio: nel maggiore anniversario chiara
la beltà ne godranno le tue assorte
pupille e arse lo sguardo l’interna
pena che prepara la loro vespertina
pudica morte avvertirà nel raggio
che le avvolge e dora, vita che si arrende
all’amore e alla realtà della sua santa
consumazione


col primo sole (dall’arco del nuovo                                     giugno
giorno dardeggia con rinnovata asprezza
i giardini la strada la cortina grigio-
perla dei palazzi) nasce l’ultimo
seme di giugno e il calore è un invito
a vivere la rinata passione con coraggio
e dedizione, a goderla senza il falso
pudore che l’osteggia, come luce
mattutina vincente brume e nebbie
sul parco e le sue valli già scorrendo
oltre il Pineto vita nelle arterie
cittadine schiarendo l’aria sui verdi
declivi maculati di trionfanti ori
e inoltrandosi la strada nel chiuso
quartiere sui colori dei balconi
e il viola dei glicini –
                           al volgere pigro
del tempo va perdendosi il giorno
nell’alacre transito meridiano
dopo la sosta e il loquace intervallo
del pranzo il veloce rianimarsi dei viali
nell’usuale ansietà del ritorno e della
cadente luce, coi raggi di un amore
prossimo alla sua consunzione o redento
dal nuovo peso di minuti e uguali
ore di pena di piccole e incoscienti
felicità ma quieto nel presente stato
di colpa e di castigo:
                           non amara
la sorte benigna lo preservi e salvi
per gli anni futuri o solo per l’ora
tranquilla quando l’ombra serale
sul parco abbandonato scenderà
e il vento teso fra i tralci e le foglie
della vite americana la serale luce
spegnerà, quando nel buio luci
di muti sguardi aprono varchi al desiderio
carnale alle doglie dell’alterna brama,
fiamma di perdizione e di lasciva
dolcezza –
               e tu sul mondo solitaria
dal cielo ancora pace adduci ignara
serena imago mattutina, morte


ma né il morire né l’io – come martire                                 luglio
solo affidando alla sua malinconia
la povertà di caldi giorni sempre uguali
a se stessi e puerili al pensarli ogni sera
morti, prodigo solo nello sperpero
e nel vanto della pena, nell’opprimente
calore che scalda il cittadino teatro
il mattutino proscenio dove il sole
il corso del suo passaggio con infantile
entusiasmo inizia e amore per la vita
per l’oscena sua commedia – né l’io
sentimentale né il suo corpo mortale
al mondo e ai venturi giorni sottrarre
potrò finché l’ora a mia immagine
ascenda e in me vita e poesia imperituro
amore saldi e confonda e mia emotiva
amante impudica sorella morte si libri
e liberi:

nell’aria azzurrina, la città come dietro
una lucida vetrina fa brillare
                                     (è per la vita
nelle strade come i suoi fiumi corrente
rumorosa e concreta a un quotidiano
approdo di miserie inconsolabile
che – frattura insanabile tra sogno e verità –
una delusa grazia si anima al sole nell’incerta
certezza del presente)
                             e fra svettanti
rami di platani respira mentre nel puro
vuoto della realtà io m’abbandono
e al soffio leggero m’affido, diabolica-
mente colpevole di amare e non volere
amare


confuso –                                                                    agosto
come questo mattino, quattro agosto,
tutto oltre l’ocra dei più prossimi
palazzi e profili fantasmatici di chiese
e cupole oltre il Centro in una nebbiolina
velenosa celando, orizzonte immateriale
come la passata gioventù, come la prossima
derelizione – io confuso nel cuore e
nella mente mentre ancora addormentata
è silenziosa la coscienza e con puerile
estro all’ariosa vista l’anima esulta, elusa
l’ancora viva ingenuità che speranza
nel mondo nuovo sa ispirare, deluso
di me guardo questa città smisurata
che sotto la volatile coltre nel torbido
mattino più piccola e raccolta si mostra
e m’appare, immergendomi anch’io
particella minuta nel suo bruno ventre –
fino a sera fino all’ora dolce del ritorno
a casa


(con te nella mente mia offuscata musa                             ferragosto
gli stessi viali nell’ombra dei platani
nel fraterno quartiere d’ogni mattutina
discesa nelle viscere urbane e serale
resurrezione e fiorite d’oleandri e allori
a schiera le vie che le ferie di agosto
fanno salve dal traffico vitali ripercorro
nel caldo che si stempera e placa coi freschi
estri del ponentino sotto un terso cielo
guidando assorto a un’elezione di parole
nuove)


nelle sere tranquille, quando l’ultima                                  settembre
cicala s’è spenta e l’aria si addolcisce
nei minuti precedenti le prime
finestre accese e l’insonnia di chi l’afa
della città non può fuggire, le linee
tormentate dei miei versi come nere
colonne di formiche in marcia
o solchi arati con lavoro paziente
vedo brillare: in pace con me stesso
scendo in giardino e aperta l’acqua innaffio
la rada siepe di lauro che cerchiamo
da tre anni di crescere, mia
poesia


livida acqua trascorrente vita                                          ottobre
nel limpido mattino
e nell’ora al mio sguardo assonnato
destina
la duplice visione: a pelo d’acqua
un armo a due, voganti
cuore e ragione, e sulla lenta
corrente a galla un grosso topo
morto scivola verso la sinistra
riva
dove un vecchio barcone all’ormeggio
dondolandosi culla chi ancora
in queste prime ore
di luce dorme e non sa che desolati
segni con la sua cupa
acqua il fiume rechi al giorno: fatica
e pena nuove, sirene senza canto
risorte al tardivo appena tiepido sole
d’inizio autunno sulla piazza dove
Tritone si erge a sfidarne lo sguardo
mentre assistono al volo degli storni
(forse solo avanguardia del grande
stormo che al primo freddo i nostri cieli
oscurerà), dei pochi che sui platani
del Centro hanno dormito: verso l’assolata
campagna romana li spinge l’istinto,
ma ancora
indugianti sui viali e le ormai spoglie
vette intrecciano voli striduli richiami –

«non guardarli, non sperare
che anche per te s’aprano le gelide ma terse
vie del cielo!»

per altra via dovrò salire ad altri
approdi conviene che mi porti, san Nicola
da Tolentino, più terreni e riparati muti
di luce in cui passare il giorno e assenti
gli affanni non sentire non sapere mi sia
grande ventura, ma prima permettimi
una sosta da Pietro che sulla sua pietra
tintinni il prezzo della prima tazzina
di caffè, nel tepore del bar nel suo brusio
bevendo e parlando lasciami preparare
all’ascesa del giorno…


Il testo proposto è parte del poema intitolato L’osservatorio, ora ripubblicato - in una versione ampiamente rivista - dalla casa editrice Moretti & Vitali, con le testimonianze di Attilio Bertolucci e Gianfranco Palmery. Il libro era già stato pubblicato nel 1998 (Caramanica).



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